XXXIX

È cominciata così, circa un anno fa. E da allora non si è più fermata.

È doloroso, sapete? Molto doloroso. Si perde la sensibilità, sembra che il sangue smetta di scorrere. È come se qualcuno ti torcesse le dita sempre più forte. Una tortura inspiegabile che non dà tregua.

Ti chiedi perché. Perché proprio a me? Le cause non sono genetiche, e non esistono spiegazioni. Allora perché proprio a me? Nessuno conosce il motivo.

Io ero quasi felice. Ma ignoravo di esserlo, presa da mille problemi. Non credevo che fosse lecito essere se stessi. Le convenzioni sociali mi sembravano insormontabili. Ora, invece, le trovo buffe e, se potessi tornare indietro, sai come me la godrei quella felicità, che risate in faccia a tutto e a tutti… Chi se ne frega dei vostri giudizi! Invece non si può, e bisogna soltanto rassegnarsi.

Io amo Manuel. Potrebbe essere mio figlio, e in qualche modo lo è. Ci siamo incontrati in una casa famiglia; io ero la responsabile, lui un orfano. Il mio ruolo mi imponeva di essere una figura materna, funziona così. Lo so, è orribile innamorarsi di un figlio. Quindi suppongo di essere stata un fallimento nella mia professione.

Ma Manuel non era un bambino, e io non l’ho cullato. L’ho conosciuto che era un ragazzo. Anzi, credetemi, era già un uomo. Io non so se avete mai provato un sentimento che la ragione vi costringe a negare. Ti senti lacerato, mentre due voci urlano dento di te. Una che continua a ripetere: “Sei pazza, non ti rendi conto delle conseguenze, ti rovinerai e lo rovinerai”. E l’altra che ribatte testarda: “Non importa, lui è un uomo e tu sei una donna, la pelle desidera, il cuore non mente”.

Non potete immaginare quante volte mi sono sottratta. Quante volte sono fuggita rimanendo immobile, nascondendomi dietro un sorriso, una battuta, una scrollata di spalle. Lui mi corteggiava maldestro e tenero com’è, e io mi sentivo quegli occhi enormi e disperati addosso, sulla schiena, sulla bocca. Mi chiamavano, quegli occhi. Mi supplicavano, mi imploravano. E io scappavo.

Manuel ha molti talenti e mille risorse. Certo, è cresciuto combattendo con le unghie e con i denti; viene da un posto che non perdona, in cui la sensibilità è sempre scambiata per debolezza. E la debolezza, in periferia, è un peccato mortale. Per sopravvivere giorno dopo giorno, ha dovuto usare le sue abilità nel verso sbagliato.

Di sicuro avete scoperto come si mantiene. Anche se nega, per me è un libro aperto, e dietro quella vaghezza nasconde segreti. Sul suo lavoro è sempre evasivo. E voi non sareste qui, se lui vivesse in modo onesto.

Non lo biasimo. Il mondo gli è crollato addosso due volte. La prima quando è morta la madre, una donna disperata. La seconda quando io mi sono ammalata.

Sì, stavamo insieme.

Avevo ceduto al cuore, mettendo da parte la ragione. Chissà, forse sentivo arrivare la malattia; forse immaginavo che, da un giorno all’altro, avrei perso la possibilità di essere felice. Penso a questo nelle inutili, infinite ore che trascorro qui dentro, fissando il soffitto. Forse è stata la vendetta per quella felicità, o la punizione per un rapporto contro natura.

Avevamo affittato una piccola casa nei vicoli, dove nessuno si interessa agli affari degli altri, e si bada solo a tirare avanti. Ci siamo stati poco, nemmeno sei mesi: ma è stato il periodo più bello della mia vita.

Poi le dita hanno cominciato a ingrigirsi.

Mi hanno spiegato che si chiama fenomeno di “Raynaud”. All’improvviso le terminazioni della mano cominciano a formicolare, perdono sensibilità e iniziano a far male al contatto col freddo o a causa di alterazioni emotive. Dopo diventano bluastre, e poi bianche. Questa patologia, si è scoperto, era solo il sintomo di un male più grande, perché poi mi hanno diagnosticato la sclerosi sistemica. Sono seguiti il bruciore di stomaco, la difficoltà a deglutire, la respirazione affannosa. E un dolore insopportabile che si estende a tutto il corpo. Alla fine, la faccia si deforma, a quel punto desideri di morire il prima possibile.

