II

Il posto era lurido, più che sporco. Meno che una bettola infognata sotto un ponte, poco sopra il livello del canale che spandeva all’interno del locale i suoi miasmi di salmastro e putredine. Dalla finestra aperta si vedevano passare gondole in continuazione, e ogni tanto qualcuno si fermava per ritirare un vassoio con qualcosa di cucinato e una bottiglia di vino.

Dovevo ammettere che il cibo era di prim’ordine e così pure il vino, in quel postaccio bisunto frequentato da grassatori, puttane e gentaccia d’ogni risma. Pietro Mocenigo mi presentò Filippo Foscari, un altro individuo dall’aria equivoca almeno quanto lui; e proprio come lui, membro di spicco dell’alto patriziato veneto.

Foscari si aggirava sulla cinquantina; basso, tarchiato, con la faccia scura come un saraceno e un mezzo sorriso da canaglia che pareva volerti pagare da bere ma solo per poi pugnalarti alle spalle. Entrambi, per quanto mi riuscì di capire, appartenevano al corpo diplomatico ufficiale della Serenissima però bazzicavano altrettanto spesso e volentieri anche i canali ufficiosi.

«Quindi Ludovico il Moro ha inviato il suo… Diciamo “fratello” bastardo a reclutare artisti», disse Foscari.

«È così».

Non stavo rivelando un segreto: Lisandro portava con sé varie lettere d’incarico e contratti stipulati da Cicco Simonetta anni prima, che in molti avevano visto.

«Quali artisti?», fece Foscari.

Io non risposi. Allora Mocenigo accostò la sua faccia alla mia, guardandomi tra il burlesco e il minaccioso.

«Meglio se li faccio io quei nomi, vero? Ti senti meno a disagio?».

E cominciando dal nipote di Leon Battista Alberti, procedette con piglio molto sicuro a menzionare anche gli altri, compresi alcuni che io non avevo incontrato. Non dissi nulla, ma i miei occhi bassi e impacciati erano comunque una conferma.

«La combriccola di papa Pio II», disse Foscari. «Il “Cenacolo dei Silenti”».

E tornò a fissare su di me occhi da inquisitore.

«Dovara ha documenti con sé? Qualcosa di scritto avuto da Simonetta?», chiese poi.

«Forse», fu la mia risposta.

«Dicci la verità, fiorentino», m’incalzò Foscari. «Noi possiamo esserti molto utili, sai?»

«Le vostre intenzioni non mi sono per niente chiare», obiettai. «Mi avete sfamato e rifocillato, è vero. Ma dovrei tradire un amico per un piatto di zuppa e una brocca di vino?».

Foscari e Mocenigo si scambiarono un’occhiata eloquente, poi il primo allargò sull’altro quel suo particolare sorriso sardonico e un po’ efferato che ricordava la dentatura di un teschio. Mocenigo capì al volo, obbedì e passò all’attacco.

«Con quanta foga l’hai detta, quella parola! “Amico”… Ti sei preso una bella sbandata per Dovara, ammettilo! Non fare il vergognoso, con noi. Non abbiamo pregiudizi verso certe unioni; mica siamo preti! Tu sei perso per lui, anche se ti ha piantato in asso. Facciamo un patto, fiorentino: tu ci racconti cosa c’è scritto in quelle carte che Dovara porta con sé, e noi, in cambio, ti passeremo un’informazione piuttosto importante».

«Informazioni!», sbottai. «Che diavolo me ne faccio?!».

«Il tuo amico è diretto a Verona», sogghignò Mocenigo. «E con la notizia che noi possiamo darti, sarai in grado di riprendertelo, se proprio vuoi! Non guardarmi in quel modo, scemo! Hai capito benissimo quel che intendo: Dovara sarà alla tua mercé. Volente o nolente».

La posta in gioco era diventata così alta che mi sentivo disposto a tradire il sangue del mio sangue, in quel momento. Mi passai la lingua a inumidire le labbra, aride per la tensione. “E sia!”, mi dissi. Tentare il tutto per tutto.

«Cicco Simonetta mise un foglio nella tasca di Dovara, quando lo andò a trovare in prigione. Ma non era un documento. C’erano scritti soltanto i titoli di tre libri».

«Tre libri…», ripeté Foscari perplesso. Quando gli riferii di cosa si trattava, mi sembrò atrocemente deluso.

«Nient’altro?»

«Niente che io sappia», confessai.

Un allegro vociare alle nostre spalle interruppe la conversazione. Dalla finestra aperta sul canale, un garzone che passava in gondola si sporse per consegnare a Pietro Mocenigo una lettera dove spiccava un piccolo sigillo rosso. Messaggio informale, che tuttavia arrivava direttamente dai palazzi del potere. Mocenigo aprì la missiva, e il suo contenuto gli fece fiorire in faccia un caloroso sorriso di soddisfazione.

«Stasera offro io!», esclamò. «Il Doge mi assegna una carica delle maggiori. Quanto a te, fiorentino, voglio darti lo stesso quell’informazione che ti farà riacciuffare il tuo amico Dovara. Anche se quanto abbiamo saputo da te non ci serve proprio a niente».

«Lo farete davvero?».

«Certo».

«Perché?».

Non riuscivo a credere che gente di quel tipo, una razza piratesca abituata a mercanteggiare su tutto, potesse decidere di cedere gratis qualcosa di valore. Mocenigo lo capì, perciò mi mostrò la lettera che gli comunicava il prestigioso incarico appena ricevuto: la Milizia del Mare.

«Cosa t’avevo detto, fiorentino?», ridacchiò. «Il mare è in debito con te. Si vede che ha deciso di ricambiarti il favore!».