XLIX

Pardo si recò da solo a casa di Fusco.

La decisione era stata di Sara. Il poliziotto avrebbe voluto che lei lo accompagnasse, magari per spiegare, col suo modo tranquillo e pacato, la terribile sequenza di eventi che aveva portato alla morte di Ada. Ma la donna riteneva che l’incombenza toccasse a Davide. Doveva chiudere il cerchio che Angelo aveva aperto quella mattina al bar, quando gli aveva chiesto aiuto; altrimenti, tutti i loro sforzi per risolvere il mistero di trent’anni prima sarebbero serviti a poco.

A Pardo era parso che Sara fosse turbata. Anche se non aveva lasciato trasparire emozioni, l’ispettore si era accorto che, durante il racconto di Esposito, lei aveva avuto un lieve sussulto, e c’era stato un impercettibile cambiamento nel tono della sua voce. Erano state reazioni minime, ma per una come Sara, abituata a schermarsi grazie alla cortina di un autocontrollo inscalfibile, equivalevano a un pianto improvviso. Davide non aveva intenzione di approfondire, ma adesso era certo che scoprire l’assassino di Ada non doveva essere l’unico motivo per cui la donna dai capelli grigi si era interessata a quella faccenda. Era probabile che ci fosse dell’altro.

Su Fusco, però, aveva ragione. Spettava a lui soltanto parlargli, ed era giusto così, anche se quella consapevolezza non rendeva più lieve il peso che lo opprimeva. Stava per rivelare a un uomo che aveva coltivato un lutto per tutta la vita che la sorella gli era stata strappata per una tragica casualità.

Fusco aprì in vestaglia. Trascinava un’asta munita di rotelle, alla cui sommità era fissato il flacone di una flebo; un tubicino scompariva sotto una manica dell’ex poliziotto. Rispetto al loro ultimo incontro aveva subìto un ulteriore peggioramento: il colorito era grigiastro, poche ciocche di capelli pendevano dalla sommità del cranio, un velo di barba ricopriva il volto scavato e i baffi ormai incolti sembravano uno sberleffo. Su collo e mani risaltavano delle chiazze violacee e degli ematomi sottocutanei. Gli occhi, che non avevano mai smarrito la vivacità e la determinazione, adesso erano acquosi e velati, forse a causa dell’effetto degli antidolorifici, o magari erano solo rassegnati all’imminente conclusione della battaglia.

A Pardo si strinse il cuore.

Angelo seguì lo sguardo dell’amico fino alla flebo, e disse:

«Sì, mi permettono di gestire la terapia da qui. Quella per il dolore, è ovvio. Alle cure per la malattia ho rinunciato». Si girò e si allontanò dall’ingresso dell’appartamento, senza nemmeno invitare Davide ad accomodarsi.

L’ispettore chiuse la porta e gli andò dietro.

Il sole filtrava dalle tapparelle semichiuse, illuminando un ambiente sciatto e impolverato. L’aria era impregnata di odore di farmaci, cibo stantio e solitudine.

L’ispettore si ritrovò in un salotto con una vecchia poltrona sistemata davanti a un televisore acceso al volume minimo. Una credenza era ingombra di scatole di medicinali e flaconi, alcuni pieni, altri vuoti, uguali a quello che stava erogando liquido nella vena di Fusco. Al centro della stanza c’erano un tavolo, con sopra gli avanzi di un pasto, e quattro sedie, una delle quali scostata.

«Scusa il disordine, Pardo. Negli ultimi tempi, non ricevo molte visite.»

Davide avvicinò una sedia alla poltrona, sulla quale con grande fatica si accasciò l’altro dopo aver piazzato l’asta con la flebo a una giusta distanza.

Fusco appoggiò la testa allo schienale, fece un sospiro di sollievo e socchiuse le palpebre. «Ti sono grato per le telefonate dei giorni scorsi, Pardo. Sono state le uniche conversazioni con qualcuno che non fosse un medico o un’infermiera. Per carità, sono tanto cari, ma quel tono di perenne compatimento non lo sopporto più. D’altronde, tra poco toglierò il disturbo, e si affanneranno a confortare un altro moribondo.»

Davide protestò, a disagio:

«Ma no, figurati, una vecchia pellaccia come te supererà anche questa, ne sono certo. Anzi, mi sembra che stai proprio meglio rispetto all’ultima volta».

Angelo rise, emettendo un suono rasposo e gutturale, che si spense in un colpo di tosse. «Non hai mai imparato a mentire. Ti ho sempre apprezzato per questo. Ma temo che non ci vedremo più. Ho deciso di ingurgitare una scatola intera di quelle pillole là, vedi? Così mi concederò un bel sonno. Credo sia un modo degno di concludere il mio viaggio.»

Davide lo fissò inorridito:

«Oh, Fusco, ma sei impazzito? Non esiste! Le cure ti aiuteranno, la scienza va avanti, non devi arrenderti!».

L’ex vicecommissario scosse appena il capo:

«Cazzate, parole vuote. Sono almeno cinque anni che me le ripetono e, a essere sinceri, neanche ci bado più. Invece voglio approfittare che sei qui per ringraziarti, Pardo. Ti sei occupato del caso di mia sorella come nessuno prima d’ora. Mi dispiace di averti insultato per la questione di Lombardo, ci avevo sperato in quell’incontro, ma di sicuro sarà stata una sciocchezza. Magari voleva ottenere qualche beneficio in cambio dell’ennesima bugia. A volte ci provano. Quindi, consìderati a posto con la coscienza, non mi hai tolto niente».

Pardo si sentì invadere dalla commozione. Ora doveva parlare. Per l’ennesima volta, si domandò se per l’amico fosse meglio conoscere la verità, oppure rimanere con i suoi dubbi e risparmiarsi la sofferenza di quella rivelazione. «No, Fusco. Non era una sciocchezza quello che Lombardo aveva da dirti. L’ho scoperto insieme a Morozzi.»

L’altro spalancò gli occhi, sorpreso. Poi li richiuse e sistemò la testa al centro dello schienale, dove si era formato un avvallamento nel tessuto liso. Alla fine sussurrò:

«Voglio sapere, regalami un poco di quiete».

Non lo so se avrai pace, pensò Pardo. Davvero, non lo so.

E cominciò a ripercorre gli avvenimenti. Se la prese comoda, spiegando come lui e Sara avevano proceduto passo dopo passo. Raccontò di Manuel, di Carla, della vedova Maddalena, e di una verità che prendeva forma un pezzo alla volta, restando sfuggente fino a quando tutto aveva cominciato a delinearsi in un quadro che forse sarebbe stato preferibile non vedere.

Fusco lo ascoltava a occhi chiusi, nessuna espressione sul volto, le mani chiazzate e grigiastre sui braccioli della poltrona. Un paio di volte, Pardo credette che si fosse assopito e si bloccò, ma l’uomo a ogni pausa ripeteva: «Vai avanti».

Allora l’ispettore si soffermò sulla lettera, su come ogni cosa girasse attorno a quel messaggio conservato in un vecchio libro che era stato venduto e ricomprato. Un foglietto di carta su cui erano state vergate poche righe dal contenuto ambiguo, una comunicazione che sembrava diversa da ciò che era in realtà, indirizzata da un esponente della criminalità organizzata a un magistrato caduto in disgrazia, tramite un ometto insignificante che lavorava come cancelliere in tribunale ed era straziato dal peso di una croce insostenibile.

Poi venne il momento della povera Ada, e del tiro beffardo che le aveva giocato il destino. Davide chiarì come nulla nell’esistenza della ragazza, che Fusco aveva scandagliato senza sosta, c’entrasse con la sua scomparsa. Ada era stata ammazzata perché aveva letto per errore, senza neppure comprenderlo, il messaggio di un criminale a un altro criminale.

Pardo sperò che la richiesta non arrivasse. E invece arrivò implacabile, senza che Fusco aprisse gli occhi, formulata in un tono piatto e incolore, come se fosse stata pronunciata nel sonno, cedendo a un incubo:

«Dimmi com’è successo, e non tralasciare nessun particolare. Devo sapere tutto».

Pardo tacque per qualche minuto, cercando la forza e il modo più giusto. Poi riferì le esatte parole di Pasquale Esposito, e svelò il segreto che aveva avvelenato la coscienza del cancelliere e la vita di Angelo.

Mentre ripeteva le frasi dell’infermiere, certo che fossero le ultime di Antonino Lombardo, capì di essere lui il postino adesso: stava recapitando al suo amico una lettera mai scritta, che avrebbe dovuto donargli la pace. Disse del motociclista e della corsa in macchina. Disse del pianto di Ada, dei singhiozzi che assomigliavano ai lamenti di un cucciolo. Disse della telefonata a “quelle persone”.

Disse tutto.

Quando si fermò, per diversi minuti non scorse alcuna reazione in Fusco. Era come se anche il torace sotto la vestaglia avesse smesso di sollevarsi e abbassarsi. Con immensa angoscia, Davide credette che fosse spirato durante il racconto, quasi che ascoltarlo fosse stato per lui l’ultimo l’epilogo di quella storia.

Poi una grossa lacrima gli scivolò lungo la guancia, e sparì sul collo raggrinzito.

Fusco mormorò:

«Grazie, amico mio. Grazie per tutto. Ma adesso vai».

In silenzio, l’ispettore Davide Pardo si alzò e uscì.