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Arno Loyens nasce il 18 aprile 1960 a Mons, in Belgio. Sua madre, Léonie Stutzmann, all’epoca ventiseienne, prostituta occasionale a Maubeuge, in Francia, appena oltre il confine, abbandona la famiglia per tornare a esercitare la professione. Suo padre, Gérard Loyens, ventotto anni, parrucchiere, ruffiano e gestore di un bar vicino a Tournai, decide di andare a cercare fortuna in Congo. Il progetto: aprire un locale di striptease in una città di coloni, dove non ci sono molte distrazioni. Il tocco di originalità: tutte le spogliarelliste saranno bianche. Loyens arriva a Lontano nel 1965. Sei mesi dopo si ammala di malaria e muore. Arno si ritrova senza famiglia, circondato da ballerine malate, devastate dalle febbri e sfinite dal caldo. Le vede morire o partire una dopo l’altra, mentre comincia ad andare a scuola con i neri. A sette anni viene preso da alcuni missionari fiamminghi che abusano di lui. (Non c’erano prove a conferma di vicende tanto vecchie, ma nelle settimane trascorse a indagare sulla storia del suo sinistro vice Erwan aveva raccolto numerose testimonianze.) In quel momento Arno è rachitico, anemico, malato. Parla male il francese, conosce qualche parola di fiammingo e si arrangia con il lingala.

Nel 1968 si perdono le sue tracce. Vive con i minatori, gli operai delle società minerarie, gli agricoltori: il mondo nero. È allora che Pharabot lo trova. Lo nutre, lo cura, gli offre un tetto, lo educa. (Erwan non si era soffermato troppo su questo episodio. Ne aveva già parlato con i testimoni più attendibili: Felix Krauss e suor Marcelle. Gli interessava ciò che era successo dopo gli omicidi e l’arresto dell’Uomo Chiodo.)

1971. Mesi di rieducazione, parole, affetto. Marcelle ascolta la sua storia e si affretta a insabbiarla. Grégoire Morvan fa in modo di rimandare il bambino in Belgio senza che nessuno lo sappia.

Ritorno al punto di partenza. Arno viene accolto nell’istituto di Malapanse, vicino a Honnelles, nella provincia di Hainaut. Un anno dopo nell’orfanotrofio scoppia un incendio. Muoiono otto bambini. Tre si salvano. Tra questi Philippe Kriesler, in realtà Arno Loyens. (Erwan dapprima aveva sospettato che l’incendio fosse stato provocato dallo stesso Nono. Quindi era andato a Honnelles. Aveva letto gli articoli, interrogato i religiosi ancora vivi, senza però trovare traccia di dolo. Aveva dovuto concludere che evidentemente la sorte poteva sorridere anche al demonio.)

Dopo qualche settimana in ospedale, Philippe è ammesso al pensionato di Notre-Dame-de-Sion, vicino a Overijse, un istituto francofono nella regione fiamminga. Probabilmente subisce nuovi abusi sessuali. È la questione linguistica a salvarlo. In seguito alla separazione delle due università di Louvain, alcuni fanatici di lingua neerlandese ordinano la chiusura del pensionato: Walen buiten! I ragazzi sono trasferiti in altre strutture. Philippe attraversa la frontiera e viene accolto in un istituto a Saint-Omer. Più nessuno gli darà fastidio: a tredici anni è già un adolescente robusto e alto quasi un metro e novanta.

1980. Kriesler prende la maturità. Dopo l’incubo africano e gli anni catto-perversi, trova il proprio ritmo: università, borsa di studio, cittadinanza francese. Discute una tesi in lettere e filosofia ad Amiens. Comincia a studiare musica da autodidatta: prima la chitarra, poi il liuto. Fa diversi viaggi in Africa, unendosi a missioni umanitarie e tornando sui luoghi del suo passato. È lì che probabilmente acquisisce le basi delle sue competenze mediche.

