Fosse stato un altro, una volta scoperto chi era, l’avrebbe fermato, preso per il bavero, sbattuto al muro e costretto a raccontargli che ne era stato della sorella, che le aveva fatto.
Ma Angelo Fusco era un poliziotto. Così aveva risposto a quel tronfio idiota di Filippone, quando gli aveva chiesto quale fosse il suo mestiere. Era un poliziotto e si comportò di conseguenza, valutando con freddezza come poteva essere andata e ragionando sugli esiti di un suo gesto impulsivo. Aveva studiato i sequestri di persona, e aveva scoperto che le vittime correvano un grave pericolo se il rapitore, sentendosi braccato, decideva di non tornare nel luogo in cui era imprigionata la sua preda.
Dopo aver identificato la motocicletta, l’unica di quel modello nella zona, era stato facile risalire, con qualche discreta domanda in giro, al nome del proprietario: Arturo Bruni, figlio di un noto e ricco commercialista, iscritto senza entusiasmo alla stessa facoltà di Ada e destinato, un giorno lontano, a riscaldare la sedia nello studio di famiglia giustificando così i soldi che avrebbe sperperato in giro.
Fusco sapeva benissimo che era inutile rivolgersi ai colleghi della città. Se anche qualcuno gli avesse dato retta, non avrebbe avuto prove e l’unico risultato sarebbe stato mettere il ragazzo in allerta. Doveva agire con prudenza.
Così noleggiò un Vespone e non lo perse di vista un attimo. Lo seguì per due giorni. Aveva stabilito che, se il giovane teneva Ada segregata da qualche parte, in quel lasso di tempo sarebbe dovuto tornare da lei a verificarne le condizioni.
Mentre Bruni conduceva la sua vita da debosciato, l’angoscia nel cuore di Angelo cresceva di minuto in minuto. Arturo non frequentava luoghi isolati, non variava i tragitti dei suoi spostamenti e non aveva contatti con pregiudicati o individui sospetti: Fusco era consapevole che quel comportamento non era compatibile con il profilo di un rapitore. Durante le quarantott’ore fissate come termine massimo del pedinamento, il motociclista si era svegliato tardi, era passato dall’università senza frequentare le lezioni limitandosi a bighellonare per l’edificio e attaccare bottone con alcune colleghe, aveva pranzato in un caffè, la sera aveva cenato in pizzeria, poi era andato al cinema. In casa era rimasto pochissimo.
Un paio di volte Angelo gli si avvicinò per guardarlo in faccia. Aveva l’aria annoiata e distesa di chi è privo di preoccupazioni. Era bello e consapevole di esserlo, aveva capelli ricci neri, lineamenti regolari, un fisico longilineo, e indossava abiti firmati: tutto quello che serviva per affascinare e irretire una ragazza di provincia.
Alla fine del secondo giorno, Fusco decise di affrontarlo.
Era solo a indagare sulla scomparsa di Ada, e non poteva permettersi il lusso di battere una falsa pista. Non poteva nemmeno escludere che, mentre spiava l’inutile esistenza di quel figlio di papà, il vero colpevole stesse portando a termine, indisturbato, il proprio piano.
Lo attese a tarda notte all’uscita del garage dove parcheggiava la Ducati. La gente del quartiere dormiva ormai da un pezzo, e la strada era deserta. Angelo si reggeva a stento. Da quando la sorella era sparita, riposava solo un paio d’ore al giorno, se ci riusciva; ma quelle brevi interruzioni dalla pena della veglia erano popolate da terribili incubi e non gli procuravano alcun ristoro. Era stravolto, e la certezza che ogni singolo istante allontanava la possibilità di trovare Ada lo faceva precipitare in un abisso di disperazione.
Arturo Bruni girò l’angolo fischiettando piano e riponendo le chiavi della moto nel giubbotto. Angelo gli si parò davanti, sbucando dall’ombra. Per poco il giovane non lo urtò. Provò a scansarlo, pensando a uno scontro fortuito, ma il poliziotto gli afferrò il braccio poco sotto la spalla. La stretta era così forte e dolorosa, oltre che inaspettata, che il ragazzo prima emise un lamento, poi aprì la bocca per urlare.
Angelo, però, lo precedette:
«Fossi in te, me ne starei tranquillo».
Più che la minaccia, a zittirlo fu lo sguardo di Fusco. Bruni, che era un superficiale vanesio ma non uno stupido, vi lesse un’allucinata determinazione e una fredda furia. Entrambe non lasciavano presagire nulla di buono. Abbassò la testa e notò il luccichio del metallo brunito di una pistola che lo sconosciuto stringeva nell’altra mano. Il labbro inferiore cominciò a tremargli e balbettò:
«Ti do tutto, ma stai calmo».
Angelo sussurrò:
«Sono calmissimo. Ma appena provi a gridare o tenti di scappare, ti pianto la canna nella pancia e sparo, così non fa nemmeno rumore. Chiaro?».
