La comitiva di turisti era composta perlopiù da pensionati dall’aria rilassata, che sfoggiavano abiti in contrasto con le condizioni atmosferiche.
Ormai era diventato un classico: siccome si visitava una metropoli del Sud d’Europa in primavera, allora il guardaroba doveva per forza essere lo stesso utilizzato per precedenti viaggi in Egitto o Marocco, costituito in prevalenza da capi di lino o cotone, camicie a maniche corte e sahariane, panama e bermuda, sandali e occhiali da sole.
Se poi capitava una mattina come quella, in cui aprile rivendicava di essere un interludio tra le stagioni, indugiando in reminiscenze d’inverno, con un venticello tagliente e frizzante, poco male: le vacanze erano pur sempre vacanze, e dalle foto non si poteva certo evincere la differenza di temperatura rispetto al Maghreb. Bastava sorridere, e augurarsi che la pelle arrossata fosse scambiata per una tintarella precoce e non tradisse l’infreddatura.
Viola assomigliava a una graziosa inglesina al seguito di qualche nonna arzilla. Ai margini del gruppo, mimetizzata alla perfezione, fingeva di essere concentrata su quello che una guida, segaligna e occhialuta, declamava a proposito della facciata di un antico palazzo. In realtà la ragazza stava osservando un portone all’angolo del vicolo, al di là del piccolo assembramento. Sotto un cappellino di tela, la chioma bionda era raccolta in una coda, le lenti scure le nascondevano una parte del viso. Indossava un vestitino anonimo, e calzava scarpe basse. Teneva la reflex digitale al collo. La sera precedente aveva sottoposto quel travestimento a Sara, al termine della riunione per esaminare i nuovi dati di cui disponevano, e lei aveva suggellato con un sorriso di approvazione il passaggio di consegne tra donne invisibili.
Il giorno prima, Viola aveva perlustrato il web a caccia di informazioni su Virgilio Maddalena, procurandosi parecchio materiale. Il pubblico ministero aveva goduto di una certa visibilità, derivante dalle inchieste di cui si era occupato negli anni Settanta e Ottanta. Era uno di quei magistrati che avevano fronteggiato l’emergenza dei movimenti politici estremisti e delle formazioni armate. Esaminando gli articoli, sia quelli dell’epoca sia i più recenti, Viola aveva riscontrato una certa tendenziosità nel linguaggio dei media, una combinazione di reticenze e allusioni. Grazie alla sua professione, era consapevole di quanto le parole fossero ambigue e di come il vero significato di una frase spesso non coincidesse con i concetti espressi.
Fino alla fine degli anni Ottanta, il profilo di Maddalena era quello di un capace e integerrimo inquirente dall’orientamento politico ben definito, un segugio instancabile, dotato di un fiuto e di una determinazione che lo rendevano un obiettivo per le frange della destra più radicale. Un paladino per certa stampa, una spina nel fianco per altre testate. La sua era stata una vita sotto scorta, anche se aveva subìto solo vaghe minacce.
Poi però era successo il guaio. Nei primi anni Novanta, era stato accusato di corruzione per supposti rapporti con un capoclan, sul quale stava indirettamente indagando. Non erano emerse prove e la faccenda si era risolta in una bolla di sapone, ma Maddalena era stato estromesso e da lì in avanti era sparito dalle cronache, per rispuntare prima in occasione del pensionamento e, più tardi, della morte improvvisa.
Viola era rimasta colpita dalla reazione di Sara, di solito impassibile, quando aveva ascoltato i risultati delle sue ricerche. La donna aveva scosso il capo e sospirato, come se fosse delusa. Ma si era ripresa in fretta, annunciando che intendeva incontrare la vedova del PM.
Col ragazzo era stato diverso. Avevano solo la carta d’identità, reperita chissà come da un Pardo evasivo che, col viso paonazzo, aveva sorvolato sulle modalità con cui era entrato in possesso di quella fotocopia: Manuel Piscopo, vent’anni compiuti otto mesi prima, residente nel vicolo davanti al quale Viola si trovava in quel momento, in un appartamento condiviso con tre studenti fuorisede e un operaio. Padre ignoto, figlio unico di tale Piscopo Gabriella, deceduta quando lui era quindicenne, una sbandata con piccoli precedenti per reati contro la proprietà, morta di overdose o, con più probabilità, uccisa da una partita di roba tagliata male in un mese in cui erano finite all’obitorio altre dodici persone.
A quel punto, il minore era stato affidato a una casa famiglia, gestita da alcuni psicologi e assistenti sociali. Aveva conseguito da privatista un diploma tecnico, anche con buoni voti. La responsabile che lo seguiva era la dottoressa De Rosa Carla, a capo della struttura protetta. Sara si era appuntata il nome, sostenendo che poteva tornare utile, e Viola, che si fidava dell’istinto della donna, aveva controllato in Rete.
La casa famiglia era stata costretta a chiudere un anno prima: un lungo, malinconico articolo pubblicato su un blog segnalava il fallimento di una bella e lodevole iniziativa. In una risposta a mezzo stampa, l’assessore attribuiva la conclusione del progetto a un problema di salute di uno degli operatori e annunciava l’immediata apertura di valide alternative. Manuel, però, già non risiedeva lì.
