XXXVIII

Attraverso l’addestramento e lo studio, Sara aveva affinato all’estremo le proprie capacità. Sapeva leggere le espressioni, i gesti e il linguaggio del corpo. E le bastò uno sguardo per interpretare i segni che aveva davanti. Un sopracciglio appena inarcato, il mento un po’ sollevato, il pugno sul fianco, un piede leggermente in avanti rispetto all’altro tradivano curiosità. Le labbra strette e il capo inclinato da un lato manifestavano iniziale diffidenza. La schiena dritta, i capelli tinti di un biondo oro e il gesto secco con cui li ravviava raccontavano di una donna per certi versi sfrontata.

In quarant’anni di carriera, Adelaide aveva imparato a cogliere la sostanza al di là delle apparenze. I capelli grigi e l’assenza di trucco indicavano disinteresse per forme e finzioni. L’igiene e il corpo tonico significavano una cura per la propria persona che prescindeva dal giudizio degli altri. Gli occhi intensi che non sfuggivano, il busto eretto e l’assenza di espressioni di circostanza attestavano la franchezza dei modi.

Il reciproco esame durò circa trenta secondi, con grande imbarazzo di Viola, che osservava ora l’una ora l’altra muovendo la testa come l’arbitro di una partita di tennis. Poi le due donne sorrisero e si tesero la mano.

L’infermiera disse:

«Ecco la nonna giusta per Massimiliano. Viola mi aveva spiegato che eri l’esatto contrario dell’Arpia. Quella, sotto la messa in piega, ha solo segatura. Piacere di conoscerti».

Sara ricambiò la stretta:

«È un piacere anche per me, Viola non sbaglia nel valutare le persone e non sarà un caso che tu sia l’unica che le piace della sua famiglia».

Adelaide ammiccò alla nipote. «Anche perché siamo rimasti in pochini… Ma veniamo al dunque: adesso vi accompagno nella sala infermieri di Immunologia clinica, dov’è ricoverata la De Rosa. Anna, la mia collega, ha accennato a Carla che due mie amiche vogliono parlarle. Mi raccomando: non può stancarsi o agitarsi. È affetta da una terribile patologia degenerativa che le causa un’enorme sofferenza. Avete mezz’ora, poi Anna la riporta in stanza, che abbiate finito o meno. Chiaro?»

Sara annuì con convinzione, mentre Viola rispose:

«Grazie per questo immenso aiuto, zia. Ti assicuro che agiamo così per il bene di…».

Continuando a fissare Sara, Adelaide interruppe la ragazza:

«Tesoro, io non ho chiesto niente e non voglio sapere niente. Se mi sono fidata di te prima, devo fidarmi anche adesso. Ma sono obbligata a tutelare la paziente, perché della sua salute è responsabile Anna. D’accordo?».

La sala infermieri di Immunologia clinica era un ambiente pulito e allegro, pieno di soprammobili e disegni colorati: assomigliava più alla segreteria di una scuola elementare che a un ospedale. Le accolse Anna, la caposala, che sorrise a Viola. Poi chiamò un’infermiera, giovane e graziosa, che le fece accomodare e uscì. Rientrò qualche minuto dopo, spingendo una sedia a rotelle su cui se ne stava una donna con un plaid sulle gambe che le copriva anche gli avambracci.

Il viso presentava le innegabili tracce di una trascorsa bellezza. Gli occhi erano scuri e profondi, gli zigomi alti, i capelli biondo miele, i lineamenti raffinati e regolari; la malattia, però, stava cancellando tutto. La pelle tesa costringeva la donna a lottare contro una smorfia involontaria. Lo sforzo doveva essere immane. La fronte e le guance erano lucide e raggrinzite, e gli occhi avevano assunto un taglio obliquo.

L’infermiera sorrise e la rassicurò:

«Carla, ripasso tra mezz’ora. Se vuoi tornare in stanza prima, fammi chiamare e arrivo subito. Hai capito?».

La donna ricambiò il sorriso annuendo. Attese che l’altra lasciasse la stanza, quindi si rivolse alle due sconosciute:

«Salve. A che devo questa visita inattesa?». Il tono era tranquillo, curioso, privo di inquietudine.

