«Pensavate che la vostra cattiveria passasse inosservata?» Suor Alessia si rivolse ai bambini allineati nelle due solite file, in attesa di entrare in refettorio per la colazione.
Suor Alessia aveva trent’anni, ma il rancore era come un’iniezione di granito nelle sue vene; aveva prosciugato tutto in lei e la faceva sembrare molto più vecchia. I suoi grandi occhi azzurri erano ingannevoli: le conferivano un aspetto mite a cui i bambini all’inizio si affidavano, finché non venivano traditi. In realtà era crudele come la strega delle favole più spaventose. Eseguiva ottusamente gli ordini dei superiori, applicando gli stessi modi repressivi a cui lei era stata abituata.
«Sì, certo, speravate di passarla liscia, perché siete piccoli ma riuscite a essere grandi nella cattiveria. Lo sapete fino a che ora siamo state alzate per pulire il vostro disastro in giardino? E per di più avete sprecato il cibo. È un peccato che offende Dio. Oggi non mangerete, per tutto il giorno.»
A quelle parole gli orfani sbarrarono gli occhi. Avevano fame, sempre, e sapere fin dal mattino che sarebbero rimasti a digiuno per tutto il giorno scatenò la loro disperazione. Priscilla si mise a singhiozzare, e Anna ruppe la fila per andare a consolarla.
«Ferma! Giusto te volevo, figlia del demonio, che fai tanto la buona. Sei tu che hai bagnato il letto stanotte? O tu o tua sorella, chi delle due ha fatto la pipì a letto, eh? Vi ho visto, che avete dormito insieme stanotte.»
Suor Alessia si piegò sulle gemelle, sollevando Eva per i capelli e per un orecchio sua sorella. Eva aveva ancora le sue lunghe trecce e la presa fu facile. Anna ebbe l’impressione che l’orecchio le venisse strappato ma dalla sua bocca non uscì nemmeno un suono.
«Facciamo così: se non mi dite chi è stata vi mando tutte e due dal dottore, oggi è di sotto per le visite. Vediamo se così vi passa la voglia di fare le sporcaccione. Perché questo siete. Tutto il sudiciume che c’è qui è causa vostra. Nessuno vi adotterà mai e a noi toccherà tenervi qui, pulire il vostro schifo.»
«Lo giuro, lo giuro, non accadrà più!» urlò Eva.
«Allora sei stata tu? Vieni con me» le ordinò lasciando l’orecchio di Anna, che crollò sul pavimento, e trascinando con sé Eva per le trecce.
I bambini avevano appoggiato la schiena alla parete, alcuni si erano accucciati a terra, nel tentativo di occupare il minor spazio possibile, come sperassero di diventare invisibili.
«No!» Un grido improvviso lacerò il silenzio. Suor Alessia si voltò di scatto. «Lasciala stare, sono stata io. Quello è il mio letto. Sono stata io» disse Anna dopo settimane di assoluto silenzio.
«Ah, alla muta è tornata la voce. Allora il gatto non ti aveva mangiato la lingua» disse la suora con uno sguardo cattivo lasciando libera Eva, che corse a nascondersi in mezzo agli altri bambini.
Beppe la rimproverò: «Perché lasci che si prenda lei la colpa?».
«Non sono stata io a fare la pipì, è stata Anna!» Eva era ancora arrabbiata con la sorella, che da quando si erano svegliate non l’aveva degnata di un solo sguardo.
«Sei cattiva. Non ti meriti una sorella come lei!»
Ma suor Alessia nel frattempo aveva già afferrato Anna per un braccio e la stava trascinando al piano interrato. Non la condusse nello stanzino piccolo e angusto – gelido d’inverno e bollente d’estate – dove il dottor Vincenzo visitava i bambini, ma la portò in un’altra stanza in fondo al corridoio buio in cui Anna non era mai stata. La paura le bloccava il respiro, gli occhi angosciati le mangiavano il viso scarno, i capelli corti e arruffati la facevano somigliare a un uccellino caduto dal nido. Si aggrappò allo stipite con le mani, implorando suor Alessia di perdonarla, ma quella la spinse dentro con brutalità e si chiuse la porta alle spalle.
