Beppe era accasciato contro la porta, gli occhi appesantiti da profonde occhiaie scure. Era così stanco che persino la testa poggiata sulle ginocchia gli pesava. Aveva trascorso le ultime tre notti nel piano interrato, arroventato in quel mese di luglio, seduto davanti alla porta della stanza in cui era stata rinchiusa Anna, e le aveva parlato tutto il tempo per cercare di distrarla.
«Anna!» sussurrava. «Lo so che mi senti. Sono io, Beppe! Sono qui per te, andrà tutto bene. Ti porterò via da questo posto! Mi senti? Ti porterò via! Te lo prometto!»
Silenzio.
E dopo un po’ riprendeva: «Oggi i baffi di suor Alessia erano più neri del solito, sai? Sembrava un maschio!».
A un certo punto aveva appoggiato la fronte sulla porta, cercando di non piangere.
«Sai una cosa che non ti ho mai detto?»
Silenzio.
«Assomigli un po’ alla mia mamma, anche se lei non aveva i capelli rossi come i tuoi…»
Beppe faticava a nominare la madre, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare l’amica.
Dall’altra parte, nel buio, Anna ascoltava immobile i suoi discorsi, legata mani e piedi al letto, incapace di parlare. Formulava nella testa tutte le parole che avrebbe voluto rivolgergli, ma non riusciva a emettere alcun suono.
Beppe continuò:
«… Era bella la mia mamma, e tanto buona, perché una mamma così bella non può essere cattiva, non può avermi abbandonato. Vero, Anna? Lo so che anche tu sei d’accordo con me.»
Silenzio.
«Sono sicuro che tornerà a prendermi prima o poi, e se vuoi porterà via anche te e tua sorella e staremo ancora insieme, staremo insieme per sempre! Ti ricresceranno i capelli, Anna. Anche se così stai benissimo lo stesso, io lo so che ti mancano i tuoi capelli lunghi, le tue trecce. Ma sai cosa ti dico? Ricresceranno più belli ancora. Anna, sei sveglia? Se non riesci a dormire ti canto la canzone che mi cantava sempre la mia mamma. Funziona.» E iniziò a cantare con la sua voce bassa e dolce.
Nia, Nia, Nia
sotte l’alebro ca rurmia
facia nu dolce suonne
de sveglià nun se pulita
tiri tiri tomme
nu panare de colombe
n’aute de amarene
a stu figlio voglie bene
tiri tiri tomme
nu panare de colombe
n’aute de cerase
a stu ninne da che nu vase
Na Na Na
quant’è belle stu figlio qua
la mamma ca lu tene
tutta quanta se accuntene
la mamma ca l’ha fatte
une ne tene e vale pe’ quatte
la mamma ne tene une
nun lu vole da’ a nisciune
la mamma lu tene care
camme ’na cascia de denare.
Una lacrima silenziosa le scese lungo il viso. Ma Beppe non poteva vederla.
Quella sera, nel refettorio, la ninna nanna gli risuonava ancora nelle orecchie, Beppe ne canticchiava a mezza bocca alcuni versi senza neanche accorgersene, tanto era esausto.
Fuori soffiava un vento freddo inusuale per la stagione, scrosci di pioggia violenti come schiaffi battevano su una finestra e poi su un’altra, come se uno spirito folle e straziato da un dolore cupo cercasse di aprirsi un varco per entrare nell’orfanotrofio. Le nuvole si erano infittite velocemente fino a oscurare il cielo e gli orfani si sentivano come uccellini in una gabbia su cui qualcuno aveva gettato un drappo nero per farli addormentare.
I bambini erano ordinatamente in fila e attendevano il momento in cui sarebbero arrivati davanti al pentolone fumante per essere serviti da suor Jolanda, che con lo stesso gesto automatico e sprezzante avrebbe riempito le scodelle senza preoccuparsi di macchiare le loro vesti logore o di schizzare con quel liquido bollente i loro visi ormai insensibili a ogni tipo di umiliazione. Uno a uno i bambini si trascinavano fino ai lunghi tavoli di legno e in silenzio, con lo sguardo chino sulle scodelle di latta, consumavano quella maleodorante brodaglia marrone in cui galleggiavano pochi spicchi di patata.
