Troppa luce oggi, pensò il ragazzo. Maledetto sole. Sfilò dalla tasca un paio di occhiali scuri e li inforcò. Era sempre stato convinto che un naso lungo presentasse dei vantaggi: per esempio, si disponeva di un’ampia superficie su cui decidere dove appoggiare le lenti. Stavolta mise il ponte della montatura in una posizione intermedia tra la punta e la radice, tanto teneva sempre la testa bassa e lo sguardo a terra.
Camminò svelto ma senza correre: per allontanarsi dal bar, non per squagliarsela. Capirai che m’importa, rifletté: io scappo sempre, in qualsiasi direzione vada. Solo che non si può fuggire da se stessi. È quello il problema.
Il poliziotto e la donna dai capelli grigi volevano sapere del vecchio. Di lui e della vedova. Cercavano informazioni chissà per conto di chi e chissà perché.
Il ragazzo ignorava quale segreto il vecchio si fosse portato nella tomba. Conosceva dei frammenti della sua vita, questo sì; e forse i due del bar erano interessati proprio a quelli, che poi magari erano tutte cazzate, le favole di un povero vecchio ammalato.
Scansò un barbone, percepì il fetore di alcol del suo alito, indugiò sulla mano tesa.
Il vecchio.
E ricordò.
La partita era combattuta. Si giocava per soldi, quindi scorreva il sangue. In senso letterale. Perché si entrava coi gomiti alti, e nei contrasti il piede non si tirava mai indietro. Già in due, uno per squadra, erano usciti piangendo.
Tutto intorno alla rete metallica era pieno di gente, perché partite come quella valevano il doppio, se finiva a mazzate. Il quartiere era così.
A terra cemento, pietre, persino cocci di bottiglia: dopo novanta minuti, il portiere sembrava un pugile al tappeto, e a volte ci pensava un attaccante a spaccargli i denti o a rifilargli una bella testata in qualche mischia in area, così, solo per intimidirlo.
Ma se uno nasce portiere, è portiere per sempre. Ha una vena di follia e non soffre la solitudine. È diverso dagli altri: possiede i superpoteri, ed è l’unico che può usare le mani. Non segna, la gloria non gli interessa, chi se ne fotte della gloria, vale molto di più strozzare l’urlo in gola agli avversari, spegnere i sorrisi, avvelenare la loro giornata. Ma se uno nasce portiere, è portiere per sempre. E tifosi non ne tiene, perché si urla di gioia per quelli che la buttano dentro, non per quelli che stregano un attaccante.
Lui era portiere. Da sempre, dall’inizio. Per quella vena di follia, e perché non temeva la solitudine.
Si accorse del tizio tra il pubblico perché se ne stava in disparte, dal suo lato del campo. E nel secondo tempo si avviò lento, camminando con un po’ di fatica, verso la sua porta. Non seguiva le traiettorie e i rimbalzi del pallone. Si limitava a fissarlo.
Lui giocò, e non ebbe paura. Giocò e spense entusiasmi, scansando i complimenti dei compagni, perché non gli interessavano. Follia e solitudine.
Alla fine era sporco di sangue, in faccia e sulle mani, nemmeno sapeva se era il suo. Mentre gli altri se la prendevano con l’arbitro, con dio o con entrambi, lui ritirò la quota della vincita e lasciò il campo di quella battaglia.
Il tizio lo seguì per parecchio, quasi fino alla casa. A un certo punto lui si voltò e chiese: «Che cazzo vuoi? Sei un rattuso ricchione?».
L’altro scuoteva la testa e lui provò un disagio che non si spiegava.
«Era portiere pure mio figlio» mormorò il tizio. «Era proprio bravo. Diceva che in porta si sentiva felice. Io non lo capivo. “Ma non saresti più contento a segnare?” gli chiedevo. “No” mi rispondeva. “Non capisci, papà. Io sono il portiere.”»
Lui riprese a camminare, con il tizio dietro. Era vecchio, ma la faccia, la faccia era la stessa che ogni mattina gli restituiva lo specchio. Il naso lungo, gli occhi profondi. Uguali. Si fermò di nuovo e domandò con gentilezza: «Dove giocava, tuo figlio?».
«Dove capitava» disse il vecchio. «Per strada, nei cortili, ovunque, finché ha potuto.»
«Poi?»
«Ha smesso.»
Manuel affrettò il passo, doveva sbrigarsi; se tardava, non lo lasciavano entrare.
Si chiese se i due tipi del bar fossero sbirri. Be’, uno lo era di certo. Anche se pareva in imbarazzo, come se non fosse in veste ufficiale. Ne aveva incontrati di poliziotti, gente che preferiva arrotondare con le mazzette o finire a libro paga di qualcun altro, magari uno della squadra avversaria. Nemici dalle otto alle diciassette, soci dalle diciassette alle otto. Del resto, si deve pur campare, no? Ecco, l’uomo era un po’ così. Ma non gli era sembrato un corrotto, piuttosto uno che per qualche motivo non può esibire il tesserino. Quella curiosa era lei, la donna coi capelli grigi. La si notava a stento, e se l’era trovata accanto al tavolino come se fosse sbucata dal nulla. Poi aveva parlato e… La voce e gli occhi lo avevano rapito. C’era mancato poco che le dicesse del vecchio.
