Capitolo tre

Il giorno successivo i bambini giocavano a mosca cieca nel giardinetto sul retro, polveroso e trascurato, e come sempre facevano la fila per salire sulla giostra. Anna ed Eva invece erano sedute sotto un albero, intente a raccontarsi i loro segreti, chiuse nel loro mondo privato. L’erba secca pungeva la pelle, ma loro non se ne curavano. Priscilla, l’ultima arrivata, se ne stava in disparte con Beppe. Aveva occhi spauriti e tondi nel volto pallido e magro, e piangeva spesso. Sua madre, rimasta vedova all’improvviso, non riusciva più a mantenere entrambe con il lavoro nei campi ed era stata costretta ad abbandonarla lì all’orfanotrofio.

«Ma don Sandro e suor Alessia sono come una specie di papà e mamma?» Priscilla chiese a Beppe, con il lembo di un lenzuolo logoro fra le mani.

«Ma sei matta?» la rimproverò lui, strappandole quel cencio dalle mani.

«Sei brutto, tu. In questo posto ci sono i buoni e i brutti. Tu sei brutto» disse a Beppe.

«Voglio proprio sapere chi sono questi tuoi buoni» urlò nuovamente Beppe. «Nessuno qui è buono. Entriamo buoni, usciamo diavoli. Hai capito? Diavoli, siamo tutti diavoli!»

Priscilla scoppiò in un pianto disperato. Beppe in quel momento faceva paura: aveva i lineamenti trasfigurati dalla rabbia. Gli altri orfani lo conoscevano, e sapevano che a volte perdeva la testa e spaccava tutto, perfino la croce di Gesù sopra il suo letto, e poi diventava taciturno, impenetrabile, per ore e perfino per giorni. Nemmeno gli schiaffi di suor Jolanda lo strappavano dal suo mutismo ostinato.

«Lasciala stare, lei è più piccola di te. Perché non te la prendi con me, invece?» Eva si parò di colpo davanti a Priscilla, guardando negli occhi Beppe con aria di sfida.

«Le rosse sono figlie del diavolo» disse lui indietreggiando e sventolando il lenzuolo come per proteggersi. Si sentiva a disagio con Eva: lei cercava sempre di provocarlo, di farlo arrabbiare. Tanto Anna era dolce e lo faceva sentire tranquillo, quanto la sorella gli trasmetteva una sensazione di pericolo.

«E chi l’ha detto?»

«Lo dice sempre don Sandro, e ieri ho sentito che ne parlava con suor Alessia.»

«Il tuo amico don Sandro farebbe meglio a pensare ai fatti suoi» rispose Eva.

«Prima o poi vi taglieranno i capelli. L’ha detto suor Alessia.»

«No!» strillò Anna, comparendo al fianco della sorella e stringendo fra le mani le sue lunghe trecce. «Noi non abbiamo mai tagliato i capelli.»

«Tranquilla, Annarella. Non permetterò mai a nessuno di tagliarteli» la rassicurò Eva in tono solenne.

«Don Sandro non è mio amico. E comunque volevo solo avvisarvi» sussurrò Beppe, voltandosi per raggiungere gli altri.

«No, tu volevi spaventare mia sorella. Sei cattivo. E noi invece non facciamo così con te.»

«Quando?»

«Quando te ne vai di notte» intervenne Anna. «Noi aspettiamo sempre di sentire i tuoi passi in corridoio per sapere che sei tornato a letto. Dopo possiamo dormire.»

Beppe si fermò stringendo i pugni. Sembrava pronto a picchiare qualcuno, poi tornò indietro e si rivolse ad Anna sorridendo.

«Annarella, dormi pure anche se mi senti uscire. Io di notte cammino nel giardino, mi fumo una sigaretta che rubo al custode, guardo la luna nel cielo. E mi sento bene.»

Anna e Eva annuirono scambiandosi un’occhiata. Sapevano che non era vero. Ma serviva a tutti crederci un po’.

Sprofondato in una poltrona dai rigidi braccioli, don Sandro fumava.

