XXIV

Viola sorrise. Non temeva le sfide e le piaceva essere di nuovo in prima linea, ma provava orrore per il delitto. Non si era mai capacitata di come si potesse maturare l’intenzione di cancellare qualcuno dalla faccia della Terra. Ma sapeva per esperienza diretta che era possibile; e comunque ogni morte violenta generava un effetto domino dagli esiti imprevedibili.

Giorgio per esempio: esce col cane la sera tardi e un pirata della strada, non si è mai capito chi, passa con la macchina e lo investe. Era stato imprudente lui ad attraversare in un punto buio, e doveva essere ubriaco il tizio al volante, poco importava comunque. Di certo, il destino della ragazza che lo aspettava a casa, una che aveva un bel pancione, che coltivava pure qualche sogno e aveva visto tornare il cane da solo, era stato stravolto in un amen.

Che c’entra questo con l’effetto domino? Be’, c’entra. Perché quella giovane, che tra poco avrebbe compiuto ventinove anni e che avrebbe potuto avere delle valide prospettive come fotoreporter, adesso era costretta a dipendere da una madre dispotica e a occuparsi da sola di un bambino che ci avrebbe impiegato un bel po’ a diventare indipendente. Non era un delitto, questo?

Certo, il destino prende e il destino dà. In cambio di un compagno di vita e di un padre per il bimbo era arrivata una nonna per il piccolo e un’amica per lei, e uno strano, insopportabile poliziotto che comunque, in caso di necessità, poteva offrire un supporto. Non era proprio lo stesso, ma insomma…

Del resto, Viola doveva ammettere che Giorgio, un taciturno, metodico ricercatore universitario più incline a covare rancori e rifugiarsi in lunghi silenzi che a nutrire gli affetti, non era proprio il suo uomo ideale. E forse la loro storia, figlio o non figlio, sarebbe finita lo stesso. Cominciava già a patirne manie e fobie, e c’erano zone d’ombra nella sua esistenza che non le erano chiarissime. Ma un conto è vederlo chiudersi la porta alle spalle, insieme alla loro storia, un altro è ritrovarsi sulla soglia di casa il cane senza il padrone.

La condanna più tollerabile, considerò mentre smanettava al computer, frenetica, indagando sull’oscuro passato del fu Lombardo Antonino, tutto sommato era senza dubbio sua madre. Anche se quella cattiveria a Giorgio non l’avrebbe mai perdonata.

Sì, perché in un modo o nell’altro, un tetto per loro alla fine l’avrebbero trovato; e invece adesso era obbligata a stare in un appartamento di proprietà dell’arpia, per giunta situato al piano inferiore del Santuario (così Viola chiamava fra sé la residenza della madre, con esplicito riferimento alla sacralità che la donna attribuiva a gran parte del mobilio e dell’arredamento). Perciò la megera si arrogava il diritto di tenersi le chiavi di casa della figlia, ed effettuare perlustrazioni a tappeto senza nemmeno avvertire.

Cercò di concentrarsi sullo schermo. Dunque, il tizio non aveva profili social. Non rimase sorpresa, del resto Lombardo era un uomo di sessantasette anni, gli ultimi due li aveva trascorsi in galera, e i guai con la giustizia dovevano averlo tenuto impegnato parecchio.

Scandagliando il web, Viola aveva scoperto che di condanne ne aveva avute altre, giocandosi la condizionale. Un anno qui, undici mesi lì. Aveva all’attivo anche un paio di processi, nei quali era stato assolto. Aveva iniziato negli anni Novanta, quando era cancelliere del tribunale: qualche intrallazzo con gli assegni e i protesti, falso in atto pubblico e abuso d’ufficio, piccoli ammanchi di denaro e ritardi sulle registrazioni delle sentenze. Poi si era licenziato, giusto un attimo prima, secondo Viola, di finire in prigione, ed era stato assunto in uno studio notarile, alla cassa cambiali. E quello l’aveva fregato una volta per tutte: il notaio sospettoso aveva installato una videocamera e lo aveva incastrato. Poi era saltato fuori anche altro.

Viola aveva contattato un vecchio amico alla redazione della Giudiziaria: anche se erano passati molti anni, si ricordava ancora di Lombardo, perché spifferava informazioni sui processi in cambio di bustarelle. Antonino era una specie di istituzione, una gallina dalle uova d’oro per il giornalista.

Viola aveva chiesto quale fosse la magagna, per quale motivo Lombardo avesse tanto bisogno di soldi al punto da rovinarsi. Che vizio aveva? Il gioco? Le donne? L’alcol?

«Peggio» aveva risposto l’amico. «Molto peggio.»

Lombardo aveva un figlio.

Allora Viola si era messa a dragare gli abissi della cronaca cittadina risalente all’età del bronzo, più o meno alla fine degli anni Ottanta. Mentre spulciava l’archivio dell’ennesimo quotidiano, avvertì il suono che più la terrorizzava al mondo, quello al cui cospetto terremoti, tsunami ed eruzioni vulcaniche regredivano al rango di insignificanti seccature: lo scatto della chiave nella serratura all’ingresso.

