Primo giorno in ufficio dopo le vacanze, e chiama Rebecca.
Un crampo allo stomaco, come quando chiamavi tu.
«Grazie per il biglietto» dice.
«È stato davvero un bel pensiero.
Sei stata la mia salvezza. Davvero.»
«Come stai?»
«Siamo stati via ma adesso siamo di nuovo nel frullatore.
Faccio lavatrici, preparo la cena, il solito.
Mi chiedevo quanto ci vorrà ancora
per la chiusura della successione.»
Helen è nel mio ufficio e a gesti mi chiede se voglio un tè.
Annuisco e le faccio cenno di uscire.
«Ci siamo quasi» dico,
parlandole come a un cliente qualsiasi.
«L’ultimo step
è produrre la situazione patrimoniale per i beneficiari,
ossia voi.
Devo mettere insieme le tasse pagate, le chiusure dei conti,
quelle cose lì.»
«È talmente complicato.
Connor ha fatto bene a nominare un legale come esecutore.
Per un po’ mi aveva dato fastidio,
come se non si fidasse.
È stupido, lo so.
Adesso vedo che aveva senso.
Mark ci avrebbe messo dieci anni.»
Fa una risatina. Garrula e falsa.
«Appena sono pronti i conti ti mando tutto via mail.»
Rebecca mi ringrazia e poi dice:
«Questo fine settimana ho qualche amico a cena.
Ti andrebbe di venire? O ti fa strano?
Con tuo marito, naturalmente».
Non litigavamo mai, tranne che per La Situazione.
Tutto il resto su cui tentavamo di scontrarci,
si risolveva in un accordo,
in un patto di ascolto,
di disaccordo.
Tu mi abbracciavi e mi lasciavi alle mie opinioni.
Era nuovo, entusiasmante,
come tutto quello che portavi con te.
Ma poi ho detto:
«Dovresti nominarmi esecutrice testamentaria»,
e ho colto in te l’ombra di un ghigno per la mia presunzione.
«Perché mai lo dovrei fare?»
«Perché è il mio lavoro.
E la tua mogliettina non dovrebbe preoccuparsene.»
«Non chiamarla così.»
«Scusa.
Quella stronza di tua moglie non dovrebbe preoccuparsene.»
Tu studiavi un cruciverba del giornale che avevi sulle ginocchia.
Eri senza penna.
Eravamo in una sala da tè di Hampstead.
La macchina del vapore ha sibilato e fischiato.
Rumore di tazze.
Le pareti erano rosso scuro.
«Secondo me dovresti cambiare il testamento.
Soprattutto quando ti separi.
Perché dovrebbe andare tutto a lei?
Metti tutto in un trust, per i ragazzi.»
«Ma che cosa dici, Ana?
Non devo mica morire.»
«Tutti dobbiamo morire, Connor.»
«Ma che cosa dici?»
Hai ripiegato il giornale,
incrociato le braccia.
Ogni volta che facevamo l’amore, con le tue mani tra i capelli,
le labbra sulle clavicole, il fiato nelle orecchie,
avrei spaccato il mondo per tenerti.
Avrei rinunciato a tutto.
Ma quel giorno avevi lo sguardo freddo,
e ti ho odiato per come mi facevi sentire.
«È lei o me» ho detto.
«Va bene, fammi pure da esecutore,
ma sono abbastanza sicuro che toccherà prima a te.»
«Scegli.»
«Cosa?»
«Me o Rebecca.»
«Non farlo, Ana.»
«Se scegli me ma rimani con lei,
la chiamo e le dico tutto.»
«Smettila di minacciarmi.»
«Scegli.»
«Adesso? Tu vuoi che io scelga adesso?
È assurdo. E se non scelgo te?
Che cosa succede?»
«Succede che è deciso.»
«Ana.»
«Di quanto hai bisogno ancora
per venirne a capo, Connor?
Hai avuto anni.
Anni per decidere, anni per dirlo a Rebecca,
anni per lasciarmi, se era quello che volevi.»
«Perché non riesci mai a vederla dal mio punto di vista?
Per me è peggio, io…»
«Basta, taci. Non ce la faccio a sentirlo un’altra volta.
È un insulto. È umiliante.»
«Ana.»
«Buona fortuna, Connor.» Mi sono alzata.
Non ti ho toccato né salutato.
È stata l’ultima volta che ti ho visto.
Degli scatti in camera di Ruth mi chiamano di sopra.
La porta è semiaperta.
Dentro, la mia primogenita siede composta
alla sua scrivania,
le nuove matite colorate con le iniziali di Babbo Natale
allineate in bell’ordine.
Una alla volta le prende
e le spezza in due.
Poi di nuovo. In quarti.
Fa un mucchietto di lato.
Rosso, crac. Rosso, crac, crac.
