La mente di Viola lavorava veloce.
Senza perdere di vista Manuel Piscopo che camminava nel corridoio dell’ospedale con le spalle un po’ curve e il sacchetto della pasticceria in mano, si tolse il cappellino e lo infilò nello zainetto insieme alla macchina fotografica. Con un gesto rapido si sciolse la coda, alzando gli occhiali sulla testa. Completata la metamorfosi, cercò di rimanere a una distanza che le consentisse di osservare il ragazzo evitando di essere scoperta nel caso si fosse voltato di colpo. Quindi s’intrufolò nel reparto e seguì Manuel fino all’ingresso di una stanza di cui appuntò il numero. Preferì non indugiare sulla soglia, si limitò a sbirciare all’interno, e vide che c’era una persona nel letto accanto alla finestra. Poi proseguì. Non notò se c’erano altri degenti. A un tratto si fermò e tornò indietro. Adesso sapeva con precisione dove andare.
Viola conosceva quella struttura sanitaria, perché ci era stata diverse volte. Sua zia Adelaide era infermiera coordinatrice del Pronto soccorso, una specie di istituzione, più importante di un direttore sanitario. La ragazza si diresse senza esitazioni dov’era certa che l’avrebbe trovata, al ponte di comando dal quale dirigeva oltre centoventi tra infermieri e operatori inquadrati con le più svariate posizioni contrattuali.
Era la sorella del suo defunto padre, una donna energica e fin troppo espansiva, ma di grande sensibilità e intelligenza. Viola era la sua nipote preferita, ma potevano incontrarsi solo in ospedale perché la presenza di Rosaria, la cognata, nello stesso chilometro quadrato le provocava gravi problemi di respirazione. Spesso la ragazza fingeva di avere degli impegni, prendeva il piccolo Massimiliano e lo portava dalla zia, che in quell’insolito luogo, dove di fatto viveva non avendo una famiglia, trovava il tempo e il modo di intrattenerlo neanche fossero in un parco giochi.
Quando Viola entrò nel suo ufficio, Adelaide le chiese sorpresa:
«Ehilà, sei scappata di casa? E il piccolo?».
La ragazza sorrise, consapevole che le domande sarebbero continuate a raffica anche in assenza di risposte. «Ciao, zia. Tranquilla, tutto a posto, Massi ha ancora qualche linea di febbre, è a casa con mamma.»
La donna sobbalzò. Era di corporatura massiccia, e aveva una chioma tinta di un improbabile giallo oro. «Sei pazza a lasciarlo con l’Arpia? E se dovesse mangiarlo?»
Viola ridacchiò. «No, anzi, non puoi capire quanto le piace il ruolo della nonna. Figurati, addirittura lo coccola, a volte. Crede che io non me ne accorga…»
Adelaide sentì un brivido lungo la schiena:
«Madonna santa, l’Arpia capace di calore umano… Dev’essere uno spettacolo atroce, povera creatura, per questo ha la febbre. Ma tu perché sei qua?».
Viola le chiarì le circostanze, anche se fu interrotta di frequente dal viavai degli infermieri che ricevevano disposizioni sulle prime cure da riservare ai pazienti. Adelaide ascoltava attenta, impartendo ordini e indicazioni in tono secco e con assoluta competenza.
Quando Viola concluse il racconto, la zia annuì più volte, mordendosi le labbra come sempre quando cercava una soluzione. Poi disse:
«Ti risparmio le menate sulla privacy, sei grande e ti occupi di informazione, quindi immagino che tu abbia ben chiare le conseguenze a cui andrei incontro se saltasse fuori che ho divulgato notizie sui ricoverati. E do per scontato che questa faccenda sia davvero importante per te, altrimenti non affideresti tuo figlio all’Arpia per metterti a pedinare un ladruncolo. Immunologia clinica, hai detto? Stanza 9, letto accanto alla finestra. Chiamo la collega, aspettami fuori».
Trascorsero dieci minuti in cui Viola ebbe modo di speculare sulla vita e sulla morte, assistendo al frenetico transito di barelle spinte in fretta verso le sale operatorie, tra le lacrime di amici e parenti. Poi vide arrivare trafelata una versione bruna di sua zia, e intuì che la caposala di Immunologia clinica aveva risposto alla convocazione.
Dopo qualche secondo Adelaide si affacciò e la invitò a raggiugerle. «Lei è Anna, del reparto che sai. Premessa: questa conversazione non è mai avvenuta. L’ho garantito alla mia amica, siamo colleghe da trent’anni.»
