Era proprio triste la vita a Villa Nivelli, era come se tutta la gioia e l’innocenza dei piccoli orfani venissero assorbite a poco a poco da quelle pareti alte e grigie che si stagliavano in una zona periferica della città, a margine della campagna.questo libro non ve lo ha comperato dasolo lo ha solo preso a me x farvelo pagare
C’era solo una giostra girevole arrugginita con cui giocare, ed era dunque scontato che venisse presa d’assalto dai diciotto piccoli orfani ospiti dell’istituto.
Spingersi sempre più velocemente era il loro modo per stordirsi in un entusiasmo ossessivo e strozzato. Come se quelle sei seggioline potessero staccarsi e portarli via da lì. Chiudevano gli occhi in quel moto circolare sperando che le cose, una volta fermi, si fossero trasformate. Invece, quando la giostra smetteva di cigolare e si arrestava, tutto era rimasto immobile. Uguale. Grigio.
Da quanto erano lì quei bambini? Da dove venivano? Non lo ricordavano più. Varcare la soglia di Villa Nivelli voleva dire cancellare il passato. E, cosa ancor più pericolosa, non poter mai più declinare il proprio tempo al futuro. Perché tra quelle mura non c’era cosa più remota e dolorosa che sognare.
Il suono della campanella coprì le voci e le grida dei piccoli orfani.
«Beppe, scendi subito da lì» tuonò suor Jolanda rivolta a un ragazzino dai capelli ricci e scuri. «Quando suona la campana non devo venirvi a chiamare. Sei un piccolo diavolo!»
La religiosa trascinò via il bambino per un orecchio perché lui non voleva spostarsi. I bambini guardavano la scena con la stessa espressione di sempre, era consuetudine che lui si opponesse agli ordini delle suore.
Interrotto bruscamente il gioco, per l’impeto delle spinte i piccoli barcollarono un poco prima di mettersi in fila, così com’era loro imposto per andare al refettorio. L’ordine. Davanti a tutto, sempre. Marciavano silenziosi con lo sguardo perso nel vuoto, sospinti dalla solita noia e dal rituale che non ammetteva imprevisti.
Eva e Anna, le gemelle, avanzavano una dietro l’altra, vicine e identiche come fiamme generate da un unico fuoco. Guai a separarle, a provare a entrare nei loro giochi e nel loro mondo fatto di sguardi, parole sussurrate all’orecchio e trecce lunghissime che ogni mattina, così come ogni sera, slegavano qualche istante per poi pettinarsi a vicenda.
Al riparo dagli sguardi severi delle suore, solo per poco scioglievano i capelli dalla morsa degli elastici consunti. Durante quei brevi momenti di libertà, i capelli rossi delle bambine ricadevano lungo le spalle e la schiena, come un’onda di istinti potenti e repressi. La carezza della spazzola, quello scambio reciproco di attenzione, era l’unico gesto d’amore che Eva e Anna nella loro breve vita avessero mai conosciuto.
Durava così poco l’amore?
Durante il giorno i loro capelli dovevano essere il più possibile discreti. All’orfanotrofio non era permesso nessun fiocco, nessun orpello che potesse esprimere la femminilità.
Anna sentì qualcuno tirarle delicatamente la treccia e una frase mormorata al suo orecchio: «Cosa ci toccherà stasera? La zuppa di cavolo o ancora quella con la carne? Tanto fanno schifo uguale».
Anna si voltò sorridendo e incrociò gli occhi scuri di Beppe, il capofila dei maschi, mentre Eva invece gli sussurrò arrabbiata: «Che fai? Lascia stare mia sorella!». Beppe, appena Eva si fu girata, scrollò le spalle e strizzò l’occhio ad Anna. Aveva dodici anni, uno più di loro, ed era l’unico ospite dell’orfanotrofio che provava a intromettersi nella cruna dell’ago: nella stretta, quasi inaccessibile intimità delle gemelle.
I bambini, sempre marciando in due file compatte, arrivarono nel refettorio, un enorme stanzone male illuminato che puzzava perennemente di cavolo bollito.
Maschi e femmine si sedettero a tavoli separati, seri e concentrati sul cibo, sempre lo stesso, annacquato e indigesto. In mezzo c’era il tavolo dove si accomodavano don Sandro, suor Alessia e suor Jolanda, ingentilito da una tovaglia bianca su cui sbiadivano le macchie rotonde e scure lasciate dalle caraffe di vino che si concedevano a cena. Non mangiavano le stesse cose degli orfani: al loro tavolo le inservienti portavano piatti fumanti di pastasciutta col sugo, o carne arrostita con contorno di verdure fresche.
«Gli adulti hanno bisogno di mangiare di più rispetto a voi bambini» diceva don Sandro con la sua voce potente, allenata da anni di prediche, guardando il piatto, ma era quasi una giustificazione con Dio.
Appena finito di mangiare, come foglie trascinate dal vento tutti gli orfani andavano in dormitorio. La cena era finita, ma a loro sembrava che non fosse mai iniziata, ridotta al minimo com’era. E pure il pranzo.