Lo ritrovò ancora, fuori dalla scuola. E di nuovo al campo. E sotto la casa, tre volte. Rimaneva in silenzio, lo osservava. Lui se ne sarebbe fregato, o lo avrebbe sfottuto; oppure avrebbe coinvolto quattro o cinque dei peggiori, quelli grossi, che lo avrebbero pestato lasciandolo a terra senza respiro, magari morto, tanto era malconcio e zoppicava pure, un paio di calci e sarebbe crepato. Ma c’era il problema dello specchio, e di come il vecchio gli raccontava del figlio. Al passato. Un altro che stava tra i pali, perché era nato portiere, e forse si divertiva a spegnere i sorrisi.
Lui però si divertiva anche con Sebastiano ’o Fesso, chiamato così perché ripeteva sempre che se non fosse venuto al mondo fesso, sarebbe stato miliardario; del resto fotteva i portafogli come nessuno in città. Che significava nessuno sulla faccia della Terra. La città quello teneva: il caffè, la pizza e lo scippo. Quindi, se eri il meglio in quel posto eri il meglio ovunque.
Lui ci rideva e scherzava con Sebastiano, che però aveva smesso di rubare perché aveva sei figli e se lo pigliavano e finiva in galera, chi gli dava da mangiare alle creature? Così lui era diventato molto più bravo. Si organizzava con gli amici e giravano, ridevano, sfioravano e controllavano chi di loro aveva alzato più borsellini. Se Sebastiano era fesso, lui lo era mille volte di più.
Il vecchio lo seguiva da lontano. Aveva lo sguardo vuoto, ma lui conosceva lo specchio e intuiva che non era contento se li vedeva giocare a chi svuotava più tasche. Invece gli piaceva quando parava, anche se usciva dal campo sporco di sangue.
Una volta lo aspettò dietro un angolo col coltello, e lo minacciò: «Adesso o mi dici chi cazzo sei e che vuoi da me, o sparisci».
La donna dai capelli grigi era sfuggente, ragionò Manuel dirigendosi verso l’ospedale. E aveva una strana urgenza negli occhi. Magari quello che stava cercando era davvero importante.
Ma perché avrebbe dovuto aiutarla e ammettere di conoscere il vecchio o la vedova, o entrambi? Chissà che avrebbero pensato. Chissà che avrebbe creduto, la donna.
Lui però era abituato a contare solo su se stesso. Poteva scegliere tra ciò che gli conveniva e ciò che non gli conveniva. E aprire la bocca con quei due non gli avrebbe procurato alcun vantaggio.
Poi doveva concentrarsi su Carla. Perché un uomo deve prendersi cura della sua donna, per forza. Non poteva permettersi distrazioni. Non c’era tempo. Era quello che gli aveva raccomandato il vecchio. E lui gli aveva anche voluto bene.
Il vecchio non badò al coltello e lo fissò con gli stessi occhi che lo guardavano ogni giorno allo specchio. «Non voglio niente» rispose. «Io da te non voglio niente. Ma siamo rimasti solo noi due.»
«Come sarebbe? Che significa?»
«Mio figlio era un bravo ragazzo» continuò il vecchio. «Era solo un po’ debole, come la madre. Ci somigliavamo molto.»
Lo specchio, pensò lui, ma non disse niente. Invece domandò: «E ora dove sta?».
«Se n’è andato. Ha deciso così, e se era quello che desiderava, è stata la soluzione migliore. Era un poco pazzerello. Ed era solo. Follia e solitudine. Se uno nasce portiere, è portiere per sempre. Tua madre era la sua ragazza. Non sono stati insieme per molto. Mio figlio non ce l’ha fatta. E neanche lei. È così?»
Lui restò in silenzio, ma era come se avesse risposto.
«Lo vedi, siamo rimasti io e te? Ti ho cercato e ti ho trovato. Ti ho spiato per tanto tempo, e tu non ti sei accorto di me. Ma adesso devo parlarti. Per forza, tra poco non ci potremo vedere più.»
«Perché?» chiese lui.
«Devo andare in prigione. E non credo che ne uscirò.»
Chissà perché non ci sono mai riuscito, pensò Manuel camminando nella luce intensa del sole.
Chissà perché dopo qualche tempo, quando mi mandò a dire dov’era, sono andato a trovarlo. Chissà come aveva scoperto della casa famiglia. Mi parlò con voce gracchiante mentre quegli occhi bruciavano per la febbre, la solitudine, e i ricordi. Quegli occhi che avevano tagliato la sua vita in due, dal momento in cui avevano visto il figlio impiccato, quando dopo tutti gli sforzi compiuti per salvarlo era rimasto solo un cadavere rigido e freddo.
Chissà se si era pentito e se, potendo tornare indietro, avrebbe compiuto scelte diverse.
Chissà perché non sono mai riuscito a chiamarlo nonno, pensò Manuel mentre il sole lo abbagliava. E si sistemò gli occhiali sul naso, per nascondere le lacrime.