Varcata la soglia di casa, Andrea Catapano si trasformava in un altro tipo di animale. Le piccole incertezze nei movimenti e la relativa cautela dei passi sparivano; in quell’ambiente immerso in un buio perenne, l’uomo si aggirava, agile e sicuro, come un felino nella savana.
Andrea provvedeva da solo a tutto, e non aveva mai preso in considerazione la possibilità di assumere un domestico o una governante.
Se ci fosse stato un testimone, lo spettacolo sarebbe stato impressionante. L’appartamento, pulitissimo e funzionale, era organizzato in modo da corrispondere alle sue esigenze. Chiusa la porta, Catapano deponeva il bastone telescopico e, slacciandosi la cravatta, percorreva il tragitto fino alla camera da letto. Apriva e richiudeva cassetti, si toglieva le scarpe e infilava le pantofole, indossava una comoda tuta, andava in cucina e preparava il caffè; compiva ogni gesto nell’oscurità più profonda senza alcuna titubanza e senza procedere a tentoni, grazie a una millimetrica rappresentazione mentale dello spazio in cui gli oggetti erano collocati secondo una logica ben precisa, che in nessun caso lo avrebbe tradito.
L’attitudine alla segretezza, le precauzioni apprese durante i lunghi, faticosi addestramenti ai quali si era sottoposto in gioventù erano talmente radicate in lui che disseminava minuscole trappole, segnali invisibili per accorgersi se qualcuno avesse violato il suo habitat quando lui era assente. Ogni volta che usciva infilava un pezzettino di carta tra il battente e lo stipite, lasciava socchiusa l’anta dell’armadio, inclinava appena la cornice di un quadro. Al rientro, passare in rassegna quei dettagli era un’operazione che gli rubava pochi secondi. Anche quella sera non ebbe la minima esitazione.
Soddisfatto, si trasferì in soggiorno. L’aria era un po’ stantia, quindi aprì uno spiraglio di finestra. A sua insaputa la luce di un lampione filtrò attraverso la tapparella, illuminando inutilmente una porzione del tavolo e il mobile che ricopriva un’intera parete, una specie di libreria ma con i ripiani così schiacciati che sarebbe stato impossibile riporvi dei libri se non in orizzontale. Non c’era nessun volume, però.
Le superfici erano occupate per intero da una serie infinita di piccoli astucci, tutti dello stesso colore e identici tra loro, sul cui dorso erano incisi dei punti e delle linee che classificavano il contenuto secondo un codice diverso dal Morse e dal Braille, ma che il tatto di Catapano riconosceva alla perfezione.
Le dita percorsero, agili e veloci, uno dei ripiani e si fermarono senza indugio su una guaina. Andrea la prese e raggiunse un tavolino sul quale torreggiava un vecchissimo registratore che assomigliava a un reperto archeologico. Estrasse una bobina dall’astuccio e la collocò sulle testine del dispositivo. Premette qualche tasto, indossò delle cuffie di ultima generazione e si accomodò sull’avvolgente poltrona in pelle collocata di fianco al tavolino.
I rumori esterni vennero cancellati di colpo dalle proprietà isolanti di quel prodigio dell’acustica, unica concessione alla tecnologia più avanzata che il cieco si fosse permesso. Notando l’espressione beata che si dipinse sul volto di Andrea, un intruso dotato di vista a infrarossi avrebbe pensato che l’uomo si fosse messo all’ascolto di una musica celestiale, eseguita da uno strumentista di genio.
Dai morbidi auricolari imbottiti, però, non provenivano note e accordi, ma una voce maschile, nemmeno troppo melodiosa, impegnata in una conferenza, o in una lezione, sulla politica estera dell’Ungheria ai tempi della Guerra fredda. Si esprimeva in italiano, con molte citazioni dalla lingua magiara.
Tuttavia Andrea non ascoltava le parole, che avrebbe potuto recitare a memoria. Non era interessato al senso delle frasi, e non era per approfondire la storia non scritta dell’Europa che aveva scelto quel nastro. Catapano si lasciava cullare dal tono suadente, dalla vibrante intonazione, dalla vaga inflessione tipica della città che arrotondava le sillabe conferendo loro la sottile musicalità di una misteriosa canzone.
Quel discorso era stato pronunciato quando Andrea non aveva ancora perso del tutto la vista, ma già aveva avuto modo di comprendere quanto fosse preziosa. Perciò quel nastro era magico: era come sfogliare un album di fotografie, care e perdute. Poteva ricostruire millimetro per millimetro l’ovale del volto, il contorno della figura, la maniera inconfondibile di ravviarsi i capelli dell’unico uomo che aveva amato davvero.
