144.

Un viso era chino su di lui.

Quello di un bambino cadaverico, intagliato in un legno levigato duro come porcellana. Anche se la forma della faccia lo qualificava come africano, il pallore della fronte, gli occhi stretti e la minuscola bocca irta di denti ricordavano una maschera giapponese. Era l’espressione di una vita abortita, il residuo di un embrione che anziché nascere avrebbe continuato a svilupparsi nel limbo della morte. Brillava nell’oscurità come una luna di ghiaccio.

Erwan si rendeva conto che stava sognando, ma questo non attenuava la sua paura. Si sentiva inerme nei confronti dell’assassino che lo osservava. Non poteva urlare né tantomeno fuggire: il suo sonno profondo era una bara di piombo che gli gravava sulle membra e sulle palpebre.

Ora era diventato Nono, il bambino-nganga. Viaggiava nel secondo mondo, guidato da Pharabot, pronto per l’ultima iniziazione. Reggeva gli attrezzi arrugginiti: martello, sega, tenaglia...

Nudo e ricoperto di argilla, era in trance. Percepiva (e allo stesso tempo si rifiutava di sentire) i rumori che lo circondavano: chiodi che perforavano la scatola cranica di una donna, frammenti di specchio che si incastravano nelle sue orbite, una sega che le apriva il petto, le grida della vittima... Con mano tremante tendeva unghie, capelli – forse i suoi – a Pharabot, che li prendeva con precauzione prima di infilarli nella ferita aperta sul ventre.

All’improvviso la maschera bianca si metteva a soffiare. O forse era un urlo della vittima...

Erwan si svegliò: il cellulare stava squillando a pochi centimetri dal suo orecchio. Immerso nell’oscurità, lo cercò a tentoni ai piedi del divano. Prima di rispondere diede un’occhiata allo schermo luminoso.

Suo padre. Alle tre e dieci del mattino.

«Pronto?»

«Sei con Gaëlle?»

Gli ci volle un secondo per riscuotersi. «Sì.»

«A casa tua?»

«Sì.»

«Hai chiuso bene la porta?»

«Certo. Cosa succede?»

«Ho ricostruito la storia di Arno Loyens. Ho rintracciato i poliziotti che indagarono sull’incendio, i testimoni dell’epoca. Ma soprattutto ho avuto la lista dei bambini sopravvissuti.»

«Qualcuno si è salvato?»

«Qualcuno sì...»

Erwan si sintonizzò sulla vicenda: cancellò l’immagine del nganga per raggiungere le macerie fumanti dell’orfanotrofio. «E dunque?»

«In questa lista ho trovato un nome che ha attirato la mia attenzione: Philippe Kriesler.»

«Chi?»

«Hai capito bene. Uno dei tuoi uomini si chiama così, vero? Quello soprannominato Kripo.»

Si disse che probabilmente stava ancora dormendo. Delle scosse gli attraversarono il corpo, come se stesse scivolando giù da una scala sulla schiena. Philippe Kriesler. Non poteva essere una coincidenza.

Il tenente alsaziano. Lo Scriba. Il suonatore di liuto.

Suo padre stava ancora parlando, ma Erwan ora era oppresso da un’altra sensazione. Gli sembrava che nella stanza buia l’aria si fosse fatta più densa, più pesante.

D’un tratto capì.

«Ti richiamo», mormorò e riappese.

Vide ergersi davanti a sé una figura. Avrebbe riconosciuto tra mille quella coda di cavallo, la corporatura da atleta affaticato, la giacca di velluto liso.

Kripo stava in piedi davanti al divano, immobile, con la pistola in mano. La stessa arma che una volta aveva detto di aver perso in commissariato e che, a quanto sosteneva, sapeva usare a malapena.

Erwan pensò che il profilo del poliziotto sognatore e musicista sarebbe stato adatto per un libro giallo. Ma quello dello sbirro completamente fuori di testa, che aveva una doppia vita da stregone e aspettava solo il momento giusto per distruggere la famiglia di cui voleva vendicarsi, sarebbe stato decisamente perfetto.

Se quello dello sbirro è un mestiere da pazzi, chi lo fa non è immune dalla follia.