La pancia borbottava quasi a tutti, e quando accadeva non strappava neppure un sorriso.
I tre piani di Villa Nivelli, circondata da un parco, e con annessa una chiesetta e la casa del custode, erano tutto ciò che per anni, almeno fino alla maggiore età, gli orfani erano costretti a chiamare casa.
Al primo piano si trovavano la cucina e il refettorio; al secondo i due dormitori dei bambini, separati dalle stanze da letto delle suore. Al terzo piano abitava don Sandro. E infine c’era il piano interrato, con la sala medica e altre stanze in disuso.
Qualche mese prima un ragazzino con un angioma sulla guancia, che ai bambini ricordava una fragola sia per il colore che per la forma, aveva raccontato di aver sentito delle grida provenire da lì sotto. Era rimasto all’orfanotrofio per pochi giorni, poi era scomparso. Don Sandro aveva detto che sua madre era venuta a riprenderselo mentre tutti dormivano, ma nessuno ci aveva creduto, perché il bambino aveva rivelato agli altri orfani che sua madre era morta da poco, e che non aveva più nessuno al mondo. Un paio di notti anche Beppe aveva sentito dei rumori strani provenire dal sotterraneo, ma non aveva avuto il coraggio di andare a vedere. Si era detto che quell’urlo prolungato era solo un effetto distorto del vento. Dopotutto, l’orfanotrofio era un vecchio edificio, pieno di strani rumori e scricchiolii. E poi i fantasmi e i mostri esistevano solo nelle fiabe, ed erano anni che nessuno gliele raccontava più.
La villa – una costruzione massiccia di fine Ottocento – apparteneva ai discendenti della famiglia Nivelli che controllava, così si diceva, grossi affari in città. Si trattava di una famiglia un tempo numerosa, ora ridotta a una coppia di coniugi: Elvira Nivelli, che tutti chiamavano la Contessa più per gli abiti sfarzosi che sfoggiava nelle occasioni mondane che per effettivo titolo nobiliare, e suo marito, il dottor Antonio Bruni. L’orfanotrofio era stato dato in gestione a un ente religioso, ma due volte all’anno – solitamente a Natale e a Pasqua –, ben attenti a dare pubblicità alla cosa, i coniugi vi si recavano in visita insieme alle altre famiglie in vista della città.
Il dottor Bruni era sempre il primo a bussare al portone di legno. Sorrideva, stringeva l’enorme mano di don Sandro, si toglieva il cappello e faceva scivolare via dal braccio avvolto nella pelliccia della moglie il suo, molto più esile e nervoso. Chiedeva come stessero i bambini, lanciava veloci occhiate alle tavolate che nel frattempo venivano apparecchiate per il pranzo, elargiva complimenti per la disciplina e l’educazione dei ragazzi. Si rivolgeva agli amici o ai visitatori commentando con orgoglio la manutenzione del palazzo e ricordando che quei poveri orfanelli erano salvi grazie alla misericordia del suo compianto suocero, di don Sandro, suor Alessia e suor Jolanda.
«E naturalmente della mia straordinaria moglie, Elvira.»
Lei accoglieva il complimento sbattendo i tacchi degli stivaletti stringati sul pavimento di cotto, tirato a lucido per l’occasione. Non vedeva l’ora di andarsene di lì, quell’odore di cavolo bollito le si impregnava addosso ed era infastidita all’idea di portare di nuovo la pelliccia in lavanderia per togliere la puzza. Suo marito invece sembrava a proprio agio, ogni tanto si metteva addirittura a giocare con i bambini, a cui lei non riservava nemmeno un’occhiata.
Tranne una volta.
Si era accorta che il marito non toglieva gli occhi di dosso a due ragazzine, due gemelle dalla pelle bianchissima spruzzata di lentiggini e i capelli rosso fuoco.
«Cosa guardi?» lo aveva rimproverato. Lo stomaco per un attimo le si era stretto in una morsa. Non era la prima volta che il marito fissava così delle bambine, lo faceva anche la domenica durante la messa.
«Niente» aveva risposto lui imbarazzato, il sudore che gli imperlava il labbro superiore. «Solo che… hai notato che capelli? Non avevo mai visto quel colore… Dio, è magnifico!»
La signora Nivelli aveva serrato le labbra in una smorfia nervosa, poi era tornata a parlare con gli altri visitatori stampandosi in viso l’espressione compiaciuta di poco prima.
Quando la visita si era conclusa, Elvira si era rivolta benevolmente al marito: «Aspettami pure in macchina, io torno un attimo dentro perché mi sono dimenticata di chiedere a suor Alessia se i bambini hanno bisogno di altro materiale per le lezioni scolastiche».
Giunta al cospetto della suora, la afferrò per il braccio e, senza dare possibilità di replica, le ordinò: «Tagli i capelli a quelle due bambine. Sembrano figlie del demonio. E poi i pidocchi, come fate a non sapere che le rosse sono portatrici di pidocchi?».
«Oh Gesù e Maria, non lo sapevo. Non si preoccupi, signora, provvederemo.»