Capitolo otto

Sì, la signora Nivelli odiava Eva.

Era stata costretta a prenderla in casa per un ricatto morale. La ragazzina era l’unica sopravvissuta del terribile incendio che aveva distrutto l’istituto, una povera orfana che ora aveva perso anche l’ultimo affetto su cui potesse contare, la sorella gemella.

Accogliendola in casa sua, Elvira Nivelli si confermava agli occhi degli altri una donna caritatevole. La Contessa in realtà avrebbe voluto dei figli suoi, ma lei e Antonio non potevano averne.

I coniugi avevano deciso di adottarla anche per tenere a bada i suoi ricordi degli anni trascorsi a Villa Nivelli: sorvegliandola quotidianamente avrebbero limitato i danni che la sua testimonianza avrebbe potuto causare. Sarebbe stato uno scandalo, altrimenti.

Per tentare di cancellare i suoi ricordi, un paio di volte al mese la portavano nello studio di quell’uomo che all’orfanotrofio era conosciuto come “dottor Elettricista”, anche se sulla targhetta della sua porta c’era scritto “Dottor Alfonso Candiani, medico chirurgo”. Quell’uomo la faceva stendere sul lettino, le metteva degli elettrodi sulla testa e poi il corpo di Eva veniva scosso dalle convulsioni. La bambina, una volta finito tutto, aveva la sensazione che una coltre grigia, simile alla nebbia, le avesse invaso la mente. Ci volevano giorni prima che quella nebbia si dissipasse e i suoi pensieri tornassero chiari e lucidi.

Come se non bastasse, ogni mattina a colazione Elvira e Antonio le davano certe pasticche grandi e amare che la facevano sentire confusa e stordita. «Prendile, Eva, sono vitamine» diceva Elvira. Ogni tanto provavano a farle delle domande sull’orfanotrofio e sulla sera dell’incendio, ma Eva rispondeva sempre che non si ricordava nulla. I Bruni allora tiravano un sospiro di sollievo, il trattamento del dottore funzionava. Era essenziale che la bambina parlasse il meno possibile del suo passato.

Dopo l’incendio infatti erano iniziate a circolare voci su ciò che gli orfani subivano all’istituto. Ma erano dicerie non confermate, che avrebbero finito per essere archiviate come pettegolezzi.

Tra i resti dell’incendio erano stati ritrovati strani macchinari carbonizzati, primo tra tutti l’apparecchio per l’elettroshock, la cui presenza non fu facile da giustificare. E poi catene di metallo risparmiate dalle fiamme, legate alle testiere di alcuni letti. Ma nessun inchiesta venne ufficialmente avviata: i Bruni avevano amici potenti, nelle forze dell’ordine e anche tra i giornalisti, e così la notizia si sgonfiò ben presto. Anche perché nessuno venne a reclamare giustizia: a chi mai poteva importare di quei piccoli orfani?

Eva fu al centro dell’attenzione mediatica solo nei giorni successivi all’incendio: i giornalisti volevano parlare con lei, strapparle una dichiarazione commovente che facesse impennare la tiratura, ma Elvira non permise a nessuno di avvicinarsi alla bambina e durante i funerali solenni, a cui partecipò anche il sindaco, si chiuse in casa, con tutte le imposte serrate. «La bambina è ancora sotto shock, ha bisogno di tempo per riprendersi» diceva a tutti. La gente della città ammirò la sua capacità di proteggere la piccola, e in breve tempo nuove tragedie riempirono le pagine dei giornali, fino a che quello che era accaduto a Villa Nivelli divenne nella memoria di tutti un ricordo lontano.

Eva trascorse i suoi primi anni in casa Bruni sotto gli sguardi attenti di Elvira e Antonio: la controllavano costantemente, ma lei non diede mai alcun problema.

Scivolava nei lunghi corridoi con le pattine, e aveva imparato a rendersi invisibile agli occhi dei tanti ospiti che frequentavano la casa. Era come un fantasma.

Ma nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza non si poté più nascondere.

Quando entrava in una stanza, l’atmosfera cambiava. Aveva un magnetismo e un’intensità che non lasciavano nessuno indifferente. Catalizzava immediatamente tutti gli sguardi su di lei, come spilli attratti da un magnete. In particolare il dottor Bruni per lei provava ancora un’ambigua attrazione, che non era mai sfuggita alla moglie fin dai tempi in cui si trovava con sua sorella nell’orfanotrofio. Un motivo in più per odiare quella ragazzina.