Erwan era andato nel Nord, e poi ad Amiens. Aveva frugato negli archivi, ritrovato i professori, i compagni di corso, i responsabili del campus. Tutti avevano un ricordo positivo di Kriesler: sognatore, simpatico, appassionato di musica barocca e strumenti tradizionali. Ciò nonostante nella zona erano accaduti strani episodi. A Saint-Omer alcuni cavalli avevano subito mutilazioni ed era stato ritrovato il cadavere di un cane con pezzi di specchio conficcati nelle orbite. Nei dintorni dell’università di Amiens erano stati sgozzati alcuni montoni, che avevano i fianchi trafitti da chiodi. Il colpevole non era mai stato individuato. Kriesler, studente brillante, solitario e tranquillo, non aveva destato sospetti. Una sola volta si era tradito. Diventato maggiorenne aveva cominciato a frequentare una comunità di giovani artisti: pittori, scultori, registi... Durante una performance a base di sangue e interiora di animale aveva perduto la testa e cercato di uccidere una donna nuda che era parte dell’esibizione. Lo avevano ricondotto alla ragione e si era giustificato dicendo che aveva preso una droga dagli effetti poco controllabili. Non era più stato invitato alle performance artistiche.

In tutti quegli anni non si hanno notizie di rapporti sentimentali o relazioni sessuali. Alcuni lo credono un omosessuale non dichiarato. Gentile, sorridente, non si affeziona a nessuno e non ricerca alcun tipo di contatto. Solo un ensemble di appassionati di musica barocca può vantare il privilegio di vederlo regolarmente per le prove.

Nel 1987 consegue la seconda laurea e si iscrive alla scuola superiore di polizia. Nel 2001, dopo una decina d’anni di tranquillo e onorato servizio, entra al commissariato del 36 di quai des Orfèvres. Ironia della sorte, si unisce alla squadra Omicidi prima di Erwan, che all’epoca è ancora nelle teste di cuoio. Molto probabilmente comincia già in quel periodo a tenere d’occhio il suo futuro capo: i due reparti in commissariato sono separati soltanto da qualche porta.

Erwan aveva anche inviato alcune foto di Kripo agli infermieri e ai secondini degli istituti in cui era stato rinchiuso Pharabot, prima in Belgio e poi in Francia. Molti lo avevano riconosciuto. Il discepolo non aveva mai smesso di gravitare intorno al suo maestro. Fatta eccezione per quelle visite e per le intemperanze di gioventù, Erwan non aveva trovato nessun indizio che tradisse la vera natura di Kriesler. Poliziotto in gamba, liutista appassionato, collega senza passato, il bambino-nganga aveva vinto la sfida più importante per un serial killer: confondersi nella massa.

In compenso, il suo appartamento – un monolocale in rue de Bagnolet acquistato una decina di anni prima e per cui pagava ancora il mutuo – era valso da confessione. La stanza, interamente dipinta di nero come la casa galleggiante di Redlich, era disseminata di sculture cosparse di chiodi, vetri e ferro – realizzate da lui medesimo –, e in ogni angolo si ammassavano oggetti di altra provenienza carichi di poteri magici. Alle pareti, una rassegna stampa esaustiva riassumeva le imprese del nuovo Uomo Chiodo: i suoi trionfi... Altra confessione indiretta: il suo corpo. L’autopsia di Kripo aveva rivelato la presenza di una cinquantina di aghi – da cucito, per uso medico, da agopuntura... – infilzati sottopelle. Alcuni erano stati spinti tanto in profondità e si trovavano lì da così tanto tempo che il medico legale aveva rinunciato a estrarli.

Erwan e la sua squadra non avevano trovato il luogo dove Kripo aveva massacrato Anne Simoni. Non erano nemmeno riusciti a mettere le mani sui suoi strumenti di tortura né individuato alcun collegamento con le vittime. Quando aveva prelevato le unghie e i capelli? Nessuna traccia degli organi asportati. Una stanza degli orrori doveva pur esistere da qualche parte, ma dove? I poliziotti non erano stati in grado di scovare l’ETRACO utilizzato dall’assassino (avevano scoperto che Kripo possedeva la patente nautica per tutte le categorie di natanti).

L’unica traccia di DNA incriminante era stata rinvenuta nelle sculture di Pharabot conservate sotto sigillo nella sala riunioni del commissariato. Kripo aveva messo le proprie unghie e i propri capelli nelle statuette di cartapesta mentre queste si trovavano al distretto. Stava cercando di proteggersi? Voleva autodenunciarsi?

