XXV

Era indispensabile non dimenticare mai la sequenza di luoghi imparata a memoria all’inizio dell’addestramento.

La procedura prevedeva che l’agente sul campo recuperasse una vecchia scheda telefonica, trovasse una cabina (difficile da reperire, negli ultimi tempi) ed effettuasse una serie di chiamate destinate a rimanere senza risposta. Nella sede dell’unità, un apparecchio trillava a vuoto, ma c’era sempre qualcuno in ascolto, pronto a ricevere i messaggi cifrati. Il numero di squilli corrispondeva a un luogo preciso dell’elenco memorizzato. Tuttavia, un’ulteriore misura di segretezza stabiliva che il posto convenuto per l’appuntamento fosse il successivo della sequenza rispetto a quello indicato dalle telefonate. Era lì che si recava l’agente. Si sedeva, ordinava un caffè.

E aspettava.

Quella comunicazione criptata metteva in contatto gli operativi che lavoravano in strada con il vertice dell’unità. L’ossessione per la riservatezza sconfinava in misteriosi rituali e in codici oscuri, figli di una stagione ormai passata, che però costituivano un imprinting. E come insegnano gli etologi, l’imprinting è una legge universale. A esso ci si affida, in ogni occasione.

Sara sperava che la lista dei luoghi d’incontro non fosse cambiata. Di certo Teresa non avrebbe saputo chi tra i suoi uomini in prima linea la stava convocando: avrebbe sperato che fosse un operativo avvenente, magari uno dei più giovani, di quelli che le piacevano. Si sarebbe presentata in tiro, bella e curata, con una luce che le illuminava gli occhi; e prima di cancellare le espressioni sotto l’indecifrabile maschera dell’autocontrollo che usavano tra loro, ben consapevoli della comune abilità di interpretare i gesti, avrebbe avuto un minuscolo moto di delusione o stupore scorgendo ad attenderla la vecchia collega.

Al solito, Sara si era posizionata in modo da individuarla per prima e sfruttare l’effetto sorpresa. Il luogo era il bar di una stazione della metropolitana, al secondo piano interrato. Un locale di passaggio, dove frettolosi pendolari si fermavano a consumare un caffè o uno spuntino tra un viaggio e l’altro, prima di essere traghettati su qualche regionale affollato, nei cui vagoni i più fortunati avrebbero sonnecchiato rovinandosi l’umore e rimediando un fastidioso torcicollo. C’erano quattro tavolini bisunti, dove sostavano studentesse con le cuffiette chine su grandi quaderni pieni di appunti o giovani avvocati senza un ufficio e con un buco di tempo tra un appuntamento e l’altro.

Mentre si stava chiedendo se avesse commesso qualche errore nell’attivazione della procedura, Teresa arrivò.

Sara dovette sforzarsi per non mostrare lo sconcerto che provò, rischiando di perdere di colpo il vantaggio della posizione. Per poco non la riconobbe.

Il passo sicuro, la falcata ampia e il ticchettio dei tacchi erano stati rimpiazzati da una camminata lenta e incerta. Teresa calzava un paio di anonime sneaker. Indossava un paio di jeans non attillati e un informe giubbotto di tela, nelle cui tasche teneva le mani. Il volto era celato per buona parte da un paio di grandi occhiali da sole, ma la bocca era visibile: una linea sottile senza rossetto. Un cappellino di lana copriva la capigliatura, a eccezione di una coda bionda che ricadeva, floscia, sulle spalle.

Sara pensò che l’amica fosse impegnata in qualche operazione sotto copertura, tanto il suo aspetto era diverso dal solito; poi escluse quell’ipotesi, perché Teresa dirigeva l’unità, un ruolo che non era compatibile con l’azione in prima linea. E comprese che la donna era profondamente cambiata.

Quando l’altra la scorse, Sara non intercettò alcun sentimento sul viso di lei. L’inclinazione della testa e la piega delle labbra non tradirono sorpresa o delusione, e nemmeno gioia. Niente di niente. Si avvicinò, si sedette, e la salutò con un cenno del capo.

Era passato un po’ di tempo da quando, davanti a un mare sferzato dal vento, Sara aveva dovuto proteggerla da una dolorosa notizia, e da un clamoroso errore di valutazione che Teresa aveva commesso riguardo a un uomo molto più giovane di lei, di cui si era innamorata. Anche in quel frangente, però, per quanto fosse sconvolta e disperata, si era rivelata padrona di sé: forte ed elegante, determinata e sicura persino nel dolore. Adesso, invece, davanti a Sara c’era un guscio vuoto, una donna che dimostrava la sua età e non aveva interesse a dissimulare niente di sé.

Quanti anni, pensò Sara. Quanti ne sono trascorsi, amica mia da quando eravamo due ragazze ignare di quello che stavamo per affrontare. Il nostro futuro è stato diverso da come lo sognavamo.

«Ciao, Mora. Avevo immaginato che fossi tu, anche se speravo di no.»

Mora e Bionda, come le avevano soprannominate da subito i colleghi. Opposte come il giorno e la notte, erano diventate inseparabili. Due reclute dal talento purissimo, su cui scommettere. Peccato che ora Mora aveva i capelli grigi, e Bionda era una malinconica signora vestita come una sedicenne triste.

«Mi dispiace, Bionda.»

Teresa tirò fuori il pacchetto di sigarette e ne accese una, ridacchiando:

«Non intendevo che mi disturba vederti. Però, se siamo qui, significa che hai bisogno di aiuto. E se hai bisogno di aiuto, allora non stai bene. Non è così?».

