Capitolo dieci

Zio Michele era un uomo complesso, sfuggente. Caustico con i potenti, ma anche protettivo e generoso con la povera gente. Le donne si innamoravano perdutamente di lui, come se fossero vittime di un incantesimo, e alcune si straziavano dopo che lui le abbandonava. Anna aveva dovuto imparare a preparare per loro un filtro capace di liberarle dalla morsa di quell’amore non corrisposto.

La verità era che nel cuore di zio Michele non c’era spazio per un nuovo amore. Non era mai stato padre e neppure marito, ma quella ragazza che aveva salvato quando era ancora una bambina possedeva un dono che per lui era più importante persino dei suoi poteri magici. Gli aveva insegnato ad amare.

La loro vita insieme era scandita dall’abitudine: non solo la cura della casa e dell’orto, ma soprattutto la cura delle anime. Le persone bisognose di aiuto venivano da tutto il Sud Italia, richiamate dalla fama dell’uomo dei miracoli e della ragazza misteriosa che viveva con lui.

Le uniche pause che Anna si concedeva dal “lavoro” erano dedicate alle passeggiate nel paesino arroccato di Pietrapertosa. Era il momento in cui si ricaricava, lontana da tutti i disperati che affollavano la cascina. Era come se quelle pietre inanimate la cullassero, si prendessero cura di lei, fra i labirinti che si dipanavano fuori dalle abitazioni. Percorrere quelle stradine tra le case le dava l’impressione di immergersi nella vita normale, che a lei era sempre stata preclusa. Abitare lì l’avrebbe fatta sentire meno isolata, rispetto alla cascina di zio Michele circondata da boschi e solitudine. Le sarebbe piaciuto andare ad abitare in una casa come quella delle comari.

In quella cerimonia tutta sua, quando non si voleva fermare con loro a chiacchierare, Anna si sedeva su uno dei picchi a oltre mille metri, tra le braccia delle Dolomiti lucane, sospesa tra le pietre e il cielo. Seduta su una sella rocciosa, le sue gambe penzolavano nel vuoto, e lei si toglieva il turbante dalla testa, per godersi la carezza del vento. Quello era il punto più alto della terra, una specie di confine immaginario che la separava dalle sue mansioni quotidiane.

Da quella posizione guardava i panni stesi sui fili, tra le finestre delle case scavate in mezzo alle rocce. Seguiva con gli occhi l’ondeggiare pigro di lenzuola, tovaglie, pantaloni dei contadini, della biancheria immacolata delle donne di casa.

Ogni tanto una mano femminile si sporgeva dalla finestra per ritirarli in casa. La voce di un bimbo irritato richiamava l’attenzione della madre, e la mano si muoveva più in fretta.

Il filo restava vuoto, una comoda altalena per gli uccelli che volevano riposarsi.

Anna col dito, come d’abitudine quando voleva vedere oltre le cose, tracciava i profili delle abitazioni e delle montagne e si chiedeva se un giorno avrebbe posseduto anche lei una casa normale. Se sarebbe mai diventata qualcosa di diverso dalla masciara figliastra di zio Michele, la guaritrice.

Per quanto volesse restare sola, sentiva sempre i passi di Alice avvicinarsi. Era l’unica ammessa in quel rituale di solitudine. E comunque non avrebbe potuto fare altrimenti, la bestiola non l’avrebbe mai lasciata sola. Sembrava una sentinella mandata da qualcuno a proteggerla, pronta a ringhiare semmai si fosse avvicinato un pericolo.

In quei momenti tutti per lei a Pietrapertosa rifletteva sulla sua vita. Lei era ormai un’esperta di fascinazione, tuttavia ne era anche annoiata. Fare del bene scalda l’anima, se credi davvero di alleviare dei traumi. Ma in quegli anni si era accorta che la maggior parte delle persone era vittima della superstizione.

«Quando non hanno niente, di’ loro che hanno la fascinazione» le spiegava zio Michele.

«Ma non è una bugia?»

«Scommetti che si sentono meglio? Prima del corpo è la mente che ha bisogno di cure.»

Non c’era nessun malocchio nelle loro vite, ma quella menzogna effettivamente li acquietava.

«Sono ammaliata?»

«Sì, lo sei» diceva Anna, poi faceva il segno della croce con l’indice e il pollice sulla fronte della disgraziata di turno da curare e ripeteva le sue formule.

«Affascene ca vaie pe cie trouce a Ccriste pe Mmarie…»

Poi abbassava la voce e riprendeva il suo tono solenne verso il finale:

«Chi t’adda sfaceva? U padre, u figlie e lu spiriti sande.»

I tizzoni nel camino scoppiettavano e zio Michele approfittava per dire che era un segnale. Nessuno, infatti, aveva il coraggio di mettere in discussione le sue parole.

Benché Anna fosse grata al destino di quella nuova vita, delle ore trascorse con le signore del paese, le mancava la scuola, le mancavano le lezioni all’orfanotrofio, imparare cose normali.

