XXVIII

Aveva scoperto che la vecchia usciva solo in un’occasione: per portare fuori il cane. Al resto provvedeva quella stronza della domestica, che era peggio di un mastino e l’aveva minacciato di chiamare la polizia se fosse tornato.

Il ragazzo si era appostato molte volte all’esterno del palazzo, un edificio liberty nel quartiere più residenziale e agiato della città. Un posto per vecchi, appunto.

Pensava spesso che, in un mondo giusto, gli anziani a un certo punto avrebbero dovuto lasciare spazio ai giovani. Era inconcepibile che negli anni migliori, quelli in cui bisognerebbe godersela, anche accontentandosi di poco, si doveva tirare la cinghia e vivere di espedienti, e invece da rincoglioniti pieni di acciacchi si disponeva di un’abitazione di proprietà e di un conto in banca che non si aveva neppure la forza di usare.

Ma era così che andava, giusto? E allora, prima ci si adattava, meglio era. Aveva imparato molto presto che se c’era un lusso che proprio non poteva permettersi, era piangere sul latte versato, lamentarsi di ciò che non poteva cambiare. Chi lo capiva e si adattava, aveva più probabilità di sopravvivere. Quanti ne aveva visti che, per volare troppo alto o anticipare i tempi, si erano rovinati. A lui non sarebbe successo.

Mentre aspettava sulla panchina dei giardinetti, gli occhi fissi sul portone dal quale sarebbe uscita la vedova, ragionava su come, certe volte, il mutare delle condizioni imponesse un adeguamento dei piani.

Per esempio, pensò, io sono uno prudente, attento, riflessivo. Valuto sempre il momento migliore per muovermi, mi sforzo di non essere mai avventato. E soprattutto, non dipendo da nessuno, non ho bisogno degli altri. Così mi comporto di solito. Però, per fronteggiare un’emergenza, bisogna variare la strategia.

E infatti eccomi qua, in attesa della vecchia. Perché il quadro è cambiato, e adesso la faccenda è urgente, urgentissima.

Per l’ennesima volta esaminò la situazione in cerca di un’alternativa. Ci aveva provato e riprovato negli ultimi giorni, senza venire a capo di nulla. Gli elementi nuovi erano due; entrambi modificavano alla radice i termini della questione, e indicavano una strada obbligata: quella che conduceva alla signora che di lì a pochi minuti, come d’abitudine, avrebbe portato fuori il cane, un barboncino suo coetaneo, quasi cieco e pure mezzo zoppo. Una ricca di merda con un cane di merda, eppure era la sua unica possibilità di salvezza.

Il primo elemento era la morte del vecchio.

Lo sapeva che non aveva speranze, anzi, per certi versi si era persino augurato che la fine sopraggiungesse in fretta. Lo vedeva soffrire, aveva compreso da molto tempo che non c’erano più possibilità per lui, e comunque da là dentro non avrebbe potuto combinare granché.

Il ragazzo gli si era affezionato. Si era abituato a leggere dietro il suo cinismo, a quel modo inacidito di prendere la vita, per convivere con la sofferenza di un passato che non riusciva a dimenticare. Il loro primo incontro era di pochi mesi antecedente a quando lo avevano sbattuto in prigione. Ma ce n’erano voluti altri perché il vecchio gli spiegasse chi era e che voleva da lui. Il ragazzo aveva avvertito subito una specie di legame tra loro. Gli dispiaceva tanto che non ci fosse più, ma lo aveva accettato.

Carla no. Con lei era diverso. Senza Carla, non avrebbe avuto alcun senso svegliarsi la mattina, rimediare i soldi per mangiare o per l’affitto. Senza Carla, il sole avrebbe potuto anche risparmiarsi di sorgere e tramontare, la gente di ridere, il mare di essere azzurro. Senza Carla, la Terra poteva smettere di girare, e tutto poteva andare in malora.

Il vecchio lo aveva capito, anche se non aveva mai conosciuto Carla.

Il ragazzo ricordava quando gli aveva raccontato di lei. Ricordava il silenzio, lo sguardo via via più partecipe, persino gli occhi rossi alla fine della storia. Eppure lui non elemosinava la compassione degli altri.

Ma per Carla non era come per il vecchio. Lei era ancora giovane, e quella malattia si poteva sconfiggere, lo aveva letto, lo aveva studiato. Doveva solo entrare in quel protocollo di ricerca, essere selezionata tra i soggetti sottoposti alla sperimentazione del farmaco.

Ci volevano i soldi, però. E i soldi, alla faccia del karma, li aveva la strega che abitava in quel palazzo. Lui, no. E nemmeno Carla.