Il terzo piano della villa era a sua disposizione: accanto alla stretta stanza da letto c’era il suo grande studio, dove aveva sistemato i suoi 1280 volumi, di cui andava molto orgoglioso.

Si era rifugiato proprio lì per tenersi lontano dagli schiamazzi dei bambini e riflettere in pace, ma ora, schiacciato il mozzicone in un posacenere di marmo, si stava appisolando. Nel sogno alcuni bambini si rincorrevano, forse erano le grida che dal giardino salivano fin lì e disturbavano il suo sonno… ma poi le figure presero forma con più chiarezza: una donna rincorreva un bambino con un bastone, ed era sua madre, morta ormai da qualche anno.

Lo inseguiva, urlando alle sue spalle. E lui correva, correva per la casa, finendo poi fra le braccia dell’uomo che aveva preso il posto di suo padre. Era molto buono, Giacomo: asciugava le sue lacrime e lo accarezzava sempre.

Don Sandro si riscosse dal torpore, ebbe un sussulto e ripensò a quelle carezze, quando l’uomo lo toccava dolcemente per consolarlo. Alcune volte quelle carezze diventavano dolorose, ma Giacomo gli diceva che così era fatto l’amore, che si doveva avere il coraggio di soffrire un poco per l’altro, e che il loro legame era speciale, unico. Giacomo lo amava veramente, non come sua madre, una donna dura che gli aveva rovinato l’infanzia perché era gelosa del rapporto tra lui e il suo patrigno. E accecata dalla gelosia aveva voluto Giacomo tutto per sé, obbligando il piccolo Sandro a entrare in seminario per allontanarlo da Giacomo una volta per tutte, condannandolo così a una vita senza amore.

Quella notte Anna si rigirava tra le lenzuola rigide, non riusciva a prendere sonno. Così si alzò e scalza, senza far rumore, si infilò nel letto della sorella.

«Eva? Sei sveglia?» la scrollò con delicatezza.

«Mmh, che c’è, Anna?» rispose la gemella con la voce impastata di sonno.

«Non riesco a dormire.»

«E perché?» borbottò l’altra.

«Ho paura.»

«E di cosa?» chiese Eva, sforzandosi di svegliarsi. «Hai sentito dei rumori? Guarda che i fantasmi non esistono, quelle sul sotterraneo sono solo storielle inventate per spaventare i più piccoli, come Priscilla.»

«No, no, non è quello… ma ho il cuore che mi batte fortissimo, senti.»

Anna prese una mano della sorella e se la mise sul petto. Eva sentì il cuore della gemella che scalpitava impazzito.

«Anna, stai tranquilla, non c’è nulla di cui avere paura. Ci sono io con te. E ora lasciami dormire, che ho sonno» le disse, accarezzandole i capelli imbrigliati nelle trecce.

«E se tu vieni adottata e io no?»

«Questa cosa non succederà mai. Nessuno ci separerà. Noi staremo sempre insieme. Hai capito, Anna? Sempre. E nessuno ti farà mai del male.»

«Me lo prometti?» mormorò Anna.

Di colpo uno scalpiccio nel corridoio, e una sagoma si stagliò sulla porta del dormitorio. Era suor Jolanda, venuta a controllare che tutte le bambine dormissero. Una volta aveva scoperto che due bambine invece di essere nei loro letti erano scese a rubacchiare un tozzo di pane in cucina, e la punizione era stata terribile: la suora le aveva legate con delle catene ai termosifoni, come se fossero bestie feroci, e indifferente ai loro pianti disperati le aveva liberate soltanto dopo due giorni.

Gli orfani si chiedevano se fossero mai state bambine anche loro, così cattive, assoggettate al potere.

Suor Jolanda e suor Alessia toglievano a loro ciò che qualcuno aveva tolto loro da ragazze?

Anna, che sembrava avere una spiccata sensibilità nell’individuare la sofferenza nascosta nel cuore di ognuno, sembrava non tenersi nessun pensiero sigillato dentro la paura, a differenza degli altri, e aveva provato a chiedere che gioco facessero da bambine, se avessero mai posseduto una bambola.

