V

Sara Morozzi si era interrogata a lungo sul rapporto che aveva con il cibo ed era arrivata alla conclusione che fosse una buona metafora della sua vita. Anzi, a essere precisi, costituiva una vera e propria mappa emotiva.

Aveva imparato a cucinare da piccola grazie alla grande passione della madre. Forse era un modo per condividere qualche momento di intimità con quella donna introversa, che sembrava sempre smarrita dietro pensieri lontani: se si ha una buona manualità, le diceva mentre era impegnata a impastare o tritare, e si ha la fortuna di essere nati in una città con una tradizione così vasta di ricette e sapori, allora si deve imparare per forza.

All’università, quando ormai abitava da sola, si limitava a nutrirsi cavandosela con pasti semplici e veloci, nelle brevi pause che si concedeva tra i tanti impegni. Aveva ricominciato a cucinare con trasporto appena sposata; le piaceva sorprendere il marito, assecondarne i desideri: almeno fino al momento in cui anche i pranzi e le cene, come tutto il resto, si erano raffreddati nella monotonia della routine.

Quando si era innamorata di Massimiliano e lui aveva cominciato a frequentare il piccolo appartamento in cui viveva da sola dopo la separazione, Sara aveva riscoperto il piacere della tavola. Aveva addirittura acquistato una batteria di pentole e una serie di utensili per creare i manicaretti che il suo amore avrebbe gustato. Ricordava con assoluta precisione le espressioni di lui mentre assaggiava qualche nuova delizia. Per gioco lo costringeva a elencare gli ingredienti delle diverse portate: Massimiliano non li indovinava mai tutti, e lei lo prendeva in giro.

La lunga malattia del compagno e la solitudine in cui Sara era sprofondata dopo la sua morte avevano cancellato in lei la voglia di cimentarsi con pietanze elaborate. Il peso immane della nostalgia sarebbe stato insopportabile, come sfogliare un album di fotografie che ritraevano istanti felici ma con la consapevolezza che non sarebbero mai più tornati.

Così erano passati gli anni, e mentre il cuore ingrigiva, insieme ai capelli e alla pelle, aveva smesso di cucinare. Alimenti precotti e surgelati. Frigorifero e microonde. Affettati di colori diversi ma sempre dello stesso sapore, vasetti da aprire, cucchiaini di plastica. Un universo sintetico l’aveva avvolta nel suo gelido abbraccio, quasi fosse l’inospitale reggia di ghiaccio di una favola triste.

Poi era accaduto l’impensabile: Massimiliano era tornato da lei. Non con le sembianze dell’unico uomo che avesse desiderato davvero, no – quelli erano miracoli che la vita vera non concedeva. Ma il nuovo Massimiliano, che tra poco avrebbe compiuto un anno e che la guardava volteggiare tra tegami e padelle ciangottando dal seggiolone e mordendo con incrollabile dedizione una paperella di gomma gialla, minacciava di occupare nel suo cuore lo stesso spazio di colui dal quale aveva preso il nome.

Così Sara si era rimessa ai fornelli. Davvero il cibo custodiva la storia dei suoi sentimenti. La differenza tra sfamarsi e cucinare, pensò, è l’amore.

Certo, ci sarebbe voluto ancora del tempo prima che il piccolo Massimiliano potesse apprezzarne l’abilità culinaria, per il momento assaporava soltanto qualche mollichina di impasto di pane bagnato, formaggio e carne macinata, che di nascosto lei gli somministrava sulla punta dell’indice; tuttavia era l’amore per il bambino a riunire a cena, ogni settimana, una strana compagnia di commensali. Secondo una recente ma solida consuetudine, si incontravano il lunedì sera a casa di Viola, compagna del defunto figlio di Sara e madre di Massimiliano, per chiacchierare e apprezzare il menu della nonna. All’appuntamento non mancava mai Davide Pardo, in qualità di apprensivo zio acquisito.

L’ispettore rappresentava un intermezzo comico per le due donne, che lo prendevano in giro con arguzie di cui lui nemmeno coglieva il senso. Quella volta, al contrario del solito, era silenzioso, pur non avendo perso la capacità di abbuffarsi masticando con il ritmo e la voracità di una betoniera. I tentativi di coinvolgerlo nella conversazione si infrangevano contro i monosillabi ruminati dell’accigliato poliziotto; Sara e Viola si erano scambiate sguardi interrogativi fin dall’antipasto.

