XI

Quando il campanello suonò, l’infermiere stava dormendo. Non avrebbe dovuto, per la verità: si chiamava “turno di notte” perché era appunto un turno, bisognava faticare mentre gli altri riposavano; e lui era uno che il suo impiego lo prendeva sul serio, non come quei furbi, ed erano tanti, che con lo stipendio fisso assicurato, i contributi pagati e un regolare contratto da presentare in banca per un finanziamento si cercavano subito qualche altra occupazione in nero e raddoppiavano il reddito.

Lavorava lì da trent’anni, e non avrebbe mai voluto cambiare. Aveva conosciuto tanti medici, più o meno bravi, più o meno ignoranti. L’ospedale non era una struttura prestigiosa, di quelle a cui si aspira per una carriera intera e, una volta assunti, non si molla più; perciò il personale era composto in prevalenza da giovani in ascesa e da elefanti prossimi alla pensione, gente che ne aveva viste di tutti i colori e che mirava perlopiù a non avere grane.

L’infermiere, invece, teneva a quel reparto, anche se nessuno ci stava volentieri. I malati terminali erano senza speranza e difficili da accudire. La tristezza e la malinconia della fine imminente si riverberavano sull’umore, e il tempo scorreva grigio, ormai privo di aspettative. Non era piacevole assistere dei condannati. Lui poteva offrire solo un piccolo aiuto a chi se andava tra mille sofferenze. Eppure considerava quel sostegno importante. Molto importante. Perché la vita, per uno che era marito e padre, e tra poco sarebbe diventato nonno, era un dono bellissimo e doverla abbandonare uno strazio immenso. Pensava che nell’agonia dovesse esserci qualcuno a regalare un sorriso, a lenire l’angoscia di chi si sentiva un penoso ingombro per gli altri.

Aveva un bel carattere, l’infermiere. Spesso gli amici e i parenti gli chiedevano, con un certo disagio, come riuscisse a essere sempre di buonumore, a raccontare barzellette, a scherzare in mezzo a piaghe, lamenti, bestemmie e dolore dalla mattina alla sera o anche, come quel giorno, dalla sera alla mattina. Rispondeva ogni volta, con un sorriso e un’alzata di spalle, che a qualcuno quel compito doveva pur toccare. Ma la verità, che non confessava mai, era un’altra. Il segreto della sua leggerezza, del suo lasciarsi incantare ancora dal mondo, era che la profonda comprensione della pena dei malati gli restituiva l’esatta misura di quanto fosse preziosa l’esistenza.

Con quello spirito, accettava il turno di notte senza protestare. In effetti, per anzianità avrebbe potuto risparmiarselo: chi aveva il diritto di scegliere preferiva non passare le ore del buio in quel luogo di fantasmi ancora vivi che rantolavano in attesa della signora con la falce. Trascorrere del tempo in un simile posto spaventava anche quelli che non erano troppo suggestionabili. Ma per chi si considerava un impavido soldato nella guerra in nome della vita che sta soccombendo, disertare era impossibile. Anche se era notte.

Tuttavia, quando il campanello suonò, stava dormendo. Sognava il figlio di suo figlio, che sarebbe nato tra un mese, se non fossero sorte complicazioni. L’arrivo del piccolo gli procurava un’emozione che non riusciva a descrivere. Gli avevano spiegato che un nonno si gode il nipote molto più di quanto si sia goduto i figli, perché il legame è lo stesso ma senza la responsabilità del mantenimento e dell’educazione. Nutriva diversi dubbi in proposito, perché i due ragazzi in dolce attesa erano più precari di un acrobata che cammina sul filo: lui e il consuocero la preoccupazione del mantenimento ce l’avevano eccome. Ma niente poteva limitare la gioia per quella nascita che l’infermiere attendeva con trepidazione. Ci pensava sempre: e siccome i sogni sono generati dai pensieri, eccolo in Ostetricia, proprio in quell’ospedale, mentre un dottorino dalle maniere gentili gli metteva in braccio il bimbo, che iniziava a piangere. Ma il pianto aveva un suono strano, continuo e penetrante. Il suono di un campanello.

Si svegliò di soprassalto, lanciò una rapida occhiata al numero sotto la spia lampeggiante, si alzò dalla sedia a sdraio infilando gli zoccoli con un unico, esperto movimento e corse verso il fondo del corridoio.

