Un altro corridoio, altre voci di degenti e visitatori che provenivano dalle stanze durante l’orario di visita. Un altro ospedale, più pulito e tranquillo di quello del vecchio. Ma il ragazzo percepiva comunque la sofferenza attraversare le pareti, insieme allo spettro della futura solitudine. Non la temeva più di tanto, la solitudine. Nonostante fosse giovane, la vita gli aveva impartito un insegnamento pesante: aveva imparato che di solito gli altri sono un pericolo, o un problema. Certo, da soli si può contare soltanto su se stessi, ma nessuno ti tradirà. Questo è sicuro.
Mentre aspettava che lo lasciassero entrare, pensava con cupa freddezza che quella storia del karma, di cui parlavano in televisione, era proprio una stronzata. L’esperto spiegava che, al contrario di ciò che ci si immagina, “karma” non significa che il destino è già scritto ed è impossibile da cambiare, ma che per volgerlo a proprio favore bisogna comportarsi bene. In sintesi, si riceve quello che si dà.
La sua esistenza, invece, era la dimostrazione del contrario. Il padre? Mai conosciuto. La madre? Morta da qualche anno, una disperata che si bucava. Il vecchio? Prima in galera e adesso sul punto di andarsene. Carla? Colpita da una malattia rara e disgraziata, per la quale era probabile che non esistessero rimedi.
Se avesse potuto parlare col tizio della televisione, gli avrebbe detto:
“Be’, come la spieghi questa iella, tu con quel bel sorriso e la voce suadente? Se mi comporto bene, Carla guarisce? Il vecchio non muore, e lo scarcerano? E che colpa avevo io, che ero un dannato moccioso, quando i miei genitori mi hanno abbandonato, prima uno poi l’altro?”.
Ma al ragazzo non piaceva piangersi addosso. Lui affrontava i guai cercando di arrangiarsi. Tanto era solo, e presto sarebbe rimasto ancora più solo. Alla faccia del karma.
Giurò che, qualsiasi fosse la fine di quella storia, lui in un ospedale non ci avrebbe mai più messo piede. Basta con l’odore dei disinfettanti. Basta con gli infermieri scortesi che ti guardano storto e ti chiedono se sei un parente. Basta vedere donne che escono sorridenti dalle stanze alla fine dell’orario di visita e scoppiano in lacrime appena dietro l’angolo.
Aveva accettato che la morte è parte della vita. Ma non avrebbe rinunciato a combattere con tutte le forze.
La porta si aprì e la caposala gli disse che poteva entrare.
Carla stava in una camera con una signora, tale Luisa, che, secondo il dottore, soffriva di una malattia affine alla sua, anche se a lui sembrava molto, molto peggiore. Luisa aveva il corpo ricoperto di macchie rosse che tendevano a diventare piaghe, soffriva di fortissimi mal di testa e i capelli le cadevano a ciocche. Carla invece, agli occhi del ragazzo, continuava a essere bellissima.
Si fermò sulla soglia, per controllare se una delle due dormiva: Luisa sì, ma lei dormiva quasi sempre, Carla invece era sveglia.
Lo guardò storto. «Ah, sei tu. Senti, ero stata chiarissima: devi stare lontano da qua. Perché non afferri il concetto?!».
Il ragazzo prese una sedia, l’accostò al letto, si mise a cavalcioni e sorrise sardonico:
«Ma come sei gentile… Che bella accoglienza. Grazie. Anch’io sono felice di vederti».
«Credi che parli a sproposito? Credi che non sia un sacrificio, per me, proibirti di venire?»
Lui rispose, calmo:
«E allora smettila. Tanto è fatica sprecata, io sono cocciuto».
La donna socchiuse le palpebre, trasse un lungo sospiro, poi le riaprì. «Non voglio arrabbiarmi. Non sopporto che tu mi veda così, ma neanche che mi consideri una stronza. Quindi, per cortesia, accontentami. Non siamo in una struttura come le altre, posso chiedere alla sicurezza di non lasciarti passare. È questo che vuoi?»
