142.

«È una storia triste.»

«Mi prendi per il culo?» replicò Erwan.

Morvan si fermò in un androne all’angolo tra rue Danielle-Casanova e place Vendôme, che proprio in quel punto diventa una breve arteria prima di fondersi, qualche civico dopo, con rue de la Paix. Era uscito da Charvet, dove aveva comprato qualche camicia. Ci aveva messo anni, addirittura decenni per accettare l’idea che si potesse fare shopping nel bel mezzo della giornata. Ora per lui era diventata una forma di terapia: quando non gli restava altro, poteva sempre contare su quello.

Suo figlio urlava nell’auricolare: «Come hai potuto tenermi nascosta tutta questa storia?».

«Non te ne ho parlato perché non ne valeva la pena.»

«Un complice dell’Uomo Chiodo che ora dovrebbe avere una cinquantina d’anni... Sai bene che cerchiamo da giorni un sospettato a conoscenza del suo modus operandi! Hai l’Alzheimer o cosa?»

Morvan sospirò: era sicuro che andando in Belgio Erwan avrebbe ritrovato le tracce del bambino. «Il tuo assassino non può essere Arno Loyens.»

«Perché?»

«Perché è morto nel 1973.»

Silenzio all’altro capo del telefono. Forse Grégoire avrebbe davvero dovuto parlargliene. Perché raccontargli altre bugie? Troppe piste confondono il cammino...

«Parla», ordinò Erwan.

«Suor Marcelle non conosce tutta la storia. In realtà non gli feci cambiare nome. Non è così facile ottenere documenti falsi. Mi limitai a metterlo in un orfanotrofio del Belgio francofono, nella provincia di Hainaut. Un istituto religioso molto noto all’epoca...»

«È morto lì?»

«Nel novembre del ’73, il giorno della festa di Ognissanti. Ci fu un incendio. Un gruppo di ragazzi bruciò insieme ad alcuni sorveglianti.»

«E questa che storia sarebbe?»

«La verità. La puoi leggere sui giornali dell’epoca. La notizia fece molto scalpore perché l’edificio che prese fuoco era un prefabbricato costruito alla bell’e meglio, che non rispettava nessuna norma di sicurezza.»

Il silenzio di Erwan era come un pedale del freno premuto fino in fondo. A Morvan sembrò di sentire il suo scetticismo vibrare nell’auricolare.

«Arno Loyens era tra le vittime?»

«Andai al suo funerale. Stai soltanto risvegliando ricordi dolorosi.» All’epoca Grégoire aveva pensato che, dopo il supplizio dell’Uomo Chiodo, il piccolo fosse destinato a morire prematuramente. Quella storia non poteva avere un lieto fine.

«Il ragazzo aveva partecipato a nove omicidi», riprese Erwan, imperturbabile. «Era traumatizzato dalla magia yombe. Passava il martello a Pharabot, gli preparava i chiodi... Sarebbe l’uomo perfetto per gli omicidi di oggi...»

Morvan attraversò l’immensa place Vendôme, le cui vetrine, come feritoie di un bunker tedesco, erano cariche di gioielli preziosi. Il figlio cominciava davvero a stufarlo con i suoi sospetti del cazzo. «Il fascicolo d’indagine è stato chiuso ieri», lo interruppe. «Avresti già dovuto passarlo al giudice.»

«Prima mi assicurerò che Arno Loyens sia morto davvero.»

«Cazzo, Erwan, ho letto i referti dell’autopsia, ho visto i corpi dei ragazzi all’obitorio, ho parlato con i poliziotti incaricati dell’inchiesta!»

«Recupera il certificato di morte, i verbali e le testimonianze. Dammi le prove che questa storia è davvero chiusa. Altrimenti ti faccio sbattere dentro per intralcio delle indagini.»

Suo padre non badò troppo a quel numero da sbirro. Era arrivato in rue de Rivoli, dove il traffico raggiungeva un’intensità sconcertante. «Certo che oggi sei proprio in forma», disse in tono sarcastico. «Dove ti trovi?»

«Alla Gare du Nord. Sto scendendo dal treno.»

«Dovresti passare da tua sorella.»