«Quando sei andato in Belgio», disse lo Scriba a bassa voce, «ho capito che ero fregato.»

Erwan pensò a Gaëlle, che dormiva nella stanza accanto. Kripo aveva controllato l’appartamento? L’aveva già uccisa? Si era accorto della coperta, del cuscino, del letto di fortuna che si era preparato in salotto? «Più fregato di quanto tu creda», ribatté, cercando di pensare il più rapidamente possibile. «Mio padre ti ha identificato. Puoi anche uccidermi. Domani, qualunque cosa accada, per te sarà finita.»

«Forse, ma tu sarai morto.»

Erwan lo provocò. «Mio padre però sarà ancora vivo.»

«Il sangue delle nuove vittime ha risvegliato forze potenti, Erwan. Non serve più che ti spieghi niente al riguardo. L’energia che si è dispiegata è straordinaria: basterà a rovinare la vita di tuo padre fino alla sua morte. Non sarà mai più in pace.»

I suoi occhi si erano abituati all’oscurità, e ora Erwan poteva distinguere la mano che impugnava la 9 mm. Non nutriva più alcun dubbio che Kripo fosse capace di usarla.

Guadagnare tempo.

«Come sei riuscito a farti passare per morto?»

L’altro rise sommessamente. «Eravamo orfani. A chi cazzo poteva interessare? I sorveglianti che sarebbero stati in grado di identificarci erano bruciati nell’incendio. Quando all’ospedale mi hanno chiesto come mi chiamavo, ho dato il nome di un ragazzo che era arso vivo sotto i miei occhi. Mi hanno trasferito in un altro istituto, sul confine francese. Nessuno mi ha mai più chiesto di confermare la mia identità...»

«Ma... perché?»

«Avevo un piano. Sparire per rinascere. Viaggiare nel secondo mondo restando invisibile.» Si mise a canticchiare sottovoce: «Posso volarmene via su un guscio di arachide. Posso scomparire con il vento dopo la pioggia...».

Erwan cercava di ricordare dove avesse messo la pistola. Fuori portata. Al minimo movimento, Kripo gli avrebbe sparato. «Perché sei diventato un poliziotto?»

«Dovevo restare vicino al clan Morvan. In un certo senso voi siete la mia unica famiglia...»

La sua voce gli sembrò lontana, come se provenisse da un’altra dimensione. «Come hai fatto a nascondere la verità per tutti questi anni? I tuoi piani? Perché...»

Kripo cambiò bruscamente tono. «Le confessioni si fanno ai preti. E non mi pare che tra noi ci sia un rapporto di questo genere. Ci vedremo nel secondo mondo. Allora capirai.»

Erwan vide l’indice premere il grilletto. Si era sempre ripromesso che quando fosse giunto quel momento avrebbe tenuto gli occhi aperti. Suo malgrado, li chiuse.

Un colpo sordo, seguito da ticchettii, rumori soffocati, fruscii di tessuto. Riaprì gli occhi e si ritrovò nella più completa oscurità. Gli ci volle qualche secondo per abituare di nuovo la vista. Kripo non c’era più. Al suo posto, una presenza spettrale, gracile e livida.

Si alzò di scatto e trovò l’interruttore. Gaëlle era in piedi oltre il tavolino basso, con gli occhi fuori dalle orbite, coperta di sangue. Soprattutto i suoi capelli biondo chiaro ne erano zuppi.

Ai suoi piedi, Kripo si dibatteva in un ultimo spasmo. Erano bastati pochi, potenti fiotti di sangue sgorgati dalla ferita alla gola, nel punto esatto in cui passava la carotide, per stroncarlo. Ora giaceva in un’immensa pozza color terracotta.

Gaëlle era stata più rapida del suonatore di liuto. Aveva usato il coltello forgiato nell’acciaio del World Trade Center per vibrare il colpo, come aveva visto fare dall’Uomo Chiodo al Sainte-Anne. La piccola imparava in fretta.

Nonostante il calore sprigionato dal sangue che si spandeva tra lui e sua sorella, quel pensiero lo raggelò fin nelle ossa.