XLVII

Non si trattava dello stesso ospedale dov’era ricoverata Carla. Questo si trovava vicino al mare, in una periferia degradata che era stata una zona industriale quando c’erano ancora le fabbriche, e adesso era un quartiere senza identità, triste e sospeso come una mancata promessa.

Per arrivarci, Sara e Pardo passarono davanti alle mura del carcere, e pensarono entrambi, ma senza dirselo, che quello era stato l’ultimo tragitto compiuto da Lombardo prima di morire. E non era certo stato un cammino verso la libertà. Antonino aveva avuto un’esistenza infelice, aveva pagato per gli errori commessi e anche per altre colpe che potevano pesargli sulla coscienza. Era l’unico parente che Manuel aveva conosciuto, a parte la madre, e questo spiegava perché il ragazzo si fosse rifiutato di sapere altre terribili verità sul passato del nonno.

All’ingresso, Sara e Pardo chiesero dell’infermiere Esposito Pasquale, specificando che era in servizio in Rianimazione. Furono invitati ad aspettare su una panchetta addossata a una parete scrostata, in un corridoio nel quale, a causa di una porta automatica difettosa, tirava una fastidiosa corrente.

Attesero una decina di minuti. Quando cominciarono a preoccuparsi che Esposito non volesse incontrarli, un uomo corpulento con indosso una tuta arancione uscì da un ascensore.

Tese la mano e si scusò:

«Abbiate pazienza, il collega si è scordato di avvisarmi. Se non lo incrociavo per caso, manco mi avvertiva. Sono Esposito Pasquale. Prego, accomodatevi da questa parte».

Li precedette attraverso uno stretto passaggio interno e una piccola anticamera fino a una stanza confortevole con al centro un tavolo e delle sedie. Su una mensola c’erano un fornello elettrico e una moka, di fianco a un lavandino. Senza informarsi se i due sconosciuti gradissero del caffè, Esposito cominciò ad armeggiare con la macchinetta. «Mi perdonerete, qua non ci stanno tazzine di porcellana o zuccheriere, dovrete accontentarvi dei bicchierini di carta: ma vi assicuro che, per chissà quale magia, quello che esce da questo ferro vecchio e mezzo scassato ha un sapore sublime. Forse dipende dal posto.»

Sara scambiò un’occhiata con Pardo e attaccò:

«Signor Esposito, ci hanno riferito che…».

L’uomo si voltò mentre avvitava la moka. «No, dottore’, andiamo male. Prima di tutto, io sono Pasquale, qua non ci sta nessun signore e, se mi chiamate Esposito, non vi rispondo perché non sono abituato. Poi, concedetemi un secondo che metto questa sul fuoco e sono a disposizione.»

In pochi minuti finì, quindi si accomodarono tutti e tre intorno al tavolo. Esposito aveva un viso gioviale, con uno sguardo aperto e molto intelligente. Era sulla cinquantina e doveva averne viste di tutti i colori, ma l’espressione attenta e curiosa tradiva un entusiasmo da ragazzino.

Pardo cominciò:

«Pasquale, anzitutto grazie per averci ricevuto. Siamo qui perché un caro amico purtroppo è allo stadio terminale di una malattia terribile, e…».

Esposito alzò la mano:

«Scusate, dotto’. Io non lo voglio sapere chi siete o perché vi interessa quello che ho da raccontarvi. Non sono affari miei, io sono un infermiere, non un prete o un magistrato. Il mio ragionamento è un altro».

«E quale sarebbe?» domandò il poliziotto.

L’uomo si alzò, versò il liquido scuro nei bicchierini e li allungò a Sara e Pardo. Dopo aver bevuto un piccolo sorso, Davide esclamò sconcertato:

«Madonna santa, ma è spettacolare!».

L’infermiere sorrise, fiero:

«Avevo ragione, dotto’, è il caffè più buono del mondo. Un raggio di luce in mezzo a tutta questa sofferenza. Allora, vi stavo spiegando: io lavoro in Rianimazione da trent’anni. Ci capitai all’inizio della professione, e non ho più voluto cambiare. Molti colleghi chiedono di essere trasferiti: questo è un reparto pesante, ci vuole competenza ed estrema attenzione. Non bisogna distrarsi mai, si rischia di incappare in qualche guaio perché, al minimo errore, il paziente può morire. Stanno come sull’orlo di un burrone, e basta un soffio. È chiaro, no?».

Pardo era spazientito e voleva arrivare al dunque, ma Sara aveva compreso che, finché non avesse illustrato le ragioni delle sue confidenze, Esposito non si sarebbe fermato. Quindi lo assecondò:

«E allora lei perché è rimasto?».

L’infermiere sorrise soddisfatto:

«Perché qualcuno deve accompagnarli, dottore’. Qualcuno deve stare accanto a chi se ne va. Neanche i poveri o i delinquenti devono morire soli. Almeno uno che ti tiene la mano alla fine della vita ci vuole. Non vi pare?».

Pardo annuì. «Infatti noi abbiamo un amico che…»

Pasquale riprese imperterrito:

«Così è successo a Lombardo Antonino, che è spirato poco prima dell’alba, quando c’era soltanto il sottoscritto. È stato strano. In effetti non avrebbe dovuto nemmeno accorgersene, il dottore gli aveva somministrato un pesante sedativo affinché il trapasso fosse indolore. Ma quello che teneva nel cuore era più forte di quello che teneva in corpo: ed è riuscito a chiamarmi prima di andarsene. Aveva bisogno di alleggerirsi l’anima».

Davide insistette:

«E di che ha parlato?».

Esposito sorrise ancora:

«Le ultime parole di chi sta abbandonando questo mondo sono un’eredità. Anzi, come quelle di Lombardo sono una lettera non scritta. Io, in questi casi, da infermiere divento postino. E secondo coscienza, consegno la lettera ai parenti. Stavolta volevo recapitarla al nipote, che è venuto il giorno dopo. Ma lui non ha accettato di ascoltare. E se devo essere sincero, lo capisco.»

Sara domandò:

«E perché?».

«È una storia terribile, dottore’. Davvero terribile. A volte le persone in punto di morte inventano, o descrivono una specie di sogno. Altre è tutto confuso, sono deliri senza capo né coda. Ma ci sono occasioni come questa, in cui a esprimersi non è il moribondo, che nemmeno terrebbe la forza, ma proprio la coscienza. Una voce che viene dall’inferno, come se l’anima si fosse mossa in anticipo.»

All’improvviso, nell’ambiente saturo del profumo del caffè appena preparato, calò un gelo spettrale.

Pardo si agitò sulla sedia, e lanciò un’occhiata a Sara. Quello sguardo sottintendeva che forse era preferibile restare all’oscuro, rinunciare, e che Fusco, in fondo, poteva morire in modo più degno continuando a ignorare quello che era successo alla sorella.

Il viso di Esposito esprimeva rassegnazione e pena, ma anche tenerezza, conforto, pietà.

Sara si sporse in avanti:

«Pasquale, noi stiamo tentando di risolvere un mistero vecchio trent’anni. Tutti quelli che erano coinvolti non ci sono più, Lombardo era l’ultimo. Lei conosce il peso di certi segreti, ma può comprendere anche quanto è terribile spegnersi nel tormento, senza risposte che possono spiegare eventi atroci, regalando un poco di serenità. Lei aiuta chi muore tenendogli la mano, allora ci aiuti a stringere quella di una persona a cui non rimane più tempo».

Esposito tirò un lungo sospiro. «Mi avete capito bene, dottore’. E io per questo vi riferisco le ultime parole di Lombardo Antonino, quando il suo corpo era già morto e l’anima parlava dall’inferno.» E da quel momento, raccontò al presente.