La porta cigolò, si aprì lentamente e comparve don Sandro. Tutti smisero di mangiare all’istante. Tommasino era così agitato che solo per un soffio riuscì a non rovesciare la scodella. Per fortuna, altrimenti sarebbe stato punito.
Consapevole e compiaciuto del timore che incuteva in quelle piccole creature indifese, il prete avanzò nel refettorio con passi solenni e si avvicinò lentamente al tavolo dei maschi, osservandoli uno a uno con il suo sguardo rapace.
Un cobra a una cena di ratti.
La sua sola presenza bastava ad agghiacciare le viscere di tutti quei bambini, che da qualche giorno avevano aggiunto alla lunga lista delle loro paure quella di essere mandati dal dottor Elettricista.
Don Sandro si fermò alle spalle di Beppe, si chinò su di lui appoggiandogli una mano umida sul collo e avvicinandosi al suo orecchio sussurrò: «Quando hai finito di mangiare vieni nel mio studio, ti devi confessare».
Come se quel cobra gli si fosse arrampicato lungo la schiena, il ragazzino si sentì percorrere da un brivido. Poi don Sandro si tirò su, lanciò un’occhiata intimidatoria a tutta la tavolata, quasi volesse assicurarsi che nessuno avesse l’audacia di guardarlo negli occhi, e uscì dal refettorio.
I bambini tornarono a respirare e ripresero i gesti interrotti; solo Beppe era rimasto immobile. Sapeva cosa lo aspettava, e una nausea improvvisa gli impedì di finire la zuppa.
«Cos’è, non ti piace? Il signorino preferirebbe ordinare altro?» lo schernì suor Alessia. Poi aggiunse, con tono glaciale: «Finisci la tua zuppa, Beppe, altrimenti nessuno di voi si alzerà da qui e sarete tutti puniti».
Beppe deglutì, riprese il cucchiaio e a fatica ingurgitò quello che rimaneva nella sua scodella. Il suo stomaco voleva vomitare tutto, ma il ragazzino si sforzò di tenere giù quella brodaglia. Non voleva mettere nei guai i suoi compagni. Quando finalmente sollevò la testa dalla scodella vuota, incrociò lo sguardo compassionevole di Eva e si sentì improvvisamente nudo e spaventato. Quegli occhi gli penetravano fin dentro l’anima, leggevano tutti i suoi segreti, i suoi ricordi. Turbato e pieno di vergogna tornò a fissare il piatto. Accadeva anche con Anna, solo che con lei non si sentiva giudicato.
Cosa voleva Eva da lui? Beppe si sentiva a disagio a stare davanti alla sorella sbagliata. Lui voleva bene ad Anna, era Anna che desiderava accanto a sé. Eva era troppo strana, sempre cupa e arrabbiata.
Negli ultimi giorni era addirittura peggiorata. Da quando Anna era stata rinchiusa al piano interrato, lei se ne stava quasi sempre a letto, senza unirsi ai giochi delle compagne. Sembrava assorta, rapita da qualche oscuro pensiero. Come un animale che si prepara alla muta.
Quando ebbero terminato di cenare, suor Alessia ordinò ai bambini di disporsi nelle due solite file disciplinate. Usciti dal refettorio, si avviarono tutti su per le scale verso il dormitorio. Ma Beppe fu fermato sulla soglia dalla voce di suor Alessia: «No, tu no. Non hai sentito don Sandro? Ti devi confessare. Chissà cos’hai combinato stavolta».
Mentre saliva mestamente le scale, Beppe ripensò alla sua prima confessione con don Sandro, all’epoca aveva solo cinque anni ed era appena arrivato all’orfanotrofio. Di quell’episodio ricordava poco, in realtà: il prete che lo fa sedere su una grossa poltrona di pelle, che si inginocchia di fronte a lui e gli sfila lentamente le scarpe logore, gli prende un piede nudo tra le mani portandoselo alle labbra… e poi solo bianco, una distesa di bianco a perdita d’occhio, come se tutti i libri che lo circondavano fossero spariti di colpo e quella poltrona fosse diventata una barca alla deriva in un mare lattiginoso in cui l’unico rumore era il fischio acuto e costante del vento.