Bruni annuì con un impercettibile cenno del capo. Aveva gli occhi sbarrati e sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Era giovane e atletico, ma l’altro lo sovrastava di venti centimetri abbondanti. Non si esprimeva in dialetto e non sembrava né ubriaco né drogato. Quei particolari spaventarono Arturo ancora di più. «Vuoi la moto, vero?» chiese scosso da un brivido. «Andiamo in garage e te la prendi. Non c’è problema.»
Fusco ghignò:
«Me ne fotto della tua Ducati. Serve a quelli come te per rimorchiare. Tienitela».
Arturo iniziò a temere il peggio. Se non voleva soldi e nemmeno la moto, che stava cercando quel pazzo?
Il poliziotto lo spinse in una rientranza buia della strada, fuori dal cono di luce di un lampione, e ringhiò:
«Ada. Voglio sapere dov’è. Subito. Altrimenti giuro su dio che t’ammazzo».
L’altro sbatté le palpebre, confuso:
«Ada? Non conosco nessuna…».
Lo schiaffo partì improvviso, tanto che il giovane non se ne accorse. La testa schizzò all’indietro e picchiò contro il muro. Bruni squittì per il dolore.
«Ti avverto, non ho più niente da perdere. Quindi ripeto la domanda, e mi aspetto una risposta convincente, sennò becchi il resto: dove la tieni Ada Femia? È una tua collega di università. Lo sapresti se ti degnassi di frequentare, invece di non combinare un cazzo dalla mattina alla sera.»
Il barlume di un’intuizione illuminò il volto del ragazzo, che si teneva una mano sulla guancia arrossata dal ceffone:
«Ada! Certo, quella bona… quella carina, sì. Non la vedo da giorni, forse da più di una settimana. Tu sei il fidanzato, giusto? Ascolta, non siamo nemmeno amici, ci avrò parlato a stento quattro…».
Stavolta il manrovescio lo centrò sull’altra guancia. Arturo cominciò a piagnucolare, mentre Fusco chiariva il concetto:
«Non sono il fidanzato, sono il fratello. E tu eri con lei prima che sparisse. Perciò o vuoti il sacco o ti lascio freddo a terra».
«E io che ne so? Ti ho spiegato che non la vedo da più di una settimana.»
Angelo gli afferrò di nuovo il braccio. «Raccontami di quando l’hai incontrata, e attento a non dimenticare niente.»
Il ragazzo emise un gemito, ma si affrettò a rispondere:
«Ero in moto, l’ho incrociata alla fermata di via Giordano. Le ho offerto un passaggio, lei ha rifiutato e io me ne sono andato. Perché, che è successo?».
«Qualcuno sostiene che stavate litigando. Allora?»
Bruni scosse la testa. «Noi? No! Cioè, poteva sembrare, in realtà non è così. Io premevo per accompagnarla, era tardi, i negozi stavano chiudendo… Una ragazza così carina, da sola, mi pareva brutto. Lei ha insistito che preferiva aspettare l’autobus. Tutto qui.»
«Poi?»
Il giovane cercò di divincolarsi senza riuscirci. «Ahia, basta, mi fai male… poi, niente. È arrivato un amico suo in macchina e lei è salita.»
Per la sorpresa, Angelo allentò la stretta, e Bruni quasi si liberò. Il poliziotto gli assestò una ginocchiata al basso ventre, e l’altro si accasciò su se stesso con un grugnito, entrambe le mani sui testicoli. Fusco lo prese per la collottola, lo tirò su e iniziò a parlargli a un centimetro dal volto:
«Hai tre secondi per dirmi tutto su quella macchina e sul tizio che la guidava. Se le informazioni non mi soddisfano, sei finito».
«Era scura, forse una Peugeot o una Citroën, non sono certo. Non si distingueva chi c’era al volante, lei è montata su e ciao.»
«Prima hai detto “un amico”. Quindi era un uomo. Adesso sostieni che non si distingueva.» Tolse la sicura e scarrellò l’arma; nel silenzio della notte, il suono metallico rimbombò come uno sparo. Bruni farfugliò:
«Sì… sì, scusa. La sagoma era quella di un uomo, si è allungato dal lato del passeggero per dirle qualcosa e lei gli ha sorriso, poi è salita. Così ho pensato che fossero amici. Non so altro, davvero!».
A quel punto, col colpo in canna, nel buio di una strada deserta, in una città che non era la sua, Angelo Fusco si rese conto che si stava trasformando in un criminale. Che in quel momento aveva smesso di essere un poliziotto.
Poi avvertì con chiarezza che il ragazzo era sincero. Poteva sbagliarsi, eppure non ebbe dubbi. A un tratto percepì tutta la stanchezza di quei giorni. Lasciò il braccio di Arturo e sibilò:
«Se scopro che hai mentito, ti ammazzo. Se racconti a qualcuno di questo incontro, ti ammazzo. Se mi accorgo che hai omesso anche solo un minimo dettaglio, ti ammazzo. Hai capito?».
Il ragazzo annuì terrorizzato e si allontanò zoppicando.