Turchese, crac. Turchese, crac crac.
È priva di espressione. Concentrata.
Mi allontano in modo che non mi veda
e guardo per terra.
Ma non posso ignorare quel rumore –
il crac di mia figlia.
Il mio corpo non ha offerto indizi.
Niente gonfiori né nausee.
Niente voglie di Doritos
come le altre due volte.
Solo un’assenza di dolori e perdite.
Ho passato una serata in rete
a ricercare cause del ritardo.
L’età. Magari.
Lo stress. Sì.
La stanchezza. Sempre.
Ho fatto un test, per precauzione,
ed eccolo lì, il risultato:
positivo.
Il tuo frutto che fluttuava azzurro nella plastica,
una forma che stranamente
faceva pensare a uno sbaglio –
la X marca l’errore.
E così
non mi rimaneva
scelta,
svanita anche l’opportunità di attenermi
a una moderata moralità.
Sono andata dal mio medico,
poi in farmacia,
e ho ingoiato due pillole
per lavar via la vita
che avevamo creato,
il te dentro di me.
Un gioco da ragazzi.
Qualche volta penso al suo spiritello
delicato e quasi immaginato
come increspature d’ali di libellula nell’aria,
e mi sento a lungo
tristissima.
Quella sera Paul ha detto: «Tu hai sempre la testa altrove».
«Hai ragione. Scusa» ho detto.
Mi sono infilata a letto con una boule dell’acqua calda,
senza fermarmi dai bambini
per il bacio della buonanotte.
Rebecca apre la porta.
Ha dei begli occhi. Non li avevo ancora notati.
«Entra!» Lancia un’occhiata all’orologio a muro.
«Sei la prima.»
«Avevi detto alle sei?»
«Sì. Ma sono tutti in ritardo!
Come al solito. Tieni, me la apriresti?» dice Rebecca,
prendendo una bottiglia di bianco dalla cantinetta
e seguendo una pentola sul fuoco.
Si dimentica di darmi un cavatappi.
I tuoi ragazzi giocano ai videogame in soggiorno.
Jamie si volta, mi vede, si sbraccia entusiasta.
«Vuoi provare?» mi grida,
tendendomi il joystick.
Io scuoto la testa.
Suonano alla porta e David sfreccia lungo il corridoio.
«Ehi, brigante!» lo saluta una voce.
Rimbalza in cucina con una coppia al seguito.
Lei è alta. Rossetto rosso. Gonna di paillettes.
Lui ha una barba incolta. In testa, un cappello di feltro.
Ma che cazzo…? mi fa Mark con le labbra.
Rebecca allarga le braccia.
«Ehi, ce l’avete fatta senza farvi vomitare addosso!
Come sta il frugoletto?»
La moglie, Donna, alza gli occhi al cielo.
«Non dorme, questo è certo.
Sta mettendo i denti, mi sa. Non ne posso più.
Perché nessuno ti mette in guardia sui neonati?
Ma stasera sta con la nonna.
Ed è uno spettacolo.»
Mark prende un bicchiere da Rebecca e ne ingolla metà.
«Questa è Ana» spiega Rebecca.
Mark annuisce. «Sì, lo so.
Ci siamo incontrati al funerale, giusto?
Sono Mark Dahl. Ero molto amico di Connor.»
Rebecca aggrotta la fronte.
«Ma tu eri al funerale? Non me l’avevi mai detto.»
La stanza mi fissa. Aspetta una risposta.
E da qualche parte assisti anche tu.
«Ero lì in rappresentanza dello studio» dico.
«Spero non ti dispiaccia.»
Assaggio il vino. «Buonissimo, questo.»
Donna tacchettando raggiunge una ciotola di olive.
«Chi altro viene?» chiede.
«Non la tua cara cuginetta, spero.
È un mostro di intelligenza, quella.
Tra un po’ riprendo a leggere. Giuro.
O quantomeno, a comprare dei libri.»
Mark estrae un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca.
«Mi fai compagnia?» dice,
facendo un cenno verso il giardino.
Ho altra scelta?
Fuori
si ferma accanto a una casetta degli attrezzi da rivista –
legno di cedro, tetto a prato.
Accende una sigaretta, dà un tiro e me la passa.
«Non ho idea di che cosa stia succedendo, ma dopo stasera
tu devi spa-ri-re. Chiaro?»
Sull’erba c’è una pellicola di brina ma io non sento freddo
nonostante la gonna impalpabile.
Succhio il fumo, batto i denti.
«È curioso come di colpo tu abbia un’opinione morale
in tema di infedeltà.
Non te n’è mai importato.
L’hai avallata.
Coperta.»
«Ma capisci quello che dico, cazzo?»
Espiro nella notte nera. Stellata.
Sotto, io sono niente.
«Sì, certo. Capisco.»