Come se non si volesse arrendere all’idea che quelle due ancelle di don Sandro non erano affatto predisposte al dialogo familiare, ma erano il nemico a cui non consegnare la purezza.

Tuttavia le religiose, che solitamente avevano un ghigno teso sul viso come una cicatrice, si erano scambiate un’occhiata rassegnata, lasciando che le labbra si ammorbidissero e quasi tremassero per la fatica di essersi dischiuse. Come se fosse giunto il momento di fare i conti con il proprio passato avevano risposto, per la prima volta e forse anche l’ultima, con la voce quasi spezzata, senza alzare gli occhi dai vestiti cenciosi che stavano rammendando:

«Noi abbiamo avuto meno di voi. E alla vostra età non andavamo a scuola, ma a lavorare nelle campagne.»

«E non era bella la vostra campagna? La vostra famiglia?»

Ma a quel punto, come se il grembiule fosse un’armatura, se l’erano aggiustato, pronte a sferzare il duro colpo del silenzio. Avevano ristabilito la giusta distanza e con rigidità si erano allontanate, ognuna con i propri ricordi. Non erano più tornate nell’unico luogo dove a nessuno, in quell’orfanotrofio, era concesso dimorare, la famiglia, e quando accadeva ci voleva del tempo prima di riuscire a rientrare nel presente come se nulla fosse accaduto.

Anna si rannicchiò il più possibile vicino al corpo caldo della sorella, trattenne il respiro perché suor Jolanda non la sentisse e chiuse gli occhi. Solo quando la sagoma scomparve tornò a guardare Eva.

«Me lo prometti?» ripeté.

Ma la sorella si era già riaddormentata.

Cautamente, per non svegliarla, mise una mano sotto il cuscino e sfiorò i bordi della fotografia che ritraeva lei ed Eva da bambine insieme alle persone che le avevano cresciute. Era l’unico ricordo che avevano della loro infanzia, e tenevano quell’immagine a turno sotto il cuscino o nella tasca del grembiule. Non se ne separavano mai.

Anna, al buio, passò i polpastrelli sopra quella vecchia immagine e, come traendone conforto, piombò anche lei nel sonno.

Le parole di Beppe non tardarono ad avverarsi. Come se quel pugno non sferrato arrivasse dritto al bersaglio, con le sembianze di un enorme paio di forbici.

Fu suor Alessia a incrinare l’incantesimo fra Eva e Anna.

Varcò la soglia della camerata ben consapevole del timore che incuteva.

Tutti gli sguardi delle bambine puntarono sulle lame nelle sue mani, non avevano il coraggio di guardarla negli occhi per paura che sarebbe toccato a loro. Toccato cosa? Nessuno lo sapeva. Qualcuno pensò che la suora avrebbe tagliato loro un orecchio.

Il suono cadenzato delle sue pantofole nere che si trascinavano sul pavimento per poi risalire a sbattere di scatto sul tallone rimbombava nello stanzone disadorno e scalcinato, accelerando a ogni colpo il battito di quei piccoli cuori.

Con grande sollievo per tutte, suor Alessia si fermò davanti ai letti delle gemelle, e iniziò a battere le forbici sulla spalliera di ferro dalla vernice bianca tutta scrostata.

«Allora, chi vuol essere la prima?» ghignò la suora chinandosi su Eva e Anna, il crocifisso che le ondeggiava sul petto.

In un istante le gemelle furono in piedi e indietreggiarono verso il muro. E suor Alessia avanzava.

«Le rosse sono figlie del diavolo, meglio nascondere i segni del demonio. Altrimenti nessuno vi adotterà mai. È questo che volete?»

«Ma noi non siamo figlie del diavolo!» rispose Eva stringendo la mano di Anna, gelida e tremante.

«E invece sì. Avete portato la distruzione nella vostra casa, tutti i vostri parenti sono morti in circostanze misteriose… è colpa dell’impronta del diavolo che vi portate addosso. Ma ora Nostro Signore, che è infinitamente buono, vi offre l’occasione di purificarvi dai vostri peccati. Su, avvicinatevi e facciamola finita!»