Tra le mura di quella casa sontuosa, la matrigna e l’orfana di una fiaba dei fratelli Grimm prendevano vita. Eva si lasciava vestire, pettinare, educare, così come disponeva la signora. Elvira la portava dal parrucchiere una volta al mese per aggiustarle i capelli in un taglio poco sotto le orecchie che Eva detestava, ma sapeva di non potersi opporre. Come non si poteva opporre alle camicie, ai maglioni e alle gonne lunghe, abiti sempre neri o grigi, che la Contessa sceglieva per lei. Erano fatti delle migliori stoffe, i tessuti erano morbidi e caldi, ma sembrava che Elvira sbagliasse sempre le taglie: quei vestiti le cadevano addosso larghi, nascondendole il corpo e facendola sentire goffa.

E negli anni trascorsi in quella casa, mai, mai ricevette una carezza da quella donna, che al massimo le si rivolgeva con la sufficienza che avrebbe riservato a un soprammobile costoso e inutile. Come il nuovissimo televisore in legno laccato di bianco, che Antonio aveva comprato per godersi al meglio Il buono e il cattivo, in onda sul Secondo Programma.

Era vero per metà ciò che Eva diceva quando la interrogavano: della sera dell’incendio, in realtà, non voleva ricordare nulla. Quando cercava di tornare a Villa Nivelli con la mente, di visualizzare un dettaglio che l’aiutasse a ricostruire l’accaduto, le tempie iniziavano a pulsare finché non lasciava perdere.

Era sola, senza risposte, nel deserto della mancanza di Anna. Quando il dolore si faceva così forte da mozzarle il respiro, tirava fuori da sotto il cuscino la fotografia con la quale era entrata all’orfanotrofio. Il giorno dell’incendio per fortuna la portava con sé in tasca, e l’aveva risparmiata dalle fiamme. Passava ore intere a osservare quelle due bambine vestite di bianco: le altre persone ritratte non le interessavano, aveva pochissimi ricordi di loro. Ma non avrebbe mai potuto dimenticare Anna.

La mattina veniva seguita da un precettore: i Bruni non volevano mandarla alla scuola pubblica, col rischio che facesse amicizia con qualcuno e si facesse scappare qualche dettaglio su ciò che succedeva all’orfanotrofio. Il suo insegnante era un ex professore di liceo ormai anziano, poco avvezzo a stare coi bambini, che spiegava le lezioni con una voce così monocorde che Eva faceva fatica a non addormentarsi sulla scrivania.

Trascorreva quello che restava della sua giornata in camera a leggere i pochi romanzi che Elvira le prendeva dalla libreria – senza azzeccare mai il genere perché non sapeva quali fossero le letture più adatte a una bambina –, o in cucina insieme alla domestica Tina, l’unica in quella casa che la trattava con una gentilezza un po’ ruvida ma che riusciva a strapparle qualche sorriso. Tina però era gravata dai lavori di casa, e aveva poco tempo da dedicarle.

Quando Antonio Bruni rientrava dal lavoro, era forzatamente galante con la moglie. Come se dovesse rassicurarla. Con Eva, davanti a Elvira che non li lasciava mai soli nemmeno per un attimo, era freddo e scostante. Ma quando per sbaglio incrociava il suo sguardo sentiva come se lei potesse leggergli dentro, e subito distoglieva gli occhi, vergognandosi dei tanti segreti che teneva sepolti dentro di sé.

Elvira e Antonio solitamente parlavano poco tra loro, diventavano loquaci solo nelle occasioni sociali: merende, pranzi e cene la cui organizzazione assorbiva gran parte delle giornate della Contessa.

Diversamente, c’erano gli strani incontri del giovedì sera che si svolgevano, sempre a porte chiuse, nel salotto e a cui partecipavano più o meno sempre le stesse persone, in un numero mai superiore a cinque o sei. A volte cambiava qualche ospite, ma c’era una presenza costante: una vecchia signora che indossava sempre eleganti abiti neri di pizzo e degli occhialini dalle lenti tonde e scure.

Una sera, dopo che si furono chiusi nel salotto come di consueto, Eva chiese a Tina chi fosse quella signora. Prima di risponderle, Tina la tirò gentilmente per un braccio portandola in cucina, e dopo essersi guardata intorno per accertarsi che nessuno potesse sentirla le sussurrò: «Dicono che quella parla con i morti!».