«Tu non hai alcun diritto di essere qui.
Davvero, io non ci arrivo.»
«Neanche io.»
Ho cercato e non ti ho trovato, qui.
Ho cercato e non ci sei.
Tu non sei più.
«Sono arrivati i Wilson. Non lasciarmi sola con loro.»
È Donna, dietro di noi, a metà giardino.
Mark si volta verso di me.
«Adesso tu dici a Rebecca che hai un’emergenza a casa.
Qui non sei la benvenuta.»
«Come?» urla Donna.
Passo a Mark il bicchiere e mi dirigo dentro.
Rebecca ride con una coppia giovane –
entrambi modaioli e chiassosi,
lei nel mezzo di un aneddoto.
Vicino a loro, Rebecca ha un’aria esile.
«E io gli ho detto, ma questo è Andy Warhol, idiota»
conclude la donna.
«Insomma, un Warhol!»
Tutti ridono e io per un attimo considero
di uscirmene con la mia storiella – così, per divertirli.
«E lei chi è?» si volta lui verso di me.
«Ti presento Ana» dice Rebecca. «È in libera uscita.»
Le tocco il braccio. Il cotone è così morbido
che non vorrei più staccare le dita.
«Mi tocca scappare. Ahimè.
Ho i bambini che vomitano.»
«Oh no, che peccato.»
Rebecca lancia uno sguardo preoccupato al tavolo,
forse è la disposizione dei posti.
Aiutavo, per fare pari.
Ma l’occhio le cade sulla mia borsa su una sedia,
il telefono che sbuca fuori da una tasca.
«Come fai a sapere che stanno male?»
«Senti, Rebecca, non sarei dovuta venire.»
Mark e Donna rispuntano in cucina.
Mark sbatte i piedi sul tappetino.
«Stavo assiderando, lì fuori» dice.
Mi guarda. «Ancora qui?»
Rebecca agita l’indice. «Ti ha dato fastidio, per caso?
Guarda che è un cazzone, ignoralo.»
«Un cazzone!» fa eco Jamie, ridacchiando,
sulla faccia uno sbaffo di pomodoro.
«Ma è vero, però. È un vero mostro.
O sbaglio Mark? Fa parte del tuo fascino adolescenziale.»
Rebecca individua la bottiglia e gli riempie di nuovo il bicchiere.
«E le qualità segrete di Ana, quali sono?» chiede lui.
«Devo proprio andare» dico.
«Sì» mugugna Mark. «Prima che si cominci a fare sul serio.»
La canzone nelle casse tace
e nella stanza non c’è più musica
né voci
e tutti mi studiano
tranne Rebecca, che è confusa e mi cerca
le mani.
Le prende tra le sue.
«Tornerai un’altra volta, spero.
Fare la mamma non ha orari.»
Nella sua voce c’è preoccupazione sincera
e mi rendo conto che la cena non subirà conseguenze –
questo panico è il lutto,
ed è reale,
e dura nel tempo,
ed è perché lei ti ama
e tu te ne sei andato
e nulla ha più senso.
«Buonanotte» dico. «Grazie.
Mi dispiace. Davvero.»
Rebecca mi accompagna alla porta.
«Comunque sia, spero che tu stia bene» mi dice,
e mi sfiora con un bacio.
Da dietro la sua spalla, Mark mi fucila con gli occhi,
mentre Donna gli accarezza il collo.
Stavo così male che non potevo tornare a casa,
il nostro bambino che mi sanguinava fuori, sui vestiti
e sulla poltrona della scrivania.
«Hai un pessimo aspetto» ha detto Tanya.
Sudavo, non mi ricordavo granché.
Quando sono andati via tutti,
mi sono seduta appoggiata al muro
abbracciandomi le ginocchia.
Mi sono svegliata la mattina dopo all’alba,
con la gonna fradicia.
E ti ho chiamato.
«Ho bisogno di te» ho detto. «Sul serio, aiutami.»
Hai sussurrato in modo da non farti sentire.
«Dove sei? Che cosa è successo?»
Ti ho spiegato e hai ascoltato.
E sapevo che stavi piangendo per questa cosa
di cui non ti eri accorto e che adesso era andata
e per il mio dolore
e per quello che ci eravamo inflitti l’un l’altra.
«Dio, Ana. Dio mio.»
Ma quando ho ripetuto «Ho bisogno di te»
sei stato zitto.
E non sei venuto.
Nel giardino scuro e selvatico
i raggi della luna mi illuminano
come su un palcoscenico.
Ma non canto né ballo.
Premo i palmi contro la corteccia nodosa
del pruno sterile del mio giardino
e fisso il cielo.
Non c’è nient’altro.
Ho lavato via il sangue secco
incrostato tra le gambe.
Paul era al lavoro.
