Matera, 2018
La ciuota. A scuola tutti la chiamavano la ciuota, Angelica. Ma anche la svitata, la pazza. Quella che porta sfiga. L’appestata. Attorno a lei da sempre si tramavano storie immaginarie, si sussurravano canzoncine, filastrocche che passavano di bocca in bocca, senza tregua.
Aveva sperato che cambiando scuola tutto sarebbe finito, che al liceo avrebbe potuto smettere di difendersi. E invece.
Fin dal primo giorno Angelica era stata presa di mira. Era timida e mite, la preda perfetta in quel circo di adolescenti feroci. E più le chiacchiere su di lei si amplificavano, più Angelica finiva per comportarsi in modo goffo, muovendosi come un elefante in una cristalleria. Nei corridoi, al suo passaggio sentiva echi di risatine maligne, battute a mezza voce, e gli occhi di tutti addosso. Così inciampava nei propri piedi, o lasciava cadere i libri, confermando suo malgrado quella cattiva reputazione che non aveva fatto niente per meritarsi.
Perfino il muro scrostato dei bagni delle ragazze al primo piano recitava: “Cosa ne pensate di Angelica di I A? Lasciate un commento qui sotto!”.
L’antica tradizione del capro espiatorio: scegli una vittima indifesa e lascia che tutti sfoghino le proprie frustrazioni su di lei.
In tanti avevano accolto l’invito e sotto, con il pennarello, avevano declinato ogni umiliazione possibile. Perfino “troia”. Un insulto che proprio non le apparteneva. Anzi, pensò Angelica leggendolo: “Magari lo fossi! La mia vita sarebbe più semplice”.
Aveva quattordici anni, l’età in cui non si è più bambine ma non ancora donne, e in cui sarebbe bello sentirsi leggere e spensierate. Ma la leggerezza non sembrava concessa alle donne della sua famiglia.
«Troia, poi…» avevano commentato i docenti nella sala loro riservata. La bidella li aveva avvertiti degli insulti comparsi in bagno. «Una che cammina ripiegata su se stessa vergognandosi del proprio corpo…»
«Però, conciata così, un po’ se la cerