Capitolo sette

“Oh, Beppe. Piccolo mio, senza di te resterò solo.”

Don Sandro non ebbe il coraggio di affacciarsi alla finestra, tornò alla poltrona e ci si lasciò cadere sopra. Con il peso dei suoi peccati, rimpianse di non essere più bambino, di non poter correre da Giacomo per farsi consolare. Ricacciò indietro a fatica i ricordi e si mise a pensare a come uscire da quella situazione.

Avrebbe detto che il ragazzo soffriva da tempo di gravi disturbi psichici, che lui aveva cercato in ogni modo di aiutarlo ma non c’era stato nulla da fare: il demonio aveva vinto. La polizia e la Curia non avrebbero avuto dubbi a credere a questa versione. Lui era uno stimato uomo di Chiesa, dalla reputazione impeccabile. Ma avrebbe tollerato a fatica il trambusto che quell’incidente avrebbe portato all’orfanotrofio. C’era il rischio, anche se remoto, che qualcuno ficcasse il naso dove non doveva. Per esempio, giù al piano interrato.

Oppure… oppure poteva nascondere il corpo e farlo sparire per sempre con la complicità di suor Alessia e suor Jolanda. D’altronde non era la prima volta che succedeva. C’era stato un altro incidente, in passato. Il macchinario del dottore aveva ancora qualche problema di messa a punto, e un ragazzino aveva reagito male al trattamento. Come si chiamava? Aveva quella strana macchia a forma di fragola sulla guancia, era così dolce, ogni volta che lo vedeva gli veniva voglia di mangiarlo di baci.

I suoi pensieri furono interrotti da grida scomposte e rumori provenienti dai piani di sotto, come di cose che cadevano e andavano in frantumi.

Cosa stava succedendo? Qualcuno aveva già scoperto ciò che era appena accaduto?

Stava per alzarsi dalla poltrona quando la porta si spalancò, sospinta da una colonna di fuoco che subito aggredì una delle librerie.

Le pagine avvamparono in un lampo accecante, la carta crepitava e il fuoco si propagava rapido, divorando con voracità un volume dopo l’altro.

Nel volgere di pochi secondi don Sandro si trovò circondato dalle fiamme, un girone infernale. Avvolto dal fumo acre, sentì appena le urla delle suore e dei bambini. Non cercò di scappare. Alzò gli occhi verso l’immagine della Madonna che teneva in braccio Gesù morente, si fece il segno della croce e sprofondò nella poltrona, pronto a raggiungere il suo Giacomo nel regno dei morti. Ma poco prima di morire si rese conto che nell’inferno che lo aspettava c’era soltanto tenebra, e in quel buio lui era solo.

Correndo tra le fiamme, Eva si spinse fino alla stanza in cui era tenuta prigioniera Anna. Dietro la porta chiusa, la bambina piangeva disperata legata al letto. «Sono qui, Anna, resisti, ti prego.»

Eva si aggrappò alla maniglia con tutto il suo peso, ma la porta era chiusa a chiave, non si muoveva di un millimetro. Diede due spallate rimbalzando indietro con violenza, poi si accasciò a terra, singhiozzando anche lei.

«Non possiamo morire così, non è giusto… non è giusto, hai capito, Dio?» Un urlo le salì dalle viscere, primordiale come quel fuoco che ardeva ormai ovunque, misterioso come quel latte che aveva nutrito lei e la sorella, sgorgando dalla pietra il giorno in cui erano nate. Eva era in ginocchio davanti alla porta, le mani strette a pugno, le lacrime le solcavano il viso, e urlava, urlava con tutta se stessa, urlava come una lupa a cui abbiano portato via i cuccioli. I muri del corridoio e il pavimento tremarono in una scossa violenta, tanto che dal soffitto cadde una pioggia di calcinacci, e la porta uscì dai cardini, mandando in pezzi la serratura. La porta finalmente si spalancò. Eva si lanciò dentro la stanza degli orrori. Le fiamme erano divampate anche lì, la scrivania del dottor Elettricista era uno scheletro carbonizzato. Eva agguantò le cinghie che tenevano Anna legata al lettino di ferro e quelle subito cedettero. Anna la guardava senza capire, senza riuscire a reagire.

«Forza, Anna, dobbiamo andarcene subito via da qui.»

La statua della Madonna si abbatté a terra, arsa dalle fiamme, e stava per attirare Eva nel suo rogo, ma lei scattò di lato e riuscì a non farsi colpire.