A quelle parole, Eva pensò immediatamente a sua sorella.

Le capitava spesso di sognarla, e la vedeva sempre avvolta dalle fiamme. Poi il fuoco si spegneva di colpo e il suo corpo fluttuava incosciente nell’oscurità illuminata solo da un debole fascio di luce. Eva la chiamava, ma Anna si allontanava sempre di più, come se un essere invisibile la portasse via, verso un luogo remoto e irraggiungibile. Da quei sogni Eva si svegliava sudata e col cuore in gola, la mancanza della gemella era uno strazio intollerabile.

«A me fa paura» proseguì Tina interrompendo il filo dei suoi pensieri. «Adesso ti do un po’ di latte e cacao e poi fila a dormire, bambina, che la signora non vuole nessuno in giro quando c’è quella.»

Eva salì la grande scala in legno sotto lo sguardo attento della domestica, imboccò il corridoio e arrivò davanti alla sua stanza. Quando fu sicura che Tina fosse tornata in cucina a riordinare, aprì la porta e la richiuse con forza senza entrare, quindi rimase in attesa nel buio del pianerottolo. Quando sentì Tina ritirarsi nella sua camera al pianterreno, si tolse le scarpe e ridiscese le scale con passo leggero.

Giunta davanti alla porta del salotto, la fissò per qualche istante non sapendo bene cosa fare. Poi si decise, la aprì lentamente ed entrò nell’anticamera, che era immersa nell’oscurità.

A tentoni e facendosi largo tra i cappotti arrivò davanti all’altra porta e con cautela aprì uno spiraglio per sbirciare dentro. Sette persone, tra cui la vecchia signora in nero e i coniugi Bruni, erano sedute attorno al tavolo tondo di ciliegio e formavano una catena con le mani.

Un uomo con i baffetti ingialliti dal tabacco stava dicendo: «Laura, mia moglie si chiamava Laura…».

La vecchia signora pronunciò con voce stranamente potente una formula in una lingua che Eva non conosceva. «Laura, Laura mi senti?» disse poi con gli occhi chiusi, disegnando con la testa dei piccoli cerchi nell’aria. «Laura! Dammi un segno della tua presenza!»

Poi ebbe un sussulto e alzando il mento disse: «Eccola, la sento, è qui!».

«Dov’è? Dov’è?» disse l’uomo con il labbro che gli tremava.

«È proprio accanto a te, alla tua destra, e ti tiene una mano sulla spalla.»

L’uomo sgranò gli occhi incredulo. Voltò piano la testa a guardarsi la spalla, con un’espressione di desiderio misto a terrore.

Fu a quel punto che la porta si spalancò di colpo. L’uomo balzò sulla sedia come se fosse esplosa una bomba, portandosi una mano al cuore. Ma invece della trapassata coniuge nella stanza apparve Eva, in tutta la sfrontatezza dei suoi quattordici anni.

Non degnò di uno sguardo i presenti, che la fissavano attoniti, e puntò gli occhi sulla vecchia signora: «Voglio parlare con mia sorella».

Senza interrompere la catena formata dalle mani, Elvira Nivelli sibilò, gonfia di astio come un ragno velenoso: «Eva! Chi ti ha dato il permesso di entrare? Maledetta ragazzina! Torna subito in camera tua!».

Senza scomporsi minimamente Eva non distolse gli occhi dalla vecchia signora e ripeté, ancora più decisa: «Voglio parlare con mia sorella».

Poi appoggiò le sue mani su quelle della vecchia.

Dentro di sé sapeva che sua sorella non era morta. Erano gemelle, lo sentiva.

Ma voleva una conferma per poterla ritrovare.

Una scossa elettrica attraversò quella catena umana e la finestra che dava sul giardino si spalancò. I vetri esplosero e grida infantili presero a rimbalzare tra le pareti della stanza come biglie impazzite.

La lampada nell’angolo iniziò a sfrigolare e nell’oscurità intermittente apparvero i volti degli orfani bruciati dalle fiamme. Tommasino, Priscilla, Mimmo.

Come fossero seduti sulla loro amata giostrina, i volti dei bambini iniziarono a girare intorno al tavolo sempre più veloci, sovrapponendosi incorporei e urlanti alle facce terrorizzate dei presenti.

«Dov’è mia sorella?» chiese Eva come se la cercasse fra quei volti.

Poi staccò le mani di colpo e tutte quelle piccole anime si riversarono in lei, facendola crollare a terra svenuta.