Viola scambiò un cenno d’intesa con Sara:

«Signora, le sembrerà tutto molto strano e premetto che, se non volesse aiutarci, comprenderemmo. Sappiamo che sta soffrendo e ci dispiace molto, ma è possibile che qualcuno a cui tiene stia per cacciarsi in una brutta situazione, e così abbiamo preferito disturbarla, piuttosto che consentirlo».

L’espressione di Carla cambiò d’improvviso, e una terribile angoscia si dipinse sul suo volto:

«Manuel. Gli è successo qualcosa, non è vero? Vi prego, ditemelo subito!».

Sara fu pervasa da due emozioni contrastanti: da un lato provò rammarico per aver causato un simile turbamento, dall’altro quella reazione la rassicurò sull’esito dell’incontro. Viola, pensò, era un piccolo genio del male. Poi rispose:

«Sì, Carla, siamo qui per Manuel. Non si preoccupi, sta bene e non si è ancora messo nei guai: ma potrebbe accadere molto presto».

La De Rosa si voltò a guardarla e disse:

«Se siete venute da me, significa che c’è ancora tempo. Ma, prima di tutto, voglio sapere chi siete».

Sara si aspettava quella domanda, e aveva già deciso di essere sincera, per quanto possibile. «In passato lavoravo per un’unità dei Servizi, ora sono in pensione. Viola è una mia giovane amica, fa la fotoreporter ma non esercita. Siamo venute a conoscenza di una questione delicata, che vorremmo raccontarle, se acconsentisse ad ascoltarci.»

La donna annuì, e Sara con concisa pacatezza la mise al corrente dei fatti. Le parlò di Pardo e di Fusco, senza accennare all’omicidio di Ada, indugiando invece sulla malattia terminale dell’ex poliziotto; le disse di Lombardo, dei suoi possibili segreti, della richiesta di incontrare Angelo prima di morire, e del collegamento col magistrato Virgilio Maddalena, l’unico oltre a Manuel ad aver visitato Antonino quando era detenuto; non omise nemmeno il tentativo del ragazzo di avvicinare la vecchia e la reazione della donna. «Insomma, abbiamo motivo di credere che Manuel intenda ottenere dalla vedova i soldi necessari per… per alcune cure di cui lei, Carla, ha bisogno. C’è l’eventualità che questo progetto si concretizzi in maniera illecita. Ma la signora Maddalena dispone di conoscenze importanti e potrebbe rovinarlo.»

Carla, che aveva ascoltato in silenzio senza perdersi neppure una sillaba, disse:

«E perché siete qui? Dubito che c’entri la filantropia».

Le due donne avevano previsto quell’obiezione.

Fu Viola a replicare. «Dobbiamo scoprire quali informazioni Lombardo intendeva rivelare a Fusco. Sta morendo, e crediamo che meriti di andarsene sereno. Siamo convinte che Manuel sappia tutto, anche quale fosse il collegamento tra Lombardo e Maddalena. Non ha commesso reati, ma è determinato a trovare il denaro per lei e temiamo che possa combinare qualche sciocchezza. Vorremmo impedirglielo.»

Sara intervenne con dolcezza:

«Ma Manuel non ha voluto parlarci, Carla. Ha persino negato di conoscere Lombardo, e invece siamo certi che sia stato a trovarlo in ospedale. Vorremmo solo che lei ci aiutasse a scoprire la verità, o che almeno provasse a convincerlo ad aprirsi con noi. Prima di tutto, per il suo bene».

La De Rosa tacque, il respiro corto, gli occhi fissi su Sara. Le labbra tese le lasciavano scoperte le gengive in un ghigno innaturale.

Tirò fuori a fatica un braccio da sotto la coperta, e lo alzò davanti a sé come fosse un oggetto inanimato. Le dita adunche, piegate ad artiglio, grigiastre e immobili, assomigliavano a un’orrenda scultura in pietra. La mano era rinsecchita, scheletrica. L’epidermide ispessita, traslucida, le nocche arrossate e malsane.

Viola rabbrividì.

Carla mormorò:

«La vedete questa mano? È così che è cominciata».