Neanche la seconda fetta di dolce, una sontuosa pastiera che celebrava la Pasqua imminente, sciolse l’inconsueto mutismo di Davide, e a quel punto Viola decise di risolvere la questione con l’abituale sensibilità e il savoir-faire che contraddistinguevano il suo modo di rivolgersi all’ispettore:

«Oh, Pardo, se devi venire qua a ingozzarti come un maiale all’ingrasso senza nemmeno fiatare, spendi quei cinque euro e vai in un fast food, chiaro?».

Davide sobbalzò, sbatté le palpebre sorpreso, e soffiando zucchero a velo rispose:

«Ma scusa, che ho fatto?».

Sara lanciò un’occhiataccia alla ragazza e cercò di stemperare i toni:

«Sai, oggi sei così taciturno. Siamo un po’ preoccupate».

«Io non sono preoccupata» precisò Viola. «Se si va a mangiare a sbafo da qualcuno, è buona educazione spiccicare almeno quattro parole.»

Pardo depose la forchetta nel piatto. «Avete ragione, scusatemi. È che stamattina mi… mi hanno rovinato il caffè delle undici. Il lunedì, poi…»

«Che è successo?» domandò Sara.

Pardo raccontò dell’incontro con Fusco, del favore che gli aveva chiesto, delle imprecazioni della donna paffuta, del ritardo in ufficio, delle battute acide dei colleghi a proposito della sua negligenza e della pessima giornata che ne era seguita.

Viola sbuffò. «Mamma mia, che lagna. Per un caffè, che poi hai bevuto comunque… Secondo me, averne pagati tre ti ha sconvolto, tirchio come sei.»

«Io non sono tirchio» protestò l’ispettore, «sono parsimonioso, è diverso. Ho un mutuo enorme sul groppone, per un appartamento che è diventato proprietà di un cane gigantesco, in cui ormai sono io l’ospite. Pure ieri mi ha buttato giù dal letto, quella belva. I soldi non c’entrano niente, è che mi porta male non prendere per bene il caffè. Il lunedì, poi.»

Sara sorrise al pensiero di Boris, il Bovaro del Bernese fuori taglia che aveva un rapporto tanto esclusivo quanto conflittuale col suo coinquilino; ma un dettaglio della storia di Davide aveva acceso un campanello in un luogo recondito della sua memoria. «Scusa, Pardo, mi ripeti il nome del detenuto che il tuo amico vuole incontrare?»

«Primo, non è un mio amico, anche se devo ammettere che all’epoca fu l’unico a spendersi per me in quel covo di vipere. Secondo, non voglio certo chiamare un prete rompipalle, che peraltro non sento da un pezzo, per…»

«Sì, certo, ma dimmi il nome di quello in carcere.»

Davide tirò fuori il foglietto dalla tasca e controllò:

«Ricordavo bene, Lombardo Antonino. Perché?».

Viola, con il piccolo Massimiliano in braccio, commentò acida:

«Ma che meraviglia: ammetti che quel tizio è l’unico che ti ha difeso, e già questo mi fa dubitare della sua sanità mentale, eppure non vuoi dargli una mano. Bella gratitudine».

«Non hai idea dell’ambiente in cui lavoro» ribatté Pardo. «Magari Fusco lo vuole vedere per qualche magagna, un affare di bustarelle o ricatti, che ne so. Un domani la faccenda salta fuori, risulta che sono stato io a organizzare l’incontro, e ci vado di mezzo. Non sarebbe la prima volta che mi capita.»

Sara intervenne:

«Forse potresti informarti in via ufficiosa sul detenuto, solo per capire chi è, perché sta in galera, e per quale motivo vuole incontrare il tuo ex collega».

L’ispettore rifletté, cupo, per qualche istante. Poi si strinse nelle spalle e disse:

«Magari sì. Domani potrei dare un’occhiata al database, forse così mi evito di coinvolgere il prete. Invece adesso voglio di sicuro un’altra fetta di casatiello».

Viola lo fissò disgustata. «Dopo il dolce?»

Pardo sorrise, serafico. «Be’? Non lo sai che nello stomaco si mischia tutto?»