Afferrò rapida il necessario per allestire un abbozzo di difesa: gli auricolari bluetooth collegati al computer. Nascosti dalla bellissima chioma color miele che copriva le orecchie, le avrebbero consentito di erigere una barriera sonora tra sé e le contumelie di Rosaria. Non era la salvezza, ma almeno garantiva una minima protezione.

La donna entrò con il suo tipico mugugnare, una caratteristica che Viola non aveva mai riscontrato in altri:

«Eccoti, sempre con la testa su quel coso! E figurati, la tua generazione ormai scambia la realtà con il virtuale. Da una parte non ti biasimo, con la vita di merda che ti sei apparecchiata, non c’è altra scelta che estraniarsi. Nemmeno avrebbe senso frequentare qualcuno, dovresti fingere di non avere un figlio: immaginati se al giorno d’oggi, con tutte le ventenni che la danno via, un uomo sano di mente si caricherebbe una come te, peraltro conciata come una disgraziata. Guardati, sempre con un paio di jeans e una felpa addosso, senza un filo di trucco, coi capelli ridotti a stoppa… Se qualcuno ti si avvicinasse, dovrei dedurre che è un pazzo o un maniaco».

Viola sorrise, amabile:

«Ciao, mamma, come va? Scusa, non ti ho sentita bussare».

Rosaria si aggirava per la stanza sfiorando le superfici con un dito per censire la presenza di polvere. «Ricordo male o questa è casa mia? Forse l’hai comprata? Oppure paghi l’affitto? Come? No, vero? No. E sai perché? Perché sei una pezzente, e non guadagni un quattrino. D’altronde il tuo è un mestiere inutile. Al giorno d’oggi non si vende più un giornale, perché le notizie le dà la televisione prima ancora che accadano i fatti: tu spiegami a che serve una fotoreporter. A niente, e quindi tu niente guadagni e niente guadagnerai mai. Perciò stai qui, e io nella mia proprietà entro ed esco quando mi pare. Il piccolo guaio sta dormendo?»

La delicata espressione con cui Rosaria si riferiva al nipote suggerì a Viola di riconsiderare la spregevolezza del matricidio. In alcuni casi, pensò, andrebbero valutate le circostanze. «Sì, ha ancora un po’ di febbre, se vuoi salutarlo, è di là nella culla.»

La donna arricciò il labbro superiore e ritrasse le mani, in una splendida imitazione di una donnola pronta ad attaccare:

«Per carità, avrà di sicuro qualche orribile malattia infettiva trasmessa dai geni di tuo padre, pace all’anima sua; la sua famiglia aveva ogni possibile tara della specie umana, e tu le hai contratte quasi tutte».

Il riferimento al marito, Viola lo sapeva fin troppo bene, avrebbe dato la stura a un’interminabile rievocazione di nefandezze e mostruosità che si assommavano in lei. Era il momento.

Con un’agile manovra, favorita dalla miopia di Rosaria, che per vanità non usava gli occhiali, avviò la traccia musicale. Le orecchie furono invase dalla spettacolare intro di I Heard It Through the Grapevine di Marvin Gaye, anno 1968. La voce nera del cantante ammazzato dal padre a metà degli anni Ottanta, perfetta metafora di quanto la madre le stesse uccidendo la serata, echeggiò forte ma non abbastanza. Alzò il volume, e il molesto ronzio di Rosaria sparì anche dal sottofondo.

Le rivolse uno sguardo amabile e annuì, come avrebbe continuato a fare a intervalli regolari di lì in avanti per dare alla iena l’impressione di essere ascoltata. Lo spettacolo era sorprendente, un vero effetto speciale. Rosaria cantava in playback sulle note di quel meraviglioso motivo soul, con i movimenti della bocca raccordati alla perfezione alle parole del pezzo.

Viola si sforzò di non ridere, e tornò a concentrarsi sullo schermo. Digitò sulla barra del motore di ricerca “Lombardo + droga”. Alla quinta pagina delle occorrenze, comparve qualcosa di interessante. Poi annuì di nuovo a Rosaria, che nel frattempo aveva attaccato California Dreamin’ dei Mamas & the Papas, altro riferimento involontario ai legami familiari, e aprì un breve trafiletto che riportava il caso di un tale Nicola Lombardo, tossicodipendente con precedenti per spaccio e piccoli reati, che sette anni prima si era tolto la vita impiccandosi presso la sua abitazione. L’unico parente vivo era il padre: Antonino Lombardo.

Mentre si voltava per sorridere a Rosaria, che stava assumendo il ben noto colorito fucsia, preludio di un finto, immancabile svenimento, Viola cliccò sul comando di stampa. E pensò che, in alcuni casi, anche il suicidio di un figlio con un genitore solo era un’opzione da riconsiderare.