VI

Un attimo prima di quel fatale incontro, Cristoforo Numai sentiva un’insolita vibrazione correre lungo il palmo delle sue mani: era emozionato ben oltre ciò che si aspettava. E se ora davvero quell’ingegnere dalla dubbia fama gli avesse rivelato verità sconvolgenti sul destino dell’uomo? Poteva davvero tanto? Di lui il papa diceva cose straordinarie…

Durante la notte appena trascorsa, il cardinale aveva fatto uno strano sogno: mentre passeggiava nel fitto di un bosco, un animale stupendo era sfrecciato attraverso il sentiero, simile a un cervo dal vello interamente d’oro, e con un lungo corno d’ebano nel centro della fronte.

Sognare l’unicorno era senz’altro di buon auspicio. Ma come insegnano gli antichi bestiari scritti dai saggi, l’unicorno è una creatura dall’identità ambigua: significa purezza, moralità inflessibile, elezione spirituale, eppure il suo corno acuminato capace di sfondare la più invulnerabile delle corazze poteva trasformarsi in un temibile strumento di morte. Stava dunque per vivere un momento importante, essere testimone di un mistero del quale era pronto a farsi fedele latore, oppure, se necessario, custode silenzioso. Nei sogni infatti, benché in apparenza fumosi, allignano sempre una logica e una concretezza che travalicano l’irreale.

Il maggiordomo aprì la sala in cui Leonardo li aspettava. Sembrò al cardinale un labirinto di meraviglie: ingombra di tele, icone lignee, disegni a sanguigna inchiodati sul muro. E poi una quantità di sculture astruse, dal senso incomprensibile, disseminate ovunque. Accanto alla finestra c’era un vecchio ancora dritto, nonostante l’età, che guardava un calabrone posato sul vetro. Era talmente assorto da sembrare instupidito. Benché il maggiordomo avesse regolarmente annunciato i due illustri visitatori, il vegliardo non s’era mosso né si era voltato a guardarli. Il cardinale dette un muto cenno d’occhi a re Francesco, per chiedere se Leonardo fosse davvero in retti sensi. Il sovrano annuì: dava a intendere che era opportuno tacere fin quando il vecchio studioso non si fosse accorto di loro.

Non c’erano sedie né panche, ma solo un rozzo sgabello di rovere; per dovere di cortesia verso un uomo di Chiesa, Francesco I lo offrì al porporato e rimase in piedi.

«Vi siete mai chiesti perché vola?».

La domanda era scoccata improvvisa. Cristoforo Numai di nuovo fissò il sovrano chiedendo lumi: perché mai il vecchio aveva proferito quella frase incongrua?

Leonardo si voltò lentamente. Sorrideva.

«Voi lo sapete, eminentissimo padre?», gli chiese.

Era incredibilmente bianco, augusto, sereno. Dai suoi lineamenti rugosi trapelava un’impressione di forza giovanile, come se dentro la scorza fisica di un centenario si celasse in realtà un’energia immortale. Il carisma magnetico dello sguardo, poi, quello monopolizzava l’attenzione di chiunque si trovasse dinanzi a lui: se avesse dovuto raffigurarsi il Padreterno, ecco, l’eminentissimo Cristoforo Numai lo avrebbe immaginato con le fattezze di quel vecchio bellissimo. Un po’ intimidito, ragionò sulla domanda che gli era appena stata rivolta.

«Mi chiedete come mai i calabroni volano, ser Leonardo? Credo sia ovvio. Sono stati creati per volare. È l’Onnipotente che l’ha voluto».

Leonardo mostrò i denti candidi in uno stupendo sorriso da sfinge.

«Proprio ciò che intendevo, eminentissimo. Il calabrone dev’essere sede di un qualche prodigio misterioso. Secondo le leggi della natura, infatti, non può volare. Il suo corpo pesa troppo in rapporto alle ali».

Il porporato sgranò gli occhi sulla figura del vecchio che sembrava spassarsela un mondo, dietro quell’espressione sorniona. Ma cosa diceva?!

Francesco I s’intromise fra i due.

«Eminentissimo padre, non prendete per oro colato tutto ciò che il mio ospite dice: come ogni buon fiorentino, adora scherzare. E voi, ser Leonardo: un po’ di rispetto per la sacra porpora che avete davanti!».

Il vecchio ridacchiò, poi chinò la testa a chiedere venia.

«Sua maestà dice il vero. Sono invecchiato senza perdere il gusto per gli scherzi che appartiene ai bambini. Per quale circostanza sono onorato dalla visita di un principe della Chiesa?».

Il tono assai più umile rabbonì il cardinale, che porse di buon animo l’anello al bacio di Leonardo. Intanto, scrutava la stanza con occhi pieni di sospetto. Un oggetto rilucente e incongruo, data la forma, catturò la sua attenzione. Numai sfilò senza garbo la mano da quella rispettosa di Leonardo e raggiunse ciò che tanto lo incuriosiva.

«Cos’è?», chiese perplesso.

«Uno strumento musicale inventato da ser Leonardo, eminentissimo padre», rispose il re. «Si tratta di una viola a chiavi, però più piccola della misura ordinaria. Io lo chiamo “violino”».

Numai lo raccolse dalla mensola sulla quale era riposto, impugnò l’archetto, fatto anch’esso di argento massiccio; più lo guardava, meno poteva capacitarsi della bellezza racchiusa in quel piccolo gioiello.