Anna si guardò intorno: la stanza era grande, la luce penetrava a fatica da una feritoia e la lampada tubolare sfarfallava, come per un contatto elettrico. Nell’angolo, sotto la statua di una Madonna posizionata in una nicchia del muro, c’era un lettino di ferro con delle cinghie che penzolavano. C’era anche una scrivania, e seduto su una poltrona in pelle c’era un uomo con un camice bianco che fumava e la osservava da dietro le lenti spesse degli occhiali.
Dopo averla studiata in silenzio per qualche secondo, l’uomo si alzò e le andò più vicino. Anna sentì il suo odore, un misto di tabacco, acqua di colonia e brillantina, e guardò i suoi occhi grigi. Per un istante sperò che non le facesse del male. Poi sentì risuonare una voce atona: «La leghi».
«Subito, dottore. La signora Nivelli si è raccomandata di farle una telefonata, dopo» disse suor Alessia, armeggiando con le cinghie.
Anna ora seguiva ogni gesto ma era paralizzata, il corpo non le apparteneva più, era come se osservasse tutta la scena, e se stessa, dall’esterno.
«Sì, dopo…» disse distrattamente il dottore.
«No, davvero dottore. Deve chiamarli. Vogliono sincerarsi che non accada più quello che è successo a… quel bambino. Sa, quello con la voglia sulla guancia…» azzardò suor Alessia.
«Incidenti di percorso» tagliò corto il dottore. «La scienza ha il dovere di sperimentare.»
«Certo, dottore» annuì servile la religiosa.
«I Bruni devono essere fieri di aver avviato un programma di ricerca nel loro istituto. Devono solo lasciarmi il tempo di avere i primi pazienti. E nel giro di un anno trasformeremo questo posto nel più importante ospedale psichiatrico infantile di tutto il Paese» disse il dottore con gli occhi scintillanti di eccitazione.
«Ah, guardi, di casi qua dentro ce ne sono tanti» rispose suor Alessia a bassa voce, adagiando nel frattempo Anna sul lettino, come se fosse una bambola di pezza.
Non vedendo tornare la suora, un gruppo di bambini era scappato giù per le scale e si era assiepato fuori dalla stanza. Con il volto rigato dalle lacrime, Eva stava seduta a terra abbracciandosi le ginocchia. Dalla stanza non uscivano suoni.
Era buio lì sotto, mancava l’aria e faceva caldo: la luce negli inferi non arriva mai.
«Ma perché siamo scesi? Se ci scoprono finiamo dentro anche noi!» sussurrò Mimmo, un ragazzino dallo sguardo sempre impaurito, cresciuto con il padre pastore morto cadendo in un crepaccio di Monte Pollino. E proprio per questo lui era terrorizzato che qualcuno si potesse fare male. Perché era rimasto ai bordi del burrone per ore, senza riuscire ad aiutare il padre o a chiamare i soccorsi.
«Vai via se non te la senti. Restate su, fifoni» disse Beppe girandosi indietro. Ma quelli lo seguirono ugualmente.
«Lì dentro c’è mia sorella, ed è tutta colpa mia. Sono stata io a fare la pipì» sussurrò Eva.
«Allora fermali. Perché fai punire lei se è colpa tua?» la strattonò Beppe.
La ragazzina allora si alzò in piedi, pronta a prendersi la responsabilità di ciò che era successo, ma prima che potesse dire o fare qualcosa un bagliore filtrò da sotto la porta della stanza degli orrori. Si udì un grido lungo, straziante, e poi di nuovo il buio. E il silenzio.
Eva cadde a terra, gli occhi rovesciati all’indietro. I bambini le si fecero intorno, la chiamavano, le stringevano la mano, la scuotevano. Ma Eva non era lì. Era con sua sorella, adesso. Sentiva tutto quello che provava Anna, erano due anime in uno stesso corpo.
Una lampadina nuda le oscillava sopra la testa mentre suor Alessia la legava al letto stringendo le cinghie ai polsi e alle caviglie, sottili come spilli.
