IX

Ogni tanto aprile regala giornate come questa, pensò l’uomo annusando l’aria. Era un altro modo di percepire la città, non meno sfaccettato o profondo: solo diverso.

Sedeva fuori, al tavolino più distante dall’ingresso del caffè, teneva il busto eretto, le spalle appena discoste dallo schienale, la testa inclinata di lato come se cercasse di cogliere un suono remoto. Stava in ascolto, coi sensi vigili che si disponevano a decifrare l’ambiente. Ogni odore, ogni rumore, ogni refolo veniva riconosciuto con esattezza e classificato con precisione.

Avvertiva i gas di scarico e il lezzo della spazzatura che traboccava dal cassonetto a poca distanza, mentre il vento portava il profumo lontano del mare, e quello più vicino delle foglie primaverili che spuntavano sui rami degli alberi.

Nella via echeggiavano le trombe dei clacson insieme al rombo dei motori, al borbottio delle marmitte senza diaframma e agli insulti rivolti a chi commetteva infrazioni nel traffico; le risate argentine dei bambini intenti a giocare nel cortile di un asilo rincorrevano il canto melodioso di una casalinga che proveniva dalla finestra aperta di una cucina.

Il calore innaturale prodotto dagli scooter che sorpassavano a destra, in prossimità del marciapiede, si alternava al dolce soffio della brezza pomeridiana, ancora fresca d’inverno ma carica di una promessa d’estate.

I sensi dell’uomo seduto al tavolino erano abituati a descrivere quello che lo circondava, componendo un quadro vivido e autentico. Tutti i sensi, tranne uno.

Perché Andrea Catapano era cieco.

Non dalla nascita, però. Era stata una patologia degenerativa a privarlo un po’ alla volta della vista. Lui si riteneva fortunato, per due ragioni: la prima erano i ricordi che, combinati a un’immensa forza di immaginazione, gli consentivano di ricostruire la realtà; e lui non escludeva (anzi, era convinto) che le sue rappresentazioni mentali la migliorassero rispetto a com’era davvero. La seconda ragione era la consapevolezza dell’irreversibilità della malattia. Quando aveva compreso che non esistevano rimedi per arrestare il dissolversi del mondo nell’ombra, si era concentrato sugli altri sensi, affinandone l’acume e incrementandone la potenza. Queste capacità al limite del soprannaturale gli avevano consentito di svolgere la sua professione ai massimi livelli, tanto da rendersi insostituibile e diventare, per i pochissimi che erano al corrente della sua esistenza, una specie di leggenda.

Ora, però, Andrea Catapano era in pensione. Da sette anni, per l’esattezza.

Non che il lavoro gli mancasse, per la verità: almeno, non il lavoro in sé. Credeva nella famiglia, nell’amore, nell’amicizia, persino nella patria: e ascoltare per una vita le voci degli altri impegnate in lunghe conversazioni in cui quegli ideali venivano sovvertiti, calpestati, demoliti, giorno dopo giorno, nel segno del più becero egoismo era stata una sottile, perenne sofferenza che ancora gli pesava. Peraltro alcuni di quei sentimenti non aveva neppure potuto viverli appieno.

Così, da quando la sorella era morta, non gli erano rimasti più parenti. Si era negato la possibilità di amare libero da vincoli, perché manifestare certi orientamenti sessuali era impossibile per chi, come lui, apparteneva a una generazione incapace di sopportare il pubblico disgusto. Le amicizie, per uno che aveva dedicato all’unità tutto il suo tempo, erano nate e si erano esaurite in un contesto che imponeva di non frequentarsi fuori dall’orario d’ufficio. E la patria, be’, quella dimenticava in fretta – e non era troppo incline alla riconoscenza.

Perciò Andrea Catapano attraversava l’inverno della sua esistenza in una sostanziale solitudine. Quella situazione, però, non gli era sgradita: aveva i ricordi, che erano anche troppi. E una memoria di ferro per tirarli fuori da una polverosa soffitta e giocarci ancora.

Il caffè pomeridiano era un appuntamento fisso. Usciva di casa col suo bastone bianco, percorreva il tragitto di cui conosceva ogni singola buca, si accomodava a un tavolino e tendeva l’orecchio. Se una coppia, tre amici o qualsiasi altro tipo di gruppo conversavano attorno a lui, si divertiva a intercettare il dialogo segreto che si svolgeva sotto quello espresso dalle parole. Era una questione di toni, di spostamento del peso sulle sedie, di movimenti delle mani, che facevano tintinnare tazze e piattini. Meglio che andare al cinema, o a teatro.

A un tratto Andrea raddrizzò la testa, come se qualcuno l’avesse chiamato. Trattenne il respiro, dilatò le narici una sola volta, poi sussurrò sorridendo:

«Mora? Sei tu?».

Sara rispose, piano:

«Ciao, Andrea. Posso farti compagnia?».

Continuando a sorridere, l’uomo annuì, e con un gesto della mano indicò con precisione l’altra sedia, quasi la vedesse.

«Gli odori, i rumori. Ti stai divertendo, eh?» domandò la donna.