Prese Anna per mano e la spinse giù dal letto, trascinandola al piano di sopra. Anna la seguiva come un fantoccio, poi crollò a terra esausta a metà corridoio, proprio davanti allo scalone. L’uscita era ancora lontana.

«Anna, ti prego, qui sta cadendo tutto. Io non ti lascio, ma tu mi devi aiutare. Non voglio morire bruciata. Reagisci, forza!» la spronò, guardandola con amore e rabbia.

Anna sembrò risvegliarsi dal letargo. Guardò Villa Nivelli bruciare e portarsi via i suoi amici, inghiottendoli in morse di fiamme senza pietà. Il corrimano della grande scala che portava ai dormitori era una lancia incandescente. Anna fece un respiro profondo e si rialzò, attaccandosi al braccio della gemella. I piedi e le mani erano ancora intorpiditi dal formicolio, ma non c’era più tempo, dovevano scappare via da lì. Urlando dal dolore diede fondo a tutta la forza che aveva dimenticato di avere, e tenendosi per mano le due sorelle attraversarono l’atrio. Come se un manto invisibile le proteggesse, le gemelle non furono colpite dai calcinacci e dalle schegge delle vetrate esplose che come lame avevano attraversato il corpo di suor Jolanda, agonizzante in mezzo all’atrio, inchiodata al pavimento come a una croce.

«Suor Jolanda! È ancora viva, dobbiamo aiutarla!»

«È troppo tardi, Anna. Non ti girare, non guardare nessuno. Dobbiamo uscire subito, subito!»

Anna aveva il volto coperto di cenere, impastata alle lacrime: «Aspetta! Dov’è Beppe? Dobbiamo cercarlo! Non possiamo andarcene senza di lui».

«Non c’è tempo per nessuno, Anna. Pensa a noi. Pensa a te. Corri! Qui viene giù tutto!» E si diresse verso l’uscita, tenendo Anna per mano.

Ma Anna si liberò dalla presa, guardò Eva come se volesse imprimersi il suo viso nell’anima e tornò indietro, in mezzo alle fiamme.

Eva la perdette nel fumo.

Beppe, dove sei? Beppe, resisti, perché adesso siamo liberi. Dobbiamo andare a cercare la tua mamma e vivere insieme a lei, me lo hai promesso.

Mi cresceranno i capelli, e tu non dovrai più vergognarti per le cose brutte che ti fa fare don Sandro.

Giocheremo in un parco tutti i giorni, io pettinerò i tuoi riccioli ribelli e tu pettinerai la mia chioma lunga, vedremo la luce, mangeremo i fichi fino a farci venire mal di pancia.

Non mi lasciare, Beppe. Sei tu la mia famiglia.

Da “Il Giornale d’Italia”, 3 luglio 1970:

Tragedia a Villa Nivelli, prestigioso istituto di carità e vanto del territorio, che nella serata di ieri è stato completamente distrutto da un incendio, forse innescato dal forte temporale che ha funestato la zona e provocato numerosi danni. La polizia locale tende infatti a escludere la matrice dolosa e ritiene che l’incendio possa essere stato scatenato da un banale cortocircuito. Di Villa Nivelli rimane ben poco: tutto è stato arso dalle fiamme, tranne una giostrina girevole di metallo, unico ricordo dei giochi che allietavano l’infanzia dei piccoli, sfortunati ospiti della struttura.

Non si registra nessun superstite, tranne una bambina di undici anni di nome Eva, attualmente ricoverata all’ospedale di Potenza con un principio di soffocamento da fumo, già affidata dai servizi sociali alle cure amorevoli della famiglia Nivelli-Bruni, proprietaria dell’orfanotrofio gestito dal compianto don Sandro Pontini insieme a suor Alessia Gianti e suor Jolanda Privitera. Sotto shock i primi soccorritori, che si sono trovati davanti i cadaveri ustionati e martoriati dei poveri bambini, muri crollati, morte e desolazione.

La cittadinanza è in lutto. Resta appunto la giostra, simbolo di un istituto fiore all’occhiello del nostro Mezzogiorno migliore. Che si stringe oggi attorno alla famiglia Nivelli-Bruni, che nell’accogliere l’unica sopravvissuta di questa immane tragedia rinnova la generosità con cui aveva donato agli orfani un luogo dove trovare la protezione dalla solitudine dell’abbandono e il calore di una vera famiglia.