Le due bambine urlavano, sempre più rannicchiate contro il muro, sotto gli sguardi terrorizzati di tutti gli altri, richiamati nel dormitorio femminile da tutto quel trambusto. Tra loro c’era anche Beppe. Paralizzato accanto a uno dei letti, stringeva i pugni così forte che dai palmi gocciolò del sangue. Una goccia rotonda come una moneta macchiò il cuscino, dove un lungo capello scuro si stagliava sulla federa grigiastra come un punto interrogativo.

Suor Alessia afferrò il braccio di Anna. Lei cercò di divincolarsi, di attaccarsi a sua sorella, che intanto si stringeva la testa fra le mani, scuotendola a destra e sinistra come impazzita.

La mano calda e sudata di suor Alessia si allargò all’infinito e Anna la sentì espandersi su tutto il suo corpo, come se lì confluissero tutte le sue terminazioni nervose, come un sole per un sistema di pianeti; divenne gigantesca come una porta: e Anna, fluttuante e inconsistente come aria, vi entrò.

Si ritrovò in una campagna assolata. Una bambina scorrazzava in lungo e in largo alle spalle di una donna con la schiena ricurva sul campo di grano. La donna si raddrizzò, si asciugò la fronte sudata con il polso e si rivolse a lei.

“T’agg’ solo chiesto di badare alla bestia. Una. Una sola. Manco questo sai fare. Non vedo l’ora di mandarti in collegio dalle suore.”

La bambina si fermò, fissò la donna negli occhi e le urlò che no, in collegio non ci voleva andare. Che voleva continuare a giocare.

La donna si guardò in giro, le disse di tacere, che stavano tutti lavorando, non perdendo tempo come lei. Ma la bambina continuò a correre dietro a una pecora, tentando di farle il solletico con una spiga e ridendo a crepapelle.

La donna, barcollando per le buche del terreno e tirandosi su il pesante gonnone di lanetta per non inciampare, arrotolandoselo sul braccio come se stesse cullando un neonato, le corse dietro e quando la raggiunse iniziò a picchiarla con tutta la forza che aveva in corpo. Lasciò la ragazzina a terra, sfinita dalle botte e in lacrime, mentre lei tornò alla sua postazione. Prima di riprendere a lavorare, si aggiustò il fazzoletto bianco sul capo, che si era allentato.

Poi tutto divenne nero.

Zac.

Anna, stordita dalla visione e dal taglio, cadde a terra senza più la treccia come una spiga falciata, come se fosse stato reciso tutto il suo corpo. E restò immobile con gli occhi vacui a guardare Eva, colpevole di non aver tenuto fede alla sua promessa di proteggerla.

Eva, mentre la suora incombeva su di lei, vide i lunghi capelli rossi di sua sorella, ancora annodati in quella treccia che sembrava un animale inerme sul pavimento.

E urlò, con tutta la forza di cui era capace.

Il pavimento sussultò e tremò, come per un terremoto improvviso. La luce del vecchio lampadario iniziò a sfarfallare, mentre le finestre della camerata si spalancarono e sbatterono come scosse da un vento impetuoso, mandando i vetri in frantumi. Entrò uno scroscio di pioggia violenta, che trasportò una scheggia sul viso di suor Alessia, colpendola proprio sotto l’occhio destro. Un rivolo di sangue le scese lungo la guancia come una lacrima.

Fu lei a indietreggiare, a quel punto. I bambini corsero agli angoli della stanza. Urlavano tutti, mentre i vetri continuavano ad andare in frantumi, uno dopo l’altro. Per ultimo esplose il lampadario, mandando schegge tutt’intorno.

Solo Eva era ammutolita, spaventata per la forza della sua rabbia, anche se sperava che tutti pensassero che fosse stato il maltempo a creare quel disastro. E che non incolpassero lei.

Le inservienti, accorse per soccorrere la suora ferita, cercarono di richiudere le finestre, ma furono respinte dalla forza indomabile della tempesta.

Beppe, che si era accovacciato a terra e si copriva la testa con le braccia, si rialzò in piedi e passando accanto a suor Alessia bisbigliò: «Mai mettersi contro una strega».