Nel breve tragitto, cercò di ricordare le condizioni dell’unico occupante dell’ultima stanza; la cartella clinica non quadrava col trillo dell’allarme che lo aveva destato.

La sorte dell’uomo era segnata, il deperimento e la crescita del male avevano raggiunto il punto di non ritorno. Il dolore doveva essere terribile, e la terapia, in pratica, prevedeva la sedazione continua: una lenta attesa. Se il paziente era riuscito ad allungarsi e a prendere la pulsantiera, era probabile che l’ultimo dosaggio dei farmaci non fosse stato corretto.

Entrò nella stanza e accese la luce che, impietosa, illuminò il volto, scavato e grigio, del degente, la bocca aperta nel tentativo di respirare, gli occhi socchiusi. La morte sembrava aver già preso possesso di quel corpo, sottile e rigido, sotto il lenzuolo candido.

Lombardo Antonino, anni sessantasette, carcinoma primario al polmone destro, ricapitolò tra sé l’infermiere. Versamento pleurico maligno, metastasi accertate ai reni, al fegato eccetera. Detenuto. Familiari da avvertire: nessuno. Il piantone nemmeno c’era, pure l’amministrazione carceraria l’aveva dato per perso.

La mano destra stringeva la pulsantiera. L’infermiere si avvicinò, la sfilò con delicatezza dalle dita, la ripose, e disse in un soffio:

«Eccomi, sono qua. Avete dolore?».

Quindi controllò la flebo. Il liquido opaco scendeva regolare, le tumefazioni bluastre sull’avambraccio tradivano la difficoltà di inserire l’ago nelle vene.

Il malato pareva di nuovo incosciente, doveva essere stato un riflesso condizionato o forse si era svegliato per un attimo.

L’infermiere si piegò per rimboccare la coperta, e in quel preciso istante l’altra mano del paziente guizzò da sotto il lenzuolo e gli artigliò il braccio con una forza insospettabile. Nonostante l’esperienza, l’infermiere fu sul punto di urlare per la sorpresa e lo spavento.

L’uomo si sforzò di parlare, ma i suoni si spensero sulle labbra secche.

L’altro prese dal mobiletto un po’ d’acqua, bagnò una garza e gli umettò la bocca.

Il vecchio mormorò:

«È arrivato il momento».

All’infermiere si strinse il cuore, ma non ebbe il coraggio di mentire. «Devo avvisare qualcuno?»

L’uomo scosse la testa. «No, no, ascoltami tu, per favore.»

Il silenzio era rotto solo dal tenue ronzio dei macchinari.

«Ditemi, ditemi pure.»

Il moribondo lo tirò a sé con la mano adunca. L’alito era fetido di medicine, di vuoto e di morte.

Il vecchio, che poi non era nemmeno così vecchio, cominciò a parlare. Era impressionante, perché le guance, gli zigomi, il naso sembravano pietrificati. Gli occhi restarono socchiusi, la sclera appena visibile, le pupille rovesciate all’indietro sotto le palpebre immobili. Muoveva solo le labbra, modulando il fiato come se il poco che gli era rimasto andasse speso con parsimonia. E così era.

L’infermiere si era trovato altre volte in quella situazione. Di notte c’era solo lui, nessun familiare, nessun amico, nessun prete. E spesso tutto si risolveva in una manciata di minuti: addii, rimpianti, vaneggiamenti, deliri. Antiche pene consegnate a chi non avrebbe dovuto serbarne il ricordo.

La luce bianca illuminava un cadavere, solo un corpo consumato dall’inutile lotta tra il male e la cura, che usciva sconfitta e che forse lo aveva devastato più del cancro stesso. Quell’uomo era già trapassato, ma gli stava narrando una storia. La storia di una ragazza e di un motociclista. Le frasi, nel respiro spezzato, raccontavano di un vecchio libro e di una lettera che sembrava senza valore e invece era importante. Importantissima.

La mano continuava a stringere con forza, come se il vecchio volesse assicurarsi della presenza dell’altro. L’infermiere l’accarezzava, sperando che il morto vivente traesse conforto da quel contatto.

La voce sommessa raccontò di un figlio e di un giovane. Di una lotta e di una sconfitta. Della sofferenza, della gioia e di una nuova sofferenza.

Poi le parole si interruppero, e con esse il respiro.

L’infermiere depose il braccio tumefatto sotto il lenzuolo e guardò l’alba grigia che bussava alla finestra.