Bussò piano alla porta dello studio, sperando contro ogni evidenza che non ci fosse nessuno per poter tornare al più presto dalla sua Anna. Magari don Sandro era sceso un attimo in chiesa, oppure era andato a parlare con il custode, oppure…
«Avanti!» rispose una voce dall’interno frantumando ogni sua fragile speranza, e Beppe entrò.
Lo studio era una stanza piuttosto grande, e lungo le pareti c’erano librerie cariche di volumi. Al centro un salottino composto da un tavolino basso, due poltrone in pelle scura e due poltroncine più piccole accanto a una radio a valvole in bachelite, che ogni tanto il prete accendeva durante i loro incontri perché nessuno li sentisse. Don Sandro era in piedi nella penombra accanto a una delle due poltrone e fece un gesto a Beppe, invitandolo a sedersi.
«In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, amen» dissero poi quasi all’unisono.
Il prete gli appoggiò una mano sulla spalla: «Parla figliolo, confessa i tuoi peccati».
«Non ho nessun peccato da confessare» rispose il ragazzino, tenendo lo sguardo basso.
«Ne hai appena commesso uno. Hai detto una bugia.»
«Io non dico bugie.»
«Il Signore vede tutto, sai? E ti ha visto giù nei sotterranei. I peccati sono già due, mio caro. Hai pensato ad Anna, e molto assiduamente per aver rischiato di andare fin laggiù. Atti impuri. E poi bugie. Hai detto un mucchio di bugie.»
Beppe trasalì. Da un lato voleva assecondarlo e ammettere quei peccati inesistenti perché tutto finisse il prima possibile; dall’altro, però, le menzogne di don Sandro rinvigorirono il suo odio, e il pensiero di Anna gli diede la forza di ribellarsi.
«La tua mamma ti ha abbandonato, Beppe, e non tornerà mai più a prenderti. L’unica persona che ti vuole bene e che non ti abbandonerà mai sono io. Me lo ha chiesto il Signore, sai? Prenditi cura di quel bambino, mi ha detto, amalo come un figlio perché è solo al mondo. Soprattutto adesso, adesso che…»
E fece una pausa sospirando, come se la notizia che gli stava per dare fosse un dolore anche per lui.
«Adesso che Anna non c’è più.»
Beppe sentì che tutto il sangue gli defluiva fino ai piedi, per poi risalire violentemente alla testa. Ebbe un capogiro, pensò che sarebbe svenuto, poi strinse i pugni per ritornare in sé.
Alzò lentamente il viso su don Sandro e piantò gli occhi sulla tonaca, sul crocifisso d’argento che il prete portava al collo. Non voleva guardarlo negli occhi, offrirgli in pasto il proprio dolore.
«Non è vero…» gli uscì in un soffio. «Anna è viva.»
E solo a pronunciare quel nome, quel nome intriso di tutto il suo amore e di tutte le speranze che avevano la luce bella di un futuro fuori da quell’inferno, gli occhi gli si riempirono di lacrime e il petto iniziò a fargli male come se il cuore gli si stesse spaccando.
«È vero, purtroppo» continuò il prete. «Era molto malata, e le cure non hanno funzionato. Lei era una bambina deboluccia… Ma non ti devi preoccupare, perché ci sono io a consolarti e a prendermi cura di te. E io sono forte. Come te.»
A Beppe sembrò che tutta la stanza iniziasse a girare, veloce, sempre più veloce.
La mano fredda di don Sandro sul suo collo interruppe di colpo quel turbinio. Come mai aveva osato fare, Beppe reagì d’impulso a quel contatto, scrollando la testa come per liberarsi di un insetto disgustoso.
Se non c’è più Anna, io non ho nessuno. Voglio andare da lei, tenerla per mano, non deve avere paura. E finalmente staremo insieme per sempre.
Una raffica di vento spalancò una delle finestre dello studio. La pioggia scrosciante si fece largo nella stanza. Beppe non ci pensò oltre. E si lanciò nel vuoto, fra le braccia di un miraggio.