Il vecchio non gli aveva rivelato molto, non si era soffermato sui particolari. Si era limitato ad alludere a un brutto segreto che aveva custodito per anni, a una colpa che si portava addosso. Non aveva aggiunto altro, perché sapere troppo poteva creare problemi. Bastava informare la vedova dell’esistenza di una determinata lettera, che avrebbe potuto distruggerla. Che ce l’aveva lui, e che era in vendita. Che il prezzo era irrisorio, a fronte del danno che avrebbe provocato, e quindi le conveniva scucire il denaro, tanto a lei a che serviva, murata in casa com’era?

«Quale lettera?» aveva chiesto il ragazzo.

Il vecchio gli aveva detto dove la teneva, chiarendo che la vedova l’avrebbe vista solo se si fosse chiuso l’accordo.

Il ragazzo era andato da lei in due occasioni, ma solo la prima era riuscito a parlare con la cariatide: appena aveva pronunciato il nome del vecchio, secondo le istruzioni, la donna aveva strabuzzato gli occhi e spalancato la bocca, poi si era alzata dalla sedia con sorprendente agilità ed era schizzata via dalla stanza, chiamando a gran voce la domestica. L’avevano cacciato, e la volta successiva la domestica gli aveva intimato di non ripresentarsi.

Perciò aveva deciso di bloccare la mummia per strada. Non c’è più tempo, si disse, mentre la mente gli restituiva l’immagine di Carla: le dita deformi, così simili ad artigli, la pelle lucida e le labbra tirate, e quel ghigno sofferente che aveva sostituito il più incantevole sorriso che avesse mai visto. La megera doveva ascoltarlo. Per forza.

Mise la mano in tasca e accarezzò il foglio ingiallito che il vecchio gli aveva consegnato, quasi fosse una reliquia. La lettera esiste davvero, signora, le avrebbe spiegato. Non voglio rubarle niente, sono qui solo per vendere. E l’offerta sta per scadere.

In quel momento, la vecchia comparve sul portone. Rivolse un cenno di saluto al portiere e guardò il cielo, dubbiosa, temendo che piovesse. Ma non pioveva.

Indossava un soprabito e portava un cappellino antiquato. Il cane che teneva al guinzaglio era identico a lei: decrepito, di un colore indefinibile, abbigliato con un indumento in pendant con quello della padrona.

La donna allungò la punta del piede fuori dall’androne e ispezionò con circospezione la superficie del marciapiede, come un bagnante che, prima di immergersi, saggia la temperatura dell’acqua della piscina. Quindi si incamminò incerta verso un’aiuola, ai margini della quale, nascosto dall’ombra di un albero dai rami folti, il ragazzo era pronto a cogliere l’attimo.

L’animale annusò i dintorni, cercando di supplire con l’olfatto alla vista che aveva perduto quasi del tutto. Puntò una direzione, e la vecchia lo seguì sussurrandogli parole dolci.

Il ragazzo rifletté su come, da lontano, sembrasse una tenera anziana piena d’amore per il suo cane. Niente di più falso di certe apparenze.

Avrebbe voluto essere a mille chilometri da lì. Avrebbe voluto fregarsene della vecchia, del cane e della lettera. Avrebbe voluto consolarsi col pensiero che lui aveva ancora molti anni davanti, mentre quel mostro forse non avrebbe superato l’inverno, anche se la malerba, come ripeteva Carla, dura sempre più dell’erba buona. Avrebbe voluto sparire da quel quartiere di ipocriti benestanti, e tornarsene nei suoi vicoli, che puzzavano ed erano sporchi, sì, ma almeno non fingevano di essere diversi da com’erano. Avrebbe voluto. Ma non poteva, perché la sabbia nella clessidra di Carla stava per esaurirsi.

Di soppiatto, scivolò alle spalle della vedova, per non darle il vantaggio di vederlo e cacciarlo ancora. Per non spaventarla, quando le fu vicino mormorò:

«Buon pomeriggio, signora. La prego, mi ascolti, devo mostrarle una…».

Lei si girò di scatto e lo fissò, con gli occhi stretti a fessura, la mascella indurita. Lo riconobbe all’istante. Aprì la bocca e lanciò un unico, stridulo, orribile urlo. Sembrava la sirena stonata di un antifurto.

Il portinaio uscì dall’androne; guardandosi attorno, stupito, si accorse dell’inquilina dell’ultimo piano che gridava a squarciagola contro un giovane.

Il velo rosso della rabbia appannò la vista del ragazzo. Fu invaso dalla disperazione per la pena di Carla. Ricordò il volto del vecchio mentre lottava con il dolore per spiegargli come avrebbe dovuto agire.

L’arpia non smetteva di emettere quel terribile latrato, che lacerava i timpani. Qualcuno cominciava ad affacciarsi alle finestre.

Il ragazzo le sputò in faccia, vomitandole addosso il suo infinito disgusto. Poi si voltò e corse via.