«Vi sconsiglio di suonarlo, eminenza», disse prontamente il re.

«Perché? Non lo danneggio mica. Io ho talento per la musica!».

Subito tentò qualche accordo; nonostante il lodevole sforzo, ottenne soltanto suoni sgraziati e gracchianti.

«Ma è rotto!», esclamò delusissimo.

Re Francesco si voltò a Leonardo.

«Volete far sentire al cardinale la voce di quello strumento? So che non lo suonate da moltissimo tempo, anche se non avete mai voluto spiegarmene la ragione. Oggi però vi prego di fare un’eccezione. Ve lo chiedo come un favore personale. Quanto a voi, eminentissimo, vi avevo avvertito di non provare a suonarlo… Soltanto il nostro Leonardo è in grado di cavare melodie da quello stupendo mostro che scintilla!».

Il vecchio era molto scontento per la richiesta del sovrano, ma non poteva certo rifiutarsi di esaudire la preghiera di un uomo generoso cui doveva tutto. Imbracciò il violino, come re Francesco amava chiamarlo, e con forte stupore di Numai che aveva poggiato l’estremità della cassa armonica contro la propria spalla, infilò quella stessa parte tra la spalla e il mento, in modo da tenerlo ben stretto. Prese un respiro lungo, faticoso e struggente come il flusso dei ricordi che affluivano in lui per via di quel gesto: immagini lontane nel tempo, ma scritte a caratteri di fuoco nel suo cuore. Non appena cominciò a suonare, il volto del cardinale si trasfigurò in un’aura di beatitudine.

«Stupefacente!», gridò quando lo strumento tacque. «Voi dovete assolutamente rivelare il segreto di questo vostro… violino! Verrete a Roma con me, lo presenteremo al papa, sarà un trionfo dinanzi a tutta la Curia, e Sua Santità…».

La passione per la musica lo aveva travolto al punto da dimenticare quasi il vero motivo per cui aveva viaggiato più di mille miglia. La faccia rabbuiata di Leonardo, che non aveva alcuna intenzione di lasciare la Francia, lo riportò crudelmente alla realtà.

«Del vostro prodigioso violino parleremo in seguito», borbottò. «Ora veniamo al punto. Sua maestà sostiene che voi eravate in ascolto, benché in un’altra stanza. Se è vero, sapete perché mi trovo qui».

Lentamente, quasi volesse celebrare in ogni suo gesto un rito di nostalgia e rimpianto, il vecchio ripose lo strumento nella sua solita sede.

«Ho seguito ogni vostro discorso, in effetti. Mi ha colpito il modo in cui definite la mia attenzione per le questioni anatomiche. Avete detto “insana”».

«La trovate una definizione esagerata?»

«La trovo inesatta. Non si può formulare una teoria senza un congruo numero di esperienze».

«Tralasciamo la manìa per i cadaveri, ser Leonardo. C’è di peggio, a vostro carico. Il papa non ha gradito affatto la vostra partenza improvvisa. E meno ancora ha gradito il vostro rifiuto di consegnargli gli scritti che possedete. Specialmente uno», concluse in tono allusivo.

Leonardo annuì. Gli era chiaro quale fosse il libro che il papa chiedeva; lo bramava ardentemente e non si sarebbe dato pace fin quando non lo avesse ottenuto. Per fortuna, un amico fidato che abitava a Roma s’era preso la briga d’informarlo con discrezione. Quello che invece Leonardo non si aspettava, era che il papa avesse deciso di scomodare addirittura il legato apostolico.

«Posso capire», mormorò il vecchio. «Avrei consegnato volentieri quel raro testo nelle mani di Giovanni de’ Medici, credetemi. Lo ricordo come un ragazzino intelligente che giocava con i miei pennelli e pretendeva che gli insegnassi i trucchi del mestiere. Sfortunatamente, è salito sul trono di Pietro. Quando l’ho rivisto, anni dopo, era un uomo attorniato da preti fanatici carichi di tutti i sette vizi capitali. A cominciare dall’invidia».

«Fatemi capire, messere. Voi ritenete che i prelati della Curia siano troppo ottusi per afferrare le vostre teorie? Oppure è lo stesso papa, il Vicario di Cristo in terra, che risulta indegno della vostra dottrina?»

«Né l’una cosa né l’altra, reverendissimo. Intendo dire soltanto che non ho quel libro».

L’affermazione indispose Numai, che si fece rosso in volto.

«Vi prego, ser Leonardo», s’interpose il re. «La situazione è più grave di quanto immaginate. Ho ricevuto una lettera da Sua Santità. Il papa minaccia di scomunicarvi, se vi rifiutate di consegnare a lui quel testo. Che vi costa, in fondo? Siete avanti con gli anni. Prima o poi, Dio vi chiamerà a sé. Se quel trattato è davvero tanto prezioso, non troverete in ogni caso un custode più degno del papa! Il legato apostolico lo prenderà in consegna e lo rimetterà nelle mani del pontefice. Sarebbe il modo migliore per risolvere il problema…».

«Non ho quel libro, maestà», ribadì secco.

«Eppure Leone X non ha dubbi», disse il sovrano. E porse al vecchio la lettera segreta che lo riguardava.