XLV

Io sono stata l’ombra di mio marito per tutta la vita.

Ci siamo conosciuti da adolescenti, ed era davvero un’altra epoca. Avevamo tanti ideali, volevamo contribuire alla ricostruzione del Paese, e la guerra era una ferita ancora aperta. Lui studiava sempre: sognava di diventare magistrato, e ci riuscì.

Quanto è cambiata quella professione da allora… Adesso i giudici scrivono romanzi, vanno in televisione e concedono interviste. Firmano articoli sui giornali, partecipano a tavole rotonde, vengono eletti parlamentari e sono celebrità. Ai nostri tempi era considerato disdicevole per chi indossava la toga avere un’immagine pubblica, ogni energia era dedicata alla professione.

Virgilio aveva talento. Era uno dei migliori e non si fermava mai. Lavorava venti ore al giorno col massimo impegno. Per lui esisteva solo l’indagine in corso, persino con me non parlava d’altro.

Poi arrivarono gli Anni di piombo, le formazioni armate, i giovani che si ammazzavano per strada. Il clima era pesante. Gli furono affidate inchieste eccellenti, e lui non si risparmiava. Era stimato, benvoluto. La sua carriera si annunciava promettente, ricca di prospettive.

Aveva anche cominciato a frequentare certe persone fuori dalla Procura. Credo che fossero uomini dello Stato, forse agenti dei Servizi. Qualcuno veniva sotto casa, e lui scendeva a incontrarlo. Si scambiavano carte e informazioni. Su quei contatti era sempre vago, ma aveva gli occhi che gli brillavano e mi diceva: «Il nostro futuro sarà bellissimo, Gisella. Te lo assicuro. Stiamo collaborando con chi garantisce la sopravvivenza della Repubblica».

Sono della provincia di Benevento, dove mio padre possedeva un mobilificio che si era affermato come una delle principali imprese della zona. Io, mamma e i miei fratelli pensavamo che uno stabilimento così grande, in una realtà tanto arretrata, fosse intoccabile, come papà. Invece ci sbagliavamo.

Lo scoprimmo quando era troppo tardi, e nel modo peggiore: il giorno in cui mio padre scappò lasciando un biglietto di scuse. Aveva accumulato debiti per diversi milioni, una cifra enorme. Scoprimmo anche che non eravamo gli unici a dare credito alla solidità dell’azienda.

Il problema non furono le banche, e nemmeno le montagne di cambiali protestate. Il vero incubo cominciò quando ci cercarono gli strozzini, prima con le minacce, poi con le intimidazioni e alla fine con le botte. Virgilio avrebbe voluto, e dovuto, sollecitare i suoi colleghi perché perseguissero quei criminali. Ma sarebbe saltato fuori tutto, il mio nome sarebbe stato infangato. E l’infamia sarebbe ricaduta su di lui. Il suocero di un PM di spicco che fuggiva inseguito dai creditori, la famiglia della moglie sul lastrico, i cognati in rapporti d’affari con i criminali: era uno scandalo che mio marito non avrebbe potuto sopportare. In quel periodo non era come oggi, che quasi ci si vanta di avere debiti.

Prendemmo l’unica decisione che ci rimaneva: pagare. Dilapidammo tutti i risparmi, chiedemmo altro denaro in prestito. E così finimmo in miseria.

Virgilio non era più lo stesso, e in ufficio iniziarono i guai. Non si può conservare la lucidità, se l’angoscia costante di coprire gli assegni ti opprime la mente. Gli tolsero i casi più importanti, e per lui fu un dolore immenso. Sprofondò nella depressione, perse ogni stimolo. Io mi sforzavo di tirarlo su, ma era impossibile: ripeteva che, a occuparsi di reati da strada, si sentiva come il capitano di un transatlantico che si ritrova a pilotare un rimorchiatore in un porto.

Poi accadde un imprevisto: gli assegnarono un’indagine su quella che sembrava la normale rapina a una gioielleria in una zona periferica. C’era stata una sparatoria, e il figlio del titolare, poco più che ventenne, era stato ucciso. Quel crimine passò inosservato, o quasi.

Ma Virgilio era in gamba, ve l’ho detto. Squarciò il velo di omertà e accertò che a organizzare la rapina e ad ammazzare il giovane era stato il figlio minore di un boss di primo piano, che controllava i giri dello spaccio in mezza città. Il ragazzo era una testa calda, e aveva voluto il suo battesimo del fuoco. Solo che gli era scappata la mano.

Non era un’inchiesta facile, perché il quartiere era terrorizzato e nessuno avrebbe mai osato raccontare ciò che aveva visto. Virgilio, però, riuscì a scovare un testimone che non era disposto a farsi intimidire. Mio marito avrebbe ottenuto una condanna all’ergastolo per il colpevole e sarebbe tornato in pista.

Fu allora che Lombardo lo avvicinò per conto del boss. In tribunale, tutti sapevano che il cancelliere aveva continuo bisogno di denaro per il figlio drogato. Virgilio a stento lo salutava, e fino a un paio d’anni prima non gli avrebbe permesso neppure di bussare alla porta del suo ufficio. Tutto era cambiato, però.

Gli offrirono un mucchio di denaro. Ma mio marito non aveva intenzione di vendersi l’anima, almeno non a buon mercato, e strappò il doppio.

Lombardo avrebbe trattenuto una percentuale, e quindi insisteva perché l’affare si concludesse. Venne qui a casa un paio di volte. Era un tipo sgradevole, il nipote è identico a lui. Quando mi è spuntato alle spalle, giù in strada, ho urlato d’istinto ma, a mente fredda, credo proprio di essermi comportata nel modo giusto.

La trattativa fu breve, quelli accettarono subito. Evidentemente il prezzo doveva essere equo. Il testimone sparì, e l’imputato fu assolto per insufficienza di prove.

È come rinunciare alla verginità. Si infrange una specie di barriera, oltre la quale non ci sono più ostacoli. Poi capitò ancora, ancora e ancora. Conveniva a tutti. Diventammo ricchi, e io lo sono rimasta. Ma Virgilio non rise mai più, nemmeno quando andò in pensione, dopo essere uscito indenne da un procedimento avviato da un giovane collega, al quale un collaboratore di giustizia aveva raccontato una favola a proposito di un magistrato un tempo in prima linea contro il terrorismo. A mio marito bastò una telefonata, e il collega ricevette un avviso che era meglio non ignorare. Il procedimento fu bloccato. Funziona così.

Virgilio andò da Lombardo quando scoprì che era malato. Non dormì per diverse notti, era terrorizzato all’idea che, prossimo alla fine, avrebbe rivelato i vecchi segreti. Io provai a dissuaderlo, a convincerlo che non era prudente, che qualcuno avrebbe potuto insospettirsi per quella visita. Non ci fu verso: la paura era più forte della cautela.

Non mi interessa della reputazione, credetemi. Ormai sono vecchia e sono morti tutti. Ma non voglio che di quel ragazzo così coraggioso e puro di cui mi sono innamorata resti solo il ricordo della perdita di dignità. Non è giusto e non lo accetto.

Perciò, eccovi accontentati: questo è tutto quello che so. E adesso spiegatemi che altro volete per darmi quella maledetta lettera.

E chiudiamola qui.