In quel momento, un ragazzo con la camicia bianca e il papillon da cameriere si materializzò accanto a loro e disse:

«Signora, mi perdoni, ma è vietato fumare, se per cortesia…».

Senza nemmeno girarsi, Teresa lo interruppe:

«Non rompere il cazzo. Porta un caffè e un po’ d’acqua gasata. Vai».

L’altro sbatté le palpebre, confuso, e trotterellò via.

Sara mormorò:

«E io non mi riferivo all’aver tradito le tue aspettative romantiche per quest’incontro. Mi dispiace per tutto. Per com’è andata. Per come poteva andare».

Teresa sorrise con amarezza:

«Ah, sì? E perché? Dovremmo essere contente, noi due. Tu hai vissuto una storia travolgente con l’uomo che amavi, poi è morto e ti ha lasciata con i tuoi fantasmi; adesso sei persino una nonna felice, il che non è poco, considerato che hai abbandonato tuo figlio quand’era piccolo e l’hai rivisto sul tavolo dell’obitorio. Io sono diventata il capo di una struttura di cui nessuno nemmeno sospetta l’esistenza, e sono sola come un cane. Due donne realizzate. Mica possiamo lamentarci».

Era sempre stata cinica, Teresa Pandolfi. Ma la piega della bocca, il tono e la scelta delle parole manifestavano all’occhio attento di Sara un dolore e una rabbia senza confini.

«Si può sbagliare, Bionda. Si imboccano vie ignorando la meta. E se alla fine ci si ritrova in un posto di merda, la passeggiata può essere stata bella lo stesso. Ci siamo divertite, no? Ci abbiamo creduto. Quello che è stato è stato. E nessuno può privarci del nostro vissuto. Perciò sono qui, oggi.»

Suo malgrado, Teresa era incuriosita:

«Davvero? Mi hai cercata per rivangare i vecchi tempi? Forse ti annoi… io invece sono sommersa di impegni, quindi per favore vieni al punto».

«No, nessuna rievocazione. O meglio, solo una. Ti ricordi quella volta che abbiamo visto Massimiliano confabulare con un tizio fuori dall’ufficio? Non eravamo arrivate da tanto all’unità.»

«Certo che sì, tornavamo dal pranzo. Una situazione simile non si è mai ripetuta. E allora?»

Sara riassunse a Teresa gli eventi degli ultimi giorni. Le raccontò di Fusco, del contatto che aveva avuto con Pardo, della morte di Antonino Lombardo e di come avesse letto il suo nome sulle labbra di Massimiliano in quella circostanza di tanti anni prima. Tralasciò solo di menzionare l’assenza di un incartamento sull’ex cancelliere del tribunale nell’archivio segreto custodito in cantina.

Nel frattempo il cameriere, guardingo, aveva portato l’ordinazione.

L’amica restò ad ascoltarla impassibile, lo sguardo nascosto dalle lenti scure, la mano che reggeva la tazzina immobile a mezz’aria. Alla fine disse:

«Cioè, spiegami: in pratica, per sapere chi era il tizio che hai intravisto col capo, quel pomeriggio, ti sei accollata i tormenti di un poliziotto in punto di morte? E così hai cominciato a indagare su un vecchio delitto insoluto? È corretto?».

Sara annuì, seria:

«Sì, Bionda, è corretto. E sono certa che tu, al posto mio, avresti agito allo stesso modo».

Teresa poggiò la tazzina, ormai fredda, e si sfilò gli occhiali. Le orbite erano cerchiate, e profonde rughe solcavano il viso privo di trucco. La sclera era arrossata da un reticolo di capillari rotti.

Sara dovette appellarsi a tutta la sua capacità di dominare le emozioni per non sussultare di fronte allo spettacolo della sofferenza che aveva davanti.

«Il fatto è che tu, Mora» rispose Teresa, «mi stai chiedendo di utilizzare le risorse dell’unità, di consultare i dossier, di incrociare i dati. Ora, io accetto solo perché sei tu. Ma ti avviso fin da adesso che mi limiterò a questo, e non disporrò intercettazioni, pedinamenti o verifiche operative di altro genere. Altrimenti, sbrigatela col tuo scalcagnato gruppetto di dilettanti. È chiaro?»

Era quello che Sara sperava, e le stava bene. Tuttavia, d’impulso, chiese:

«Come va, Bionda?».

Teresa fu sorpresa da quella domanda formulata a bruciapelo. Erano amiche, ma la confidenza tra loro era bandita. Ognuna si adoperava per l’altra come poteva, senza mai cedere all’intimità. Bionda inforcò di nuovo gli occhiali, consapevole che quelle parole erano state dettate dalla pena che il suo volto esprimeva:

«Sai come si dice, no? Ciò che non ti uccide ti fortifica. Be’, io mi ci sono avvicinata parecchio alla fine dei giochi, Mora. Ci sono state notti in cui… Ho scoperto di essere una persona diversa da quello che credevo. Non sono cambiata, è soltanto che ignoravo la mia vera natura. Non è comico? Una vita intera a svelare gli inganni degli altri, a carpirne le intenzioni più recondite, e alla fine ti rendi conto che chi è riuscita a fotterti sei tu stessa». Si alzò, in fretta. «Ci aggiorniamo, Mora. E nel frattempo, non combinare stronzate.» Se ne andò con un passo un po’ incerto.

Sara rifletté con dolore che l’amica beveva, e che non si sentiva di biasimarla.