Kriesler non aveva alibi per gli omicidi. Avrebbe potuto uccidere Wissa Sawiris (si trovava ancora in vacanza). Era a Parigi per eliminare Anne Simoni (Erwan aveva controllato: si era regolarmente presentato al colloquio all’ispettorato generale). Nessun problema nemmeno con Pernaud: Kripo conduceva le sue indagini in solitaria, come un cane sciolto; telefonava, rispondeva, informava, ma nessuno sapeva mai esattamente dove fosse. Erwan ne aveva ricostruito parzialmente gli spostamenti. Il suo vice l’aveva seguito a Marsiglia e, colmo dell’ironia, doveva avere acquistato i due biglietti, per il capo e per sé, nello stesso momento. Si era prodigato affinché Levantin ottenesse il permesso di accedere al database delle esclusioni, in modo che Erwan sapesse che la vittima successiva sarebbe stata sua sorella. Si era travestito apposta da marchese de Sade per farsi rimandare a casa e, cosa ancor più incredibile, quella notte aveva risposto alla telefonata del capo dal Saint-Anne, infilato nel suo zentai, mentre era sulle tracce di Gaëlle, nascosta fra i cespugli.

Restava ancora una domanda importante: Kriesler conosceva i membri del quartetto? Sicuramente sì. Sapeva che avevano prelevato dei frammenti dal cadavere di Pharabot prima della cremazione? Anche in questo caso non sembrava esserci ombra di dubbio. Era l’unica spiegazione possibile per giustificare la presenza del DNA dell’Uomo Chiodo sul corpo di Anne Simoni: Kripo doveva essersi procurato in qualche modo campioni di sangue di uno dei fanatici e averli piazzati sulle sue vittime. Per confondere le tracce? Per essere più fedele al rituale originale? Per incriminare i trapiantati? Aveva portato quel segreto con sé nella tomba...

A questo proposito, Erwan aveva deciso per una sepoltura nel cimitero di Saint-Mandé, il primo dove aveva trovato un posto disponibile. Stranamente Kripo gli aveva lasciato in eredità il suo monolocale. Il testamento era perfettamente valido, dal momento che l’estinto non aveva famiglia. Quel gesto lo aveva particolarmente turbato. Pur accettando il lascito, aveva subito incaricato un notaio di rivendere l’immobile e devolvere il ricavato (dopo aver dedotto le spese per le esequie) all’orfanotrofio di Saint-Omer, il luogo dove forse il bambino-nganga era stato meno infelice...

Erwan, che in genere non provava alcuna empatia per gli assassini, nei confronti del suo vice nutriva sentimenti ambigui: lo conosceva bene, aveva trascorso migliaia di ore con lui, l’aveva considerato un amico. Il suo tradimento lo mandava fuori di testa. Allo stesso tempo, concedeva a Kripo il beneficio della follia e soprattutto l’attenuante di un’infanzia devastante. Quel passato atroce era il suo unico vero movente. Aveva tenuto botta per tutta la vita, ma alla morte di Pharabot non ce l’aveva più fatta. Ritrovatosi di nuovo solo, perduto di fronte agli spiriti, ai demoni, si era sentito obbligato a passare all’azione, a scolpire feticci potenti per proteggersi dai suoi nemici. Aveva dovuto vendicare il Maestro.

Ma perché aprire le danze uccidendo Wissa Sawiris nel Finistère? Erwan non amava tirare in ballo il caso, ma per questo non esisteva un’altra spiegazione. Kripo era andato in cerca di una vittima nelle vicinanze di Kaerverec – o piuttosto dello Charcot – e aveva incontrato sulla propria strada Wissa, nudo e allo stremo delle forze. Una preda ideale. L’aveva portato sull’isola di Sirling per eseguire il sacrificio, senza dimenticare di lasciare sulla scena del crimine l’anello di Morvan e quasi sicuramente anche altri indizi che lo accusavano. Il suo obiettivo con ogni probabilità era stato quello di approntare una camera delle torture che portasse la firma del vecchio poliziotto. Il missile però aveva confuso le tracce e fatto precipitare la situazione. Il suonatore di liuto non poteva sapere che il tobruk sarebbe stato bombardato ma era a conoscenza dei rapporti fra Di Greco e Morvan (la storia di Lontano non aveva segreti per lui). Era certo che l’ammiraglio lo avrebbe chiamato in aiuto dopo la scomparsa di Sawiris. Con un po’ di fortuna il Vecchio, in nome dei tempi andati, avrebbe inviato in Bretagna il suo poliziotto migliore, il figlio, che a propria volta avrebbe chiesto a Kripo di accompagnarlo...