Viola si era offerta di sorvegliare il ragazzo, anche perché non sopportava più di essere reclusa in casa per la febbricola di Massimiliano. Dopo un po’ di training autogeno, aveva tirato un profondo respiro ed era salita dalla madre a pregarla di stare col bambino per una mattinata, perché lei doveva rinnovare l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti; era la prima scusa che le era venuta in mente. Aveva contato dentro di sé da uno a cento, sopportando una sequela di insulti a proposito dell’inutilità di pagare per una buffonata di professione che non era un lavoro serio, ma alla fine aveva ottenuto l’aiuto che voleva. Peraltro, il bambino sembrava felice di rimanere con l’arpia: forse perché non era ancora in grado di comprendere, o forse perché era ipnotizzato dal tono monocorde col quale Rosaria formulava le sue cattiverie.
Mentre i turisti stavano per spostarsi, e Viola valutava il rischio di restare sul posto senza copertura, Manuel uscì dal portone. La fotografia sul documento parlava chiaro, era impossibile sbagliare: capelli neri e ricci, naso un po’ sporgente, persino il maglione scuro pareva lo stesso. Il ragazzo strizzò gli occhi per abituarsi alla luce e si guardò intorno soffermandosi proprio sulla comitiva a cui si era aggregata Viola.
La fotoreporter si defilò per mettere tra sé e il giovane un coppia di americani che sembrava uscita dal pennello di Botero.
Piscopo si avvicinò noncurante, con le mani in tasca come se stesse passeggiando.
Da vicino aveva un suo fascino. Anche se i lineamenti erano irregolari e gli abiti abbastanza dozzinali, possedeva una certa eleganza e movenze quasi feline. A osservarlo con attenzione, era un tipo fuori dall’ordinario, abile nel celarsi dietro modi insignificanti. Un altro invisibile, pensò Viola. Il ragazzo si insinuò nel folto gruppo di stranieri, come se stesse seguendo una traiettoria precisa.
Viola si chiese il perché di quei movimenti circospetti. Poi capì.
Manuel era un ladro.
Le dita guizzavano agili, sfilavano portafogli, pescavano in borse e zaini, e scomparivano con il bottino mentre il giovane continuava a sgusciare imperterrito tra le sue vittime. Era una danza senza musica, un valzer segreto che prevedeva l’individuazione degli obiettivi migliori: i soggetti più disattenti e distratti. Un paio di volte Viola temette che qualcuno lo beccasse, ma notò che Piscopo era scaltrissimo, sempre accorto a dare le spalle e a non mostrare mai la mano furtiva a chi poteva accorgersi di lui. Era un genio.
Quattro, cinque prelievi. Niente di voluminoso, oggetti piccoli ma di valore, immaginò Viola, sfilati con una tale destrezza che i proprietari nemmeno lo percepivano. Il gioco di prestigio durò in tutto tre minuti, poi il ragazzo si allontanò camminando lento, in maniera da non destare il minimo sospetto.
Viola si staccò dal capannello e lo seguì. Fingendo di immortalare le bellezze architettoniche del quartiere, lo aveva ripreso con la fotocamera, registrandone le gesta prodigiose.
Svoltato un angolo, Manuel accelerò l’andatura. Scivolava tra la folla come un felino, la testa incassata nelle spalle e il passo svelto, confondendosi nella calca variopinta come un animale che si aggira in una fitta vegetazione di cui conosce ogni singola foglia.
Viola faticava a stargli dietro, e per qualche istante credette di averlo perso prima di scorgerlo di nuovo tra la ressa.
Dopo circa un chilometro, il ragazzo si fermò nei pressi di un cassonetto in una stradina poco frequentata. Si guardò intorno e, quando fu certo che non ci fosse nessuno affacciato a una finestra o seduto fuori da qualche porta, estrasse la refurtiva.
Al riparo di una rientranza, Viola continuava a inquadrarlo nell’obiettivo della reflex. Senza smettere di lanciare occhiate a destra e a sinistra, tirò fuori le banconote e gettò i portafogli nell’immondizia. Non toccava né le carte di credito né i documenti. Solo i soldi. Dopo pochi attimi, si mosse procedendo senza fretta. Entrò in una pasticceria e riemerse con un sacchetto. Aveva un’espressione indecifrabile, che a Viola trasmetteva un vago senso di angoscia.
Continuò a tallonarlo per quasi un quarto d’ora. Piscopo sembrava tranquillo, non lo sfiorava nemmeno il dubbio di avere qualcuno alle costole, non si voltò mai e non cambiò direzione di colpo, come chi ha paura di essere pedinato. Poi arrivò dove voleva.
Si fermò all’improvviso, tanto che Viola, girando l’angolo, per poco non gli finì addosso. La ragazza indietreggiò di un passo e si infilò in un androne, fissando Manuel che si accodava a una breve fila davanti a un cancello. Quando una guardia privata aprì, lasciando passare le persone in attesa, lei alzò gli occhi e comprese d’un tratto la malinconia e la tristezza che aveva colto prima sul volto del giovane.
Quello era l’ingresso di una struttura sanitaria.
Viola seguì i visitatori all’interno, senza distogliere lo sguardo da Manuel.