«Cosa c’è ancora? Mi ha lasciato tre messaggi ma non l’ho richiamata.»

«Fallo. Questa storia l’ha scioccata. La faccio tenere d’occhio da due dei miei uomini, ma lei è ancora preoccupata.»

«Per cosa, di preciso?»

Grégoire aspettò a rispondere, alimentando la paranoia galoppante del figlio. «Crede di essere seguita. È diventata una fissazione.»

«Passerò da lei questa sera.»

Erwan riagganciò senza salutare.

Morvan nel frattempo era giunto all’altezza del giardino delle Tuileries. Dopo qualche passo si lasciò alle spalle il frastuono di rue de Rivoli per inoltrarsi nel silenzio ovattato del parco. Tutt’a un tratto si accorse che stava arrivando l’autunno: l’aria frizzante, le foglie rosse, i rami spogli che ricordavano capillari di pietra. Un paesaggio contratto, come un corpo in apnea che consumi lentamente la propria riserva di ossigeno.

Non aveva detto tutta la verità al figlio, e all’epoca nemmeno a suor Marcelle. Era stato lui a guidare i soldati zairesi alla baracca di Pharabot, lui a scoprire il bambino tremante di paura, sepolto sotto i feticci e gli strumenti di tortura... Gli era parso di vedere un angelo: capelli quasi bianchi, fronte alta, occhi incantevoli. In quel corpo a suo modo trasparente si potevano leggere le fonti cristalline delle origini seguite dall’abiezione dell’uomo. La cosa più inquietante era la somiglianza con Pharabot.

Nono.

Mentre tutti si congratulavano con lui per aver risolto il caso e Mobutu gli faceva il regalo avvelenato di una concessione mineraria, Morvan cercava un luogo sicuro dove sistemare il piccolo. Lo aveva trovato in Belgio, vicino al villaggio di Honnelles: l’istituto religioso di Malapanse. Nessuno lo sapeva, ma all’epoca era stato quello il suo unico vero trionfo: salvare un bambino dalle grinfie del diavolo e da un procedimento giudiziario.

L’anno successivo non era andato a trovare Arno, temendo che la sua visita potesse ricordargli l’incubo di Lontano. Quando aveva saputo dell’incendio, la notizia lo aveva sconvolto, senza però sorprenderlo davvero: dall’Uomo Chiodo e dai suoi complici non poteva venire niente di buono. Il fuoco rappresentava la degna conclusione di tutta quella storia. Letale.

In quel momento, calpestando un tappeto di foglie secche, ebbe l’impressione di schiacciare mani di bambini. Rivide i corpi anneriti all’obitorio, i referti delle autopsie, i certificati di morte. Aveva verificato: era stato sicuramente un incidente, alla peggio un caso di omicidio colposo: i circuiti elettrici, come tutto il resto, erano stati installati con estrema incuria. Uno sbalzo di tensione era bastato a ridurre in cenere il dormitorio...

Provò un moto d’odio nei confronti di suo figlio. Quel ficcanaso era riuscito a fargli tornare in mente il tragico epilogo della vicenda. Sull’altro lato del parco scorse il complesso del Musée d’Orsay, sormontato dal colossale orologio. La rive gauche non aveva niente da offrirgli. La sponda degli artisti, dei bobo, dei perdigiorno. Doveva tornare indietro e raggiungere al più presto il suo appartamento, nell’VIII arrondissement.

Era diretto verso la grande rotonda della Concorde quando fu colto da un ricordo improvviso. Rivide il bambino rannicchiato nell’antro dell’assassino, il suo corpo esile, la testa piena di episodi abominevoli, di fatti indicibili. Poi, senza soluzione di continuità, i cadaveri dei ragazzini carbonizzati nei carrelli refrigerati. Poteva essere successo qualcosa? Un imbroglio? Un equivoco?

Accelerò il passo. Forse suo figlio ci aveva visto giusto. In ogni caso, doveva verificare ancora una volta l’elenco dei morti e dei sopravvissuti di quella notte. A Erwan aveva taciuto che alcuni bambini erano scampati all’incendio.

Forse Arno Loyens era tra loro?

Non si finiva mai di imparare. Quando fu in place de la Concorde, fermò un taxi sventolando il distintivo.