Dopo averci tanto provato, ecco, finalmente è tornata. È a Villa Nivelli, ed è la sera del 2 luglio. Distesa a occhi aperti sulla branda scomoda, Eva aspetta di sentire in corridoio i passi strascicati di Beppe, di ritorno dalla visita a don Sandro. In mezzo alle grida del vento, percepisce un tonfo sordo, come di qualcosa che cade da una grande altezza. Non sa perché, ma quel suono le fa accelerare i battiti del cuore, un sudore freddo le affiora alla fronte, la nausea si impadronisce di lei. Per qualche minuto non succede nulla, poi sente le voci di suor Alessia e suor Jolanda che confabulano in corridoio, e suor Jolanda che piange.

Eva si alza ed esce, va verso le scale, vuole salire nello studio di don Sandro.

«Ferma! Vieni qui, tu, nessuno si muove dal letto.» Suor Alessia le è addosso e la prende per il braccio.

«Dov’è Beppe?»

«Non sono affari tuoi, torna immediatamente a letto.»

«Voglio sapere dov’è Beppe, vado a cercarlo.» Eva cerca di liberarsi dalla stretta, ma suor Alessia le stringe il polso più forte e con l’altra mano le afferra le trecce, la spinge a terra: «Ho detto ferma!».

Eva, in ginocchio sul pavimento, alza lo sguardo su di lei.

La fissa, e un formicolio invade la testa della suora, proprio nel punto in cui l’attaccatura dei capelli esce scomposta dal velo. La religiosa allenta la presa per toccarsi e una vampa di calore le esplode sul viso. Non sente più nulla. Non vede più niente. Indietreggia urlando, invocando aiuto, ma scompare divorata dalle fiamme. Eva guarda quel corpo diventato un tizzone ardente. Chiude gli occhi.

È stata lei a dare origine all’incendio.

Lei aveva ucciso suor Alessia.

Lei sapeva come distruggere, ma non come salvare. Non poteva fare nulla mentre il fuoco divorava le tende, i mobili, la carta da parati. Tutto veniva giù come briciole sul pavimento incandescente. Non provò sollievo, non provò nulla. Se non quando sentì le grida dei bambini e realizzò che stava distruggendo anche quelle piccole anime, innocenti come lei.

Eva spalancò gli occhi. Era nel suo letto, ma percepiva qualcosa di diverso. Sentiva un odore acido di medicine. La testa le girava, le gambe sembravano un macigno. Provò a mettersi seduta, ma qualcosa inchiodava il suo corpo al materasso.

«Ti sei svegliata finalmente. Sono due giorni che dormi» le disse brusca un’infermiera aprendo la porta e uscendo subito dopo.

Elvira Nivelli arrivò dopo qualche minuto, avvolta nella sua vestaglia di seta rossa. Appoggiò sul comodino una tazza fumante e con calma chiese all’infermiera di lasciarle sole. Poi si sedette sul letto, alla giusta distanza, con poca disinvoltura.

Non era mai stata al capezzale di nessuno figuriamoci del pericolo. Eva non le staccava gli occhi di dosso. Era prigioniera in quel letto.

Elvira era sedotta dal male e dalle infinite declinazioni che quella ragazzina poteva offrirle. Ma nello stesso tempo la temeva. E in bilico fra quelle sensazioni decise di studiarla e di provare a domarla.

«Hai avuto una crisi epilettica. Ti dobbiamo tenere qui, sedata, per curarti. Per capire che cos’hai.»

Eva era pallida, magrissima, sotto le coperte il suo corpo era un ramoscello pronto a spezzarsi. Eppure lo sguardo che rivolse a Elvira fece sobbalzare la donna e la voce con cui le parlò non aveva più nulla di infantile. Era una voce decisa, profonda, conteneva l’eternità della roccia, e aveva la sua stessa durezza. Eva ormai sapeva la verità, non sarebbe mai più stata una semplice bambina. Ammesso che lo fosse mai stata davvero.

«Puoi farmi ciò che vuoi. Ma tanto i miei amici adesso sono qui con noi e non ci lasceranno mai.»

La signora Nivelli sbarrò gli occhi, indietreggiò inciampando fino alla porta e chiamò il marito gridando.

Poi si rivolse all’infermiera.

«Raddoppiate le dosi.»

Infine la guardò sorridendo. Se proprio non poteva sopraffare quel pericolo, doveva sfruttarlo.