Eva sentì il terrore invaderla. Vedeva quella luce oscillare sopra di lei e aveva l’impressione di non riuscire più a muoversi.
Anna aveva fame e sete e avrebbe voluto essere forte, più forte di quei lacci, più forte delle persone con lei in quella stanza, ma aveva solo gli occhi sgranati e imploranti, le ciglia incrostate dal sale delle lacrime. Se solo le avessero rivolto uno sguardo, lei ne era sicura, l’avrebbero liberata, perché i bambini sono delicati, fragili come i fiori che spuntano dopo l’inverno, e invece quelle persone le stavano facendo male, tanto male.
Il suo corpo fu attraversato da una scarica elettrica così forte da farla gridare di dolore e poi vomitare.
Eva, fuori, era scossa dalle convulsioni. Le braccia e le gambe erano in preda a incontrollabili spasmi.
Poi Anna si sentì come galleggiare in una bolla bianca, sentiva i rumori ovattati: le grida dei bambini che picchiavano sulla porta, qualcuno che nella stanza diceva: «È meglio lasciarla qui per adesso, non spostiamola. Poi la metteremo nella nuova camera degenti, sarà la prima paziente del reparto psichiatrico». Riconobbe la voce atona del medico con gli occhiali.
«È la paziente ideale, dottore. Ha sempre qualcosa che non va. Non parla, è malaticcia, e poi è incontinente, va allontanata dai bambini normali» disse suor Alessia, vagamente sollevata dal fatto che si sarebbe finalmente liberata di quello sguardo da cui si sentiva sempre rovistata, frugata.
«Questa nuova terapia la curerà. Domani le faremo un altro trattamento, e vedremo se ci sono miglioramenti.»
In quell’istante Anna rientrò in sé e spalancò gli occhi. Al di là della porta, aprì gli occhi anche Eva. Tornò nel corpo, lo armò di un ultimo anelito e disse a se stessa: Troppo dolore, troppo dolore, è meglio morire. Oppure vivi. Vivi e ammazzali tutti.
Anna strinse i pugni, le cinghie la tenevano imprigionata, la luce sopra la sua testa ondeggiava e ondeggiava. Fuori sentiva un grande caos. Alzò gli occhi alla statua della Madonna rivolgendole una preghiera silenziosa. “Salvami, Madonnina mia, ti prego…” Ma la Madonna non la ascoltò, e i suoi occhi di ceramica continuarono a fissare il vuoto. Galleggiò nel vuoto per un po’, sforzandosi di tenere a bada il dolore che sentiva in tutto il corpo.
La sua coscienza si accendeva e spegneva a ondate, come una marea. A un certo punto distinse un’ombra che incombeva sopra di lei. Si sforzò di aprire gli occhi.
«La terapia ha funzionato?» chiese la voce grave di don Sandro.
«È troppo presto per saperlo. Dobbiamo continuare il trattamento per vedere dei risultati» rispose il dottor Elettricista, seduto alla scrivania.
Don Sandro si chinò ancora di più su Anna.
«Anche con questi capelli corti, sei ancora una bella bambina, proprio una bella bambina» le disse accarezzandole la testa.
Un flash esplose nella testa di Anna. Vide un uomo adulto seduto su un letto in una stanza spoglia, con un catino di zinco sopra un treppiede in un angolo, e un bambino. Il bambino era inerte mentre l’adulto lo attirava a sé con una mano e con l’altra tentava di slacciargli i bottoni della camicia.
«Giacomo no, per favore…» mormorò Anna.
Il volto di don Sandro si fece terreo, le labbra divennero livide.
«Cosa hai detto?» sibilò. Il cuore gli pompava nel petto così forte che sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro.
«Giacomo… ti faceva del male» sillabò Anna a fatica.
«Figlia del demonio! Strega!» gridò don Sandro sconvolto, gli occhi dilatati. Poi si sforzò di riacquistare la calma e si rivolse al dottore: «La bambina sta delirando. Le dia qualcosa per farla stare zitta».
Il dottore le si avvicinò con una siringa, Anna sentì una fitta al braccio e poi piombò nel nero più profondo.