146.

Mare sordo e azzurro, mimose sgargianti, il calore delle pietre al sole: Erwan aveva sempre odiato Bréhat. Non poteva proprio sopportare quell’isola che, con i suoi sentieri di sabbia, le scogliere di granito, le casette troppo belle per essere vere, era la sintesi perfetta delle presunte origini bretoni del clan. Gli sembrava tutto completamente finto.

Anche se sapeva di essere ingiusto, traeva comunque piacere da quell’idea: la sua malafede faceva parte dell’eterna lotta contro il padre e tutto ciò che lo riguardava. L’inchiesta non aveva contribuito a sistemare le cose. Le ricerche che aveva condotto sulla storia dell’Uomo Chiodo gli avevano restituito un’immagine di Morvan se possibile ancora più fosca. Perfino il suo unico atto di brillante e inequivocabile eroismo era costellato da enormi buchi neri.

Dopo la morte di Kripo Erwan aveva riletto più volte gli atti del processo di Pharabot. Se li era addirittura portati a Bréhat. Non esisteva luogo migliore per rivivere un’ultima volta i fatti, insieme all’eroe principale di quell’epopea. Era come leggere l’Odissea seduti accanto a Ulisse in persona.

Non aveva abbandonato il piano di incastrare il padre, ma né lui né Audrey erano riusciti a trovare qualcosa che lo collegasse alla morte di Marot o anche solo che smentisse la teoria del suicidio. Poteva contare soltanto sul passato, sull’eventualità di scoprire un errore remoto...

A Bréhat c’erano tutti, ligi al dovere. Erwan non li guardava: li respirava. Associava ciascuno di loro a un odore.

Loïc a quello della roccia cotta dal sole di mezzogiorno. Il fratello era avvolto nel suo parka da marinaio dal quale sbucava soltanto la testa, come un uccello nel nido. Sembrava bruciato dalla droga, consumato dal denaro. Diceva di aver risolto i problemi patrimoniali del clan, e anche se il Vecchio sosteneva che invece li avesse mandati sul lastrico non dava l’impressione di esserne particolarmente dispiaciuto. Non pareva preoccuparsi più di tanto nemmeno del suo divorzio. Osservava il mare. Guardava i giorni passare. E, chiuso nella sua stanza, doveva sniffarsi autostrade di coca.

L’odore di Gaëlle era quello dell’erba bagnata cresciuta nella notte. Dolcevita nero, capelli biondi e ispidi, leggermente abbronzata, era magnifica. Le sue battaglie le avevano scavato i tratti del viso e affilato i lineamenti. Purificata dall’aria salmastra, si era levata di dosso il fango in cui si dibatteva a Parigi. Gli antidepressivi avevano fatto il loro lavoro: sembrava placata, come se avesse ritrovato il proprio equilibrio. Un mattino Erwan fece una passeggiata con lei sulla spiaggia durante la bassa marea.

«Ti ricordi quando ti ho detto: “Una donna che ha un orgasmo si è già fregata da sola”?»

«Come potrei dimenticarlo?» Le sorrise.

«Io, pur non avendo mai avuto un orgasmo, mi sono fregata con le mie mani tantissime volte.»

«Mi hai salvato la vita.»

«Non sto parlando di questo.»

Fumava una sigaretta dopo l’altra. Le donava. Quel soffio bruciante le conferiva un briciolo di ruvidezza che contrastava con la sua bellezza ancora giovanile. Erwan non capiva a cosa alludesse: ai suoi sogni infranti di attrice, alle provocazioni sessuali, a tutti quegli anni trascorsi con l’idea di distruggere la sua famiglia... Tuttavia sapeva che la sorella, uccidendo Kripo a sangue freddo, oltre ad avergli salvato la vita aveva anche liberato sé stessa. Quella coltellata nella carotide aveva arrestato definitivamente la fuga dalla realtà di Gaëlle. Il sangue dell’assassino l’aveva purificata. Nessuno comunque conosceva la verità sulla morte dell’Uomo Chiodo: ufficialmente era stato Erwan a ucciderlo, per legittima difesa.