Non c’è cura per la sclerosi sistemica. Colpisce troppo poca gente, e le case farmaceutiche non investono in ricerche lunghe e costose, se non c’è da guadagnarci. Perché i malati sono un mercato. Ci avete mai pensato? Io no.

Mi sono rassegnata, è stato facile. Non ci ho messo molto, forse dentro di me ho sempre saputo che non sarei vissuta a lungo. Sono rimasta orfana anch’io, ma da piccola, mi ha cresciuta una zia che mi ha consentito di studiare. Poi se n’è andata anche lei. Sono abituata alla morte e a considerare l’esistenza un passaggio veloce.

Io mi sono rassegnata, Manuel no. È convinto che troveranno la cura, così io tornerò da lui e saremo di nuovo felici.

Ho provato a spiegargli che è impossibile, che non saremmo comunque in tempo, che la mia malattia è a uno stadio avanzato. Vorrei che smettesse di venire, che si risparmiasse questo strazio e non respirasse quest’aria terribile. Vorrei che non soffrisse più, che la finisse di sperare, che guardasse avanti, perché lui un futuro ce l’ha. Ma è testardo. Troppo testardo.

Non mi stupisce che abbia deciso di trovare i soldi per quel maledetto protocollo.

Io credo che sia un imbroglio. E forse lo sospetta anche Manuel. È testardo, sì, ma intelligente. È anche realista, e non si lascia trascinare dall’ottimismo.

L’ultima volta che ne abbiamo discusso, gli ho detto che lo stanno prendendo in giro, che quelle cure sperimentali sono una truffa. Allora lui mi ha guardata con i suoi occhi profondi e mi ha chiesto: «Perché, hai un’alternativa?».

No. Io non ce l’ho un’alternativa. Posso solo lenire il dolore con gli analgesici in vena e sperare di morire nel sonno. Questa è la mia alternativa.

Manuel non parla volentieri di Lombardo, e sono sicura che, se non avesse questa folle idea di salvarmi da un male incurabile, neanche me l’avrebbe confidato che andava a visitare una persona detenuta. Me l’ha raccontato da poco, evasivo come al solito. È il suo carattere, ed è inutile fare domande.

Anche se adesso sono stanca, e tra poco scivolerò in un sonno senza sogni, voglio ancora parlare con voi.

Lombardo era il nonno di Manuel. Il padre di suo padre, che non lo ha mai riconosciuto e si è suicidato prima che la madre finisse male anche lei, uccisa dalla droga o dall’alcol.

A volte scherza sul suo sangue, Manuel. Sostiene di essere condannato, ma non è vero. Il destino non esiste. Quanti ne ho visti di predestinati che hanno avuto una vita diversa da quella che sembrava già scritta, nel bene o nel male.

Lombardo lo ha conosciuto tardi, credo che lo abbia cercato quando ancora stava nella casa famiglia, poi non si sono sentiti per un po’, ma alla fine si sono ritrovati.

Della vedova mi ha parlato poco. Secondo lui, potrebbe convincerla ad aiutarci. Ha accennato soltanto a una lettera, e a una vecchia storia. Ma è stato vago. E quando è vago, io mi preoccupo.

Perciò è plausibile che stia per cacciarsi in qualche guaio. Preferirei che mi togliessero i farmaci e mi lasciassero crepare tra i dolori, piuttosto che vedere Manuel mentre si rovina la vita per colpa mia. Perché, vi ripeto, lui un futuro ce l’ha. Deve dimenticarsi di me, deve godere del sole, del mare e del vento. Deve avere figli e nipoti, deve piangere e deve ridere. Quant’è bello, quando ride.

Lo convincerò a incontrarvi. Non so nulla di voi, ma non ho altri di cui fidarmi. Spero che siate sincere. Lasciatemi un numero, vi contatterà lui.

Non ho paura di morire. Sarei contenta di vivere, ma non ho paura di morire.

Voglio solo salvare l’uomo che amo. Da se stesso.

M’importa solo di quello.