Aspettavo Nora, le avevo detto
che avevo avuto un aborto spontaneo.
Tu hai chiamato e ho risposto:
«Sei un bastardo».
Lo pensavo.
Eri crudele. Bugiardo.
Non te ne saresti andato mai.
E anche tutto il resto lo pensavo.
«Tu l’amore non sai neanche che faccia ha.
Io non mi posso fidare.
Non posso andare avanti così.»
Pensavo tutto,
di quell’ultima conversazione.
Quello che non so
è se anche tu credevi nelle tue ultime parole.
«Io ti amo, Ana.
Mi dispiace che tu abbia dovuto farlo da sola.
Non succederà mai più. Te lo prometto.
Io sto facendo del mio meglio.
Davvero.
Non basta, ma mi sto sforzando.
E mi sforzerò ancora di più.»
Ho riattaccato, non ce la facevo più a sentire
il rimbombo vuoto dei nostri litigi.
Hai provato a richiamare.
Hai provato altre tre volte.
Non ho risposto.
Se l’avessi fatto, tu saresti ancora vivo.
Bastardo.
Un quarto d’ora dopo che ti avevo sbattuto giù il telefono,
un furgone ti ha sbattuto giù dalla bici
in Alexandra Park Road
mentre pedalavi verso casa mia.
Se ti avessi concesso altri trenta secondi.
Se ti avessi lasciato parlare.
Se avessi risposto a una chiamata.
Non è colpa mia, mi sono detta.
Ma.
Non ti potevo sentire.
Non ti potevo più credere.
«Un’ultima domanda» ho detto. «Come è successo?»
Rebecca mi ha dipinto per sommi capi l’incidente.
Ho riattaccato e mi sono comprata un paio di scarpe online.
Poi ho aperto il tuo testamento
e l’ho cambiato,
mi sono nominata esecutore testamentario,
come tu non ti eri mai risolto a fare,
in modo da avere accesso alla tua vita
e all’amicizia di tua moglie
e averti ancora per un po’.
Poi mi sono rimessa a lavorare.
Quelle stupide scarpe non le ho mai indossate.
La tua targa d’ottone è pulita.
Premo la fronte contro il metallo freddo.
Mi dispiace non essere venuta prima.
Mi dispiace averti lasciato qui solo.
Tu non te ne andrai più, ma io sì.
Prenderò l’autobus per rientrare, preparerò la cena ai miei figli.
Cercherò di finire Anna Karenina, e ogni tanto
mi farò la manicure.
Mi dispiace se alla fine non sono riuscita più ad ascoltarti
o a darti tempo
né ad accettare l’amore che sapevo vero e mio
e segreto e doloroso,
e che non ho mai sentito di meritare.
Prima di te, navigavo sbandando la vita
convinta di poter essere felice se facevo la brava.
Tu mi hai fatto essere molto cattiva, Connor.
E sono felicissima.
Ti ho cercato dappertutto.
E tu eri qui, ad aspettare.
È con te, lei? Il nostro piccolo frullo d’ala di libellula?
Sapevi che sarei venuta.
Ed eccomi.
Ma adesso è ora di andare.
Di essere coraggiosa e cattiva, di nuovo.
Mi dispiace non averti mai detto che eri bello.
Mi vergognavo troppo a descriverti così.
Ma lo eri.
Bellissimo.
Mi dispiace tanto per tutto, Connor.
Al cancello del cimitero, un taxi. Scende Rebecca.
Mi vede e saluta con la mano.
«Ana! Mamma mia, che sorpresa.»
Mi abbraccia, profuma di shampoo.
«Io vengo tutte le settimane.
Non sapevo che anche tu avessi qualcuno qui» dice.
«Tutto a posto?
L’altra sera sei scappata così di corsa.»
Voglio dirglielo,
cadere in ginocchio, abbracciarla e
chiedere perdono, condividere il peso.
Il grande peso di te.
Ma non servono dichiarazioni drammatiche
perché Rebecca mi fissa le mani,
nei suoi guanti di pelle bluette,
e sa tutto,
o almeno lo saprà
appena introiettata la scena.
«Rebecca…» tento.
«Sarà il caso che io entri» dice, incapace di sorridere.
Dal borsone spuntano delle rose.
Un regalo.
Forse tu avresti preferito del trifoglio.
Comunque spero che le deporrà lì per te.
«Vado» dice.
I bambini dormono.
Paul corregge una pila di quaderni.
Non ci parliamo da giorni.
Mi chino su di lui.
«Io amo un altro» dico.
Lui posa la penna. «Chi?»
«Se n’è andato, adesso.»
«Dove, se n’è andato?»
«Andato.»
Piango, spero che Paul non urli e non svegli i bambini.
Mi prende il pollice tra le dita.
«Siediti» dice. «E parlami.»