Poi rivolse un cenno all’altra, che cominciò a parlare:
«Da quanto ho capito, ti interessa Carla. Carla De Rosa, quarantun anni, una cliente affezionata. Ha la sclerosi sistemica, purtroppo».
Adelaide sospirò, scuotendo la testa.
Viola domandò:
«E che cos’è?».
Anna, che sarebbe stata anche bella, se non avesse avuto le sopracciglia perennemente aggrottate, rispose:
«Una brutta bestia. Una malattia rara del tessuto connettivo. La pelle, insomma, si ispessisce e si ritrae. È una patologia molto dolorosa e non esistono cure. Almeno, non ancora».
Carla De Rosa, pensò Viola mentre cercava di mettere in relazione le informazioni di cui disponeva. La casa famiglia, chiusa per il problema di salute di uno degli operatori. Quindi chiese ad Anna:
«E puoi dirmi qualcosa del ragazzo che oggi era qui a trovarla? Si chiama Manuel, Manuel Piscopo».
L’infermiera sorrise. «È l’unico che viene da lei, il che è abbastanza strano, perché Carla è la paziente più dolce, buona e gentile che abbiamo. All’inizio supponevo che fosse il figlio. Oppure un parente. Poi abbiamo compreso che tra loro c’è altro, un legame…» Lanciò un’occhiata ad Adelaide, quasi in cerca d’aiuto; poi riprese:
«Noi lavoriamo col dolore. La sofferenza stravolge la gente, toglie la voglia di fingere, assorbe ogni energia: così emerge chi siamo davvero, senza più inganni. Tutto qua, fine del discorso».
Viola voleva essere sicura di aver afferrato il senso di quelle parole:
«Mi sta dicendo che la donna e il ragazzo stanno insieme?».
Anna si strinse nelle spalle:
«Ti sto dicendo che hanno un rapporto intenso, che di sicuro lui è innamorato pazzo di lei e lei gli vuole molto, molto bene. Ma soffre, quindi non so stabilire se il sentimento sia condiviso. Di certo non si vorrebbe mostrare a lui in quelle condizioni, l’ho sentita io stessa in più occasioni pregarlo di non tornare. Eppure ogni giorno, quando si avvicina l’orario delle visite, e lui non manca mai né tarda di un minuto, Carla si cambia, si guarda allo specchio e si sistema i capelli. Quindi secondo me sì, stanno insieme, o quantomeno anche lei prova dei sentimenti».
Viola era disorientata:
«Ma avrà il doppio dei suoi anni, no? E se ho ragione, lo ha anche tirato su!».
Le due infermiere si guardarono con un sorriso indecifrabile; poi Anna disse in tono dolce:
«E allora? Tu sei giovane, e hai questi pregiudizi? Per la nostra età dovremmo essere noi ad averli, ma lavorando qui ti assicuro che queste stronzate te le scordi. Lui è un bel ragazzo e ha un futuro davanti, ma viene qui ogni santo giorno a vivere, a resistere e a lottare. Non lo sfiora nemmeno l’idea di mollarla al suo destino, nonostante lei abbia una malattia incurabile. Ed è convinto di poterla salvare».
Viola piegò la testa di lato, incuriosita:
«Scusi, ma se la malattia è incurabile, il ragazzo come pensa di poterla aiutare?».
Anna rispose:
«In realtà, la patologia è rara e incurabile adesso. Però, esistono studi avanzati e protocolli di ricerca. Il ragazzo vuole a tutti i costi che Carla venga selezionata per una di queste terapie sperimentali; pare che abbiano ottenuto alcuni risultati. Me l’ha raccontato proprio lei, perché sta tentando di dissuaderlo. Discutono sempre di questo, sono diventati un po’ la favola del reparto».
Viola era concentratissima. «Ma perché lei non vuole provarci?»
L’infermiera scosse il capo. «Ragazza mia, mica è facile entrare in uno di quei protocolli. È complicato, la lista è lunga e scelgono loro, mica il malato. Lui sostiene che un modo c’è, ma servono un sacco di soldi, e Carla teme che Manuel combini un guaio per procurarsi il denaro. Lui si sforza di salvare lei, e lei di proteggere lui. Fanno una tenerezza che strazia il cuore.»
«Grazie, Anna. Le giuro che nessuno saprà di questa conversazione, e che l’ho disturbata soltanto per il bene di Carla e Manuel.» Dopo un rapido bacio alla zia, Viola se ne andò di corsa.