Non c’era stato mai niente tra loro. Niente di fisico, neppure un bacio. Forse due abbracci, uno quando si erano salutati perché la malattia l’aveva costretto a lasciare l’unità e l’altro quando Andrea era andato a dirgli addio perché stava morendo. Due abbracci senza il contatto della pelle nuda, la stretta di due cuori che avevano condiviso il pane, le risate e le lacrime, e che si stavano separando tra loro e, uno dei due, dalla vita.
Andrea non aveva mai confessato a Massimiliano di amarlo. Era stato la sua ombra, lo scudiero fedele, il tramite per la prudenza e l’equilibrio che Tamburi faticava a trovare, pieno com’era di ardore e impulsività. Non gli aveva mai confessato quella passione perché avrebbe significato perderlo, rinunciare anche alle briciole, ai frammenti di lui che riusciva a possedere grazie all’affiatamento e alla complicità del lavoro.
Le labbra del cieco nel buio ripeterono le parole incise sulla bobina, anticipandone il suono.
Che senso avrebbe avuto, del resto, ammettere quel sentimento? Massimiliano era innamorato. Prima delle tecniche di indagine di cui era stato un pioniere, poi della struttura investigativa che aveva fondato. E infine di Mora, quella piccola femmina bruna che assomigliava a una lince, la cui anima sembrava emettere, almeno alle orecchie di Andrea, un rumore costante simile a un ronzio. Appena l’aveva conosciuta, aveva capito che Mora era speciale. Possedeva un dono soprannaturale. Istinto, intuito, chissà: forse quello che chiamano “sesto senso”.
Catapano aveva colto nello sguardo di Massimiliano lo stupore e l’incanto quando Mora era arrivata nei loro uffici insieme a Bionda, la collega assai più appariscente, bellissima e vorace come una lupa, che adesso dirigeva l’unità. Erano entrambe elementi straordinari e donne fuori dal comune, ma lui non aveva avuto dubbi su quale delle due avrebbe conquistato il cuore del capo.
Nella registrazione, intanto, Massimiliano taceva, occupato a tracciare uno schema alla lavagna. L’udito allenato e la memoria infallibile del cieco tradussero la pressione del gesso in immagini vivide e tridimensionali, come se stessero scorrendo proprio davanti a lui e i suoi occhi non si fossero ancora spenti.
Eppure, cara Mora, nemmeno tu sai tutto. Io sì, invece.
Andrea ignorava da dove fosse saltato fuori quel nome. Sperava di non essersi tradito, perché conosceva l’abilità quasi stregonesca di Mora nel cogliere i pensieri celati dietro le manifestazioni esteriori. Il suo cuore, però, aveva dato un balzo, e non poteva essere altrimenti.
Mentre ascoltava lo stato delle relazioni internazionali di Budapest con l’Unione sovietica, Catapano ricordò i colloqui notturni nell’ufficio di Massimiliano, le preoccupazioni, le paure di lui. Rammentò il suo pianto, e provò una sconfinata tenerezza perché per la prima, forse l’unica volta si era affacciato su un abisso di disperazione di cui fino ad allora non aveva sospettato l’esistenza.
Avevano deciso insieme la cancellazione dei dati, ma era stato Andrea a proporre quella soluzione, suggerendo che lo scenario avrebbe potuto mettere in pericolo anche Mora.
Tu ignori il pozzo che scoperchieresti, Mora. Non immagini quanti morti verrebbero a visitare le tue notti, e quanti a popolare le mie, che sono vecchio e disperato, devoto alla memoria del solo grande amore che non ha mai saputo di esserlo.
Antonino Lombardo è il primo anello di una catena che trascina in fondo a un baratro. Un nome insignificante che può innescare una reazione a catena, la cui portata distruttiva non è prevedibile.
Non te l’ho detto chi era, Mora. E non te lo dirò, a meno che non sia davvero necessario. Perché io e te, così diversi eppure simili – tu con quegli occhi che non conoscono pace, io con queste orecchie che non sono capaci di dimenticare – abbiamo in comune l’amore. Che è sopravvissuto alla morte, ma che non è detto sopravviva alla verità.
Nell’inconsapevole luce del lampione, cullato dalla voce di un lontano passato, Andrea Catapano cominciò a singhiozzare in silenzio.