Le mancavano i libri di seconda mano che ogni tanto i visitatori portavano ai bambini. Lei leggeva con Beppe soprattutto le favole di Rodari. Le aveva imparate a memoria e ancora oggi, da adolescente, poteva ricordarne alcuni passaggi.

Così aveva iniziato a chiedere ai pazienti se oltre al cibo e a qualche indumento potevano portarle dei libri. E lo chiedeva soprattutto a chi veniva dalla città: li riconosceva dalle stoffe che indossavano, velluto morbido o seta.

«Sai leggere?» le chiedevano stupiti, e lei si mortificava.

«Certo» rispondeva. Ed era anche brava per tutto l’allenamento che aveva fatto in orfanotrofio, anche perché era l’unica cosa che potevano fare.

Tuttavia aveva impiegato dieci mesi a finire Cime tempestose.

Ma attraverso Emily Brontë aveva imparato l’amore. Si era innamorata segretamente di Heathcliff. Era un orfano, e da piccolo era scontroso e selvatico, con una massa di capelli scuri e ricci… le ricordava Beppe.

Grazie a quel libro aveva scoperto che a distruggere gli uomini non erano solo la povertà, la solitudine o il peccato. Ma anche l’amore, che provocava gelosia e sete di vendetta.

Oh, come avrebbe voluto riportare in vita Catherine, perché lei e Heathcliff potessero stare insieme!

A furia di leggerlo – con il respiro spezzato, infilando la testa sotto il cuscino – l’aveva consumato.

«Che vuol dire reprobo?» chiese una volta a una maestra che si era rivolta a loro perché aveva sempre sonno e stanchezza e le avevano detto che di sicuro aveva la fascinazione.

«E come ti viene mo’?! Vuol dire malvagio. Perché?»

E Anna le aveva spiegato che c’erano dei termini che aveva letto e riletto, ma che non sapeva cosa volessero dire.

Allora la donna, che si chiamava Maria, si offrì di spiegarle anche il significato di tutti gli altri termini. E tornò alla cascina per consegnarle un quaderno e una matita.

«Che diavoleria è che in una casa una ragazza non abbia niente per scrivere?» chiese un po’ piccata rivolgendosi a zio Michele.

Ma il quaderno restò immacolato. Anna non aveva avuto più tempo e nemmeno una spinta per imparare.

Anzi. Man mano che passavano i giorni e le settimane, non aveva nemmeno più sfogliato Cime tempestose.

Perché quando non hai la speranza che tutto il sapere ti possa servire te ne dimentichi.

Sembrava che le cose potessero andare avanti così per sempre.

Ma quando, si domandava, sarebbe diventata davvero acqua contro il fuoco, quello vero? Quando avrebbe potuto espiare la sua colpa antica e profonda? Da quando zio Michele le aveva rivelato il suo dono, era come impaziente di fare altro. Non era riuscita a spegnere in tempo la rabbia di sua sorella. Avrebbe potuto evitare quel disastro se solo avesse compreso che l’odio di Eva poteva essere spento. Perché quell’odio in una bambina era soltanto la paura di essere sola al mondo.

E come se il cielo avesse ascoltato la sua preghiera, il suo destino, assumendo le sembianze di una donna dimessa, bussò alla loro porta.

Alice voltò di scatto la testa verso la porta. Anna, che si era addormentata, si svegliò di soprassalto. Si alzò piano preceduta da Alice, che poi si bloccò e si accucciò di lato per farle spazio, come non faceva mai. Solitamente voleva essere lei ad accogliere i visitatori.

Aprì la porta.

Davanti a lei si presentò una donna con un cappotto sbottonato. Si intravedeva fra i lembi aperti la divisa da domestica che forse non aveva fatto in tempo a togliere.

Quando il viso di Anna, sporgendosi, si rivelò totalmente alla sua vista, la donna sobbalzò e fece un passo indietro.

Anna non si scompose: si era dimenticata di rimettersi il turbante in testa, e sapeva che le sue cicatrici da ustioni potevano avere quell’effetto sui visitatori. Tuttavia la donna, arrivata lì in affanno, si riprese subito e disse: «La prego. Dovete aiutarci, una ragazza sta male».

«Una ragazza? Dov’è?»

«Accompagnatemi a prenderla, è in città. Delle persone le stanno facendo del male. Io sono la domestica, mi chiamo Tina. I signori non saranno in casa per tutto il giorno. Vi prego, dobbiamo sbrigarci, dovete venire adesso.»

Zio Michele si avvicinò all’uscio.

«Non siamo noi a muoverci, sono i visitatori che vengono qui» disse brusco, sul punto di chiuderle l’uscio in faccia. «E se la ragazza è minorenne, finiamo nei guai. Perché non va dalla polizia?»

«Ma la polizia è amica dei padroni. Vi prego, è una situazione d’emergenza. La ragazza è un’orfana, l’unica superstite dell’incendio di Villa Nivelli. È segregata in una stanza da anni.»

Don Michele trasalì guardando Anna. «Perché sei venuta qui? Cosa vuoi da noi?»

«La ragazza si chiama Eva.» E rivolta ad Anna aggiunse: «Ed è identica a te».