L’odore di Maggie era quello degli scalini bretoni, della pietra bagnata: esci dalla porta e scivoli, finendo per terra sulla soglia di una casa che sembra fregarsene completamente di te. Erwan aveva capito nel corso dell’inchiesta che sua madre non era una vittima innocente, che il rapporto con il marito era molto più complicato di quanto avesse sempre creduto. Andò da lei una sera. In piedi sul fresco tappeto d’erba compatto, Maggie scuoteva il suo vecchio scolainsalata, una specie di gabbia che schizzava il cielo di goccioline rosate.

«Non sei pentita?»

«Di cosa?»

«Non lo so... Per esempio di non avermi aiutato nell’inchiesta, di non averne approfittato per rivelarmi certe verità sulla famiglia o sul Congo, di aver dato legittimità alle bugie del papà con il tuo silenzio...»

«Piantala di dire cretinate.»

La casa era immersa nell’ombra e l’oscurità che incombeva ricopriva le lugubri forme delle rocce con macchie ancora più nere, che parevano emergere dalla terra stessa. Erwan osservò per un istante lo scolainsalata volteggiare nell’aria e abbandonò Maggie alle sue tenebre. Da lei non avrebbe saputo niente.

Quella sera stessa, dopo cena, raggiunse il padre, appostato fuori dalla porta come se attendesse l’arrivo della sua flotta personale. Morvan aveva comprato quella casa di pescatori sull’isola più a nord, «la più selvaggia, la più cazzuta», come amava ripetere. Anche se la spiaggia era lontana, si poteva vedere il faro roteare nell’oscurità come un occhio che qualcuno avesse strappato dall’orbita. Il vento era carico di odori di sale e di alghe che facevano fremere le narici e liberavano i bronchi. Erwan non aveva mai creduto alle origini bretoni del Vecchio, ma quegli effluvi iodati gli si addicevano.

«Come ti senti dopo tutto questo puttanaio?»

«Felice.»

Erwan capiva cosa intendeva: tutti i membri del clan erano sopravvissuti, lui ne era uscito da eroe e aveva evitato di essere implicato nella morte del giornalista Jean-Philippe Marot. Missione compiuta.

Il 1° novembre era un giovedì. I francesi avrebbero fatto vacanza fino al 5.

Sofia arrivò sabato mattina, con Milla e Lorenzo. Si sarebbe potuto pensare che fosse andata a Bréhat per trascorrere qualche giorno con Loïc e la sua famiglia. Oppure per vedere l’altro, il fratello, con il quale aveva appena cominciato una relazione segreta e sconveniente. Erwan capì tuttavia che non era lì né per lui né per Loïc, bensì per il Comandante. Voleva osservare la sua preda, scegliere l’angolo d’attacco, studiare la strategia migliore.

Dopo pranzo le si avvicinò, sperando in un cenno di complicità – non aveva dimenticato il loro incontro rovente all’ospedale –, ma ottenne soltanto un gesto di fastidio.

«Tu non lo sai ancora», gli sussurrò, «ma sei esattamente come loro.»

In un certo senso si sentì sollevato: Sofia sarebbe rimasta la sua madonna. In quanto oggetto d’amore doveva essere inaccessibile, immateriale. Il suo odore era quello del marmo in fondo alle cripte. Un aroma di incenso che faceva pensare alla morte e all’assoluto.

Erwan si rituffò nella montagna di documenti del processo Pharabot. Li riprendeva in mano ogni pomeriggio come un testo sacro, una bibbia nera.

Gli era sfuggito un particolare. Un’anomalia che aveva avuto davanti agli occhi. Non si trattava di una risposta, bensì di una domanda.

La trovò la domenica, qualche ora prima di partire.