Nonostante la storia del missile lo avesse sicuramente colto alla sprovvista, aveva saputo reagire. Seguendo il suo piano alla lettera, aveva messo in ogni cadavere le unghie e i capelli della vittima successiva e tentato di incriminare il suo principale nemico: Grégoire Morvan. La destrezza con cui aveva compiuto gli omicidi, la precisione nella cronologia, l’invisibilità: era chiaro che aveva agito con premeditazione. E siccome era un poliziotto non aveva avuto difficoltà a conquistarsi la fiducia delle vittime, a evitare le videocamere di sorveglianza, a localizzare Gaëlle...

Erwan aveva deciso di dedicare la fine del fascicolo d’inchiesta alle incredibili capacità dissimulatrici del colpevole, non esitando a ricordare che lui stesso, comandante dell’Anticrimine, aveva lavorato per dieci anni fianco a fianco con l’assassino senza mai nutrire il minimo sospetto.

Il dossier era costellato da punti ancora tutti da chiarire: che significato avevano quegli stupri, di una violenza così sconcertante? Kriesler poteva essere un omosessuale represso talmente torturato dalle passioni che lui stesso aborriva da utilizzare delle lame per soddisfarle? Un impotente? Qual era il suo obiettivo ultimo? Uccidere tutti i membri del clan Morvan? Erwan non cercava più risposte. Aveva soltanto voluto chiudere il caso con la massima accuratezza, sommergendo quegli interrogativi con una valanga di fatti. Ironia della sorte, privato del suo burocrate personale, si era dovuto sobbarcare da solo la redazione dei verbali (non aveva permesso a nessuno della squadra di occuparsene, a parte Audrey, che aveva raccolto la testimonianza sua e di Gaëlle sulla morte di Kriesler). Gli ci erano volute tre settimane per ricostruire tutte le circostanze, colmare le lacune e far coincidere eventi e date. A metà ottobre aveva consegnato il fascicolo al giudice incaricato.

In realtà, «la morte del reo estingue il reato» e «il procedimento non ha più oggetto in caso di inapplicabilità della pena». In altri termini, non ci sarebbe mai stato un processo Kriesler e quell’ingombrante fascicolo sarebbe finito negli archivi dell’oblio. Inoltre, la squadra Omicidi e il magistrato avevano deciso di comune accordo di non divulgare l’identità del nuovo Uomo Chiodo ai media. Gli sciacalli avevano già avuto le loro vittime da spolpare: il terzetto di Locquirec. Nessuno nella polizia giudiziaria voleva che si sapesse che il vero assassino era un poliziotto dell’Anticrimine apprezzato dai superiori e prossimo alla pensione.

Caso archiviato. Ma dimenticare una storia del genere era impossibile. Erwan non riusciva a digerire l’idea di aver frequentato per tutti quegli anni un potenziale assassino. Amico, nemico: non lo sapeva più nemmeno lui. E la sepoltura, alla quale aveva assistito da solo in compagnia dei becchini, gli aveva dato il colpo di grazia.

Un’ultima domanda lo tormentava: davvero Kripo non aveva mai colpito prima dei cinquant’anni? Aveva passato diverse notti a verificare se tra le morti sospette degli ultimi decenni nell’Île-de-France ce ne fosse qualcuna che poteva essere accostata, seppur alla lontana, al modus operandi del suo uomo. Aveva fatto lo stesso anche con gli omicidi in Bretagna. Conosceva l’artista, ma cercarne le opere senza indizi né circostanze era come cercare un ago nel pagliaio.

A fine ottobre aveva deciso di lasciar perdere. Alla vigilia di Ognissanti preparò la valigia per raggiungere la sua famiglia sull’isola di Bréhat.

Il giorno dei morti. Niente poteva essere più appropriato.