L’espressione scanzonata del ragazzo lasciò spazio alla tristezza. «Ascoltami, io ho solo te, e il vecchio. Solo voi due, nessun altro. Lui è alla fine, non c’è niente da fare; e sono io che non voglio più andare a trovarlo, si sta spegnendo e mi manca l’aria. Per te, invece, c’è ancora speranza. Possiamo combattere, risolvere.»
«Risolvere? Davvero? Allora devono darti il Nobel, perché fino a oggi non mi risulta che abbiano trovato la cura. Non so quanto mi resta, varia da paziente a paziente. Ma la cura, tesoro mio, non c’è.»
«Queste sono cazzate» sbottò il ragazzo. «È una malattia rara, e quelle merde delle multinazionali farmaceutiche non investono perché non conviene. Ma i ricercatori stanno sviluppando protocolli sperimentali. Mi sono informato.»
Lei scosse la testa. «Di nuovo la storia dell’università del Vermont? Ti prego, non annoiarmi.»
Il ragazzo si alzò, stringendo i pugni. «Ma come? Guarda che si occupano proprio delle malattie autoimmuni dei tessuti connettivi. Hanno ottenuto e continuano a ottenere risultati fantastici, con l’arresto del decorso e in tre casi, tre, pensa!, con la regressione dei sintomi. La regressione! Non solo non si muore, ma addirittura si guarisce!»
Carla era intenerita, suo malgrado. «Tesoro mio, erano anni che ti supplicavo di studiare, e alla fine hai cominciato per me. Grazie.»
Lui non era disposto a cambiare discorso. «Questi sono dati concreti, non sciocchezze e nemmeno ottimismo a cazzo. Dati, capisci?»
Carla rise, e la risata ebbe un suono lugubre. Il ragazzo rabbrividì accorgendosi solo in quel momento che la pelle attorno alle labbra, tesa e lucida, lasciava scoperte le gengive in un modo che non ricordava.
«Non sei preparato in geografia, però. Perché il Vermont è piuttosto lontano, e io non posso aspettare che trovino la cura, la testino e la mettano in commercio.»
Il giovane era un fiume in piena:
«Ed è qui che ti volevo! I laboratori del Vermont lavorano in rete con una dozzina di altri centri in tutto il mondo: serve per analizzare l’evoluzione della patologia nei diversi gruppi etnici e in differenti condizioni ambientali. Uno di questi centri è proprio qui, in Italia. Al Nord. Condividono i progressi della ricerca e sperimentano le terapie sui malati. C’è una società privata che seleziona i… soggetti, li chiamano così, in vari stadi della malattia e li segnalano perché siano inseriti nel protocollo».
Carla parve per la prima volta interessata, anche se non voleva cedere a quell’entusiasmo. «E in base a quali criteri vengono scelti?»
«Non preoccuparti, questo è un problema mio.»
Lei si drizzò a sedere. Una mano, che fino ad allora aveva tenuto sotto il lenzuolo, scivolò fuori. Con una fitta al cuore, il ragazzo notò che la deformità delle dita, causata dal ritrarsi dell’epidermide, le rendeva simili a degli artigli.
«No, non è un problema tuo, maledizione» rispose Carla in tono secco. «È un problema mio. Mio. Capisci? E come risolvi tu le questioni non mi piace. Non posso accettare nulla di… irregolare.»
Il ragazzo rise. «Illegale. Stavi dicendo illegale. Te l’ho promesso che rigo dritto: ti assicuro che posso riuscirci.»
Lei si accasciò, esausta. «Adesso devo riposare. Vattene, per favore. Vai a casa.»
Lui si avvicinò piano.
Non le disse che, per inserirla nel protocollo, un tizio della società privata gli aveva chiesto centomila euro, in contanti.
Non le disse che lui si era impegnato a trovarli.
Non le disse che l’amava di un amore che non credeva possibile.
Non le disse che aveva solo lei, che gli era madre, sorella, amica e amante.
Non le disse che anche lei aveva solo lui, perché gli altri se n’erano andati tutti, ormai.
Non le disse niente.
La baciò sulla fronte, e uscì.