Il volto di Catapano si illuminò. «Alla tua destra, vicino alla porta del bar. Un tipo piuttosto robusto, di mezza età, credo. Ha finito di fumare una decina di minuti fa. Indossa una giacca scura. Giocherella col pacchetto di sigarette, ha fretta ma non aspetta nessuno. Secondo me è innamorato della cameriera, la bella bionda dell’Est. Vorrebbe attaccare discorso, ma non sa decidersi.»

Sara sorrise a sua volta. «La giacca è blu, lo hai intuito perché continua a togliersi la polvere dalla manica. Quando la bionda, che in effetti è abbastanza carina, serve qualche cliente, lui si raddrizza e mostra il suo profilo migliore, evitando apposta di guardarla. Posizione delle gambe e delle mani inequivocabile, e anche la respirazione. Hai ragione, non c’è dubbio. Gli piace.»

Andrea annuì, poi riprese sviluppando il concetto:

«Da qui in avanti siamo nel campo delle congetture, per quanto fondate. Trattiene il fiato per sembrare più magro e si raddrizza per mostrarsi più alto. Muove le mani in maniera allusiva, per attirare l’attenzione ma senza un richiamo esplicito. Secondo te si conoscono già?».

Sara tacque per riflettere, poi rispose in un fiato:

«Sì. Lei lo ignora in maniera troppo esplicita per non averlo notato, e solleva il mento quando gli passa davanti. Poco fa si è morsa il labbro superiore: rabbia, disgusto. Secondo me hanno avuto una relazione, o almeno un flirt, poi lui ha commesso un errore».

Catapano sorrise di nuovo. «È sposato. Ho sentito il suono metallico della fede sul tavolino, almeno due volte. La mollo, la mollo, poi niente.»

Sara si sporse verso di lui. «Hai ragione. Sei un mago, Andrea. Non mi ero accorta dell’anello. Incredibile.»

Il cieco si strinse nelle spalle. «No, Mora. Niente di nuovo sotto il sole. Scommettiamo che tra poco arriverà la moglie, o lui se ne andrà? Lei non l’ha nemmeno lasciato ordinare. Ma tu, come mai da queste parti? Non fingere che sia solo per godere della mia compagnia.»

Era difficile per Sara confrontarsi con chi era stato parte del suo vecchio mondo. Aveva l’impressione di essere in uno di quei fumetti in cui Superman, per qualche motivo, si trovava a incontrare qualche abitante di Krypton: in mezzo a gente con gli stessi superpoteri, lui ridiventava normale. Sara sapeva di non poter contare sul vantaggio di decifrare i segni del corpo: Andrea era in grado di diventare impenetrabile. E non poteva neppure dissimulare le passioni che provava: con lui mentire era inutile.

Poteva giocare sulla sorpresa, però. C’era una frazione di secondo, che nel caso del cieco si riduceva a una porzione di tempo infinitesimale, da sfruttare. Era l’istante che precedeva l’insorgere dell’autocontrollo.

Magari non serviva, magari Andrea sarebbe stato sincero e le avrebbe rivelato quello che le serviva sapere. Ma non era il caso di correre rischi con un preambolo che l’avrebbe privata di un vantaggio. Perciò scandì in tono piatto:

«Lombardo Antonino».

Il mento. L’unico segnale che ravvisò fu un lievissimo, impercettibile movimento della parte inferiore del viso di Andrea verso l’alto. Sarebbe sfuggito a chiunque, forse anche a lei, se non fosse stata determinata con tutta se stessa a cogliere i cambiamenti nell’espressione di Catapano. Ma il mento si era mosso. Lo conosci, pensò. Sì, lo conosci.

«E chi è?» domandò Andrea, curioso.

«Dovrebbe essere uno con cui, ai tempi, abbiamo avuto a che fare.»

L’uomo scosse la testa. «Sei sicura? Perché a me non dice niente.»

Nulla tradiva incoerenza tra quelle affermazioni e il linguaggio del corpo. Le mani ferme sulle ginocchia, le spalle dritte, il volto atteggiato a una blanda curiosità. Quanto sei bravo, pensò Sara. Quasi perfetto.

«Avevo un dubbio, ma mi sarò sbagliata. Se non ti dice niente, significa che è inutile approfondire.»

Catapano allargò le braccia. «Mah, Mora, sono solo un vecchio pensionato. Magari l’ho dimenticato. Posso capire com’è saltato fuori questo nome, e perché hai creduto che fosse uno che c’entrava con noi?»

«L’ha menzionato a cena un amico poliziotto. E chissà perché, ho avuto una strana sensazione. Non ricordo se me ne ha parlato qualcuno, o se mi sono occupata di lui. Ma forse comincio a girare a vuoto. Ormai anche io sono solo una vecchia pensionata.»

Una macchina si accostò strombazzando. Una donna starnazzò dal finestrino, all’indirizzo dell’uomo robusto con la giacca blu:

«Amoreee! Amoreee! Sono qui! Sali, che non posso fermarmi!».

L’uomo si mise in piedi con un sospiro e, lanciato un ultimo sguardo alla cameriera, trotterellò verso l’auto.

La bionda sbuffò e disse, piano:

«Corri, corri, amore. E non tornare più».

Andrea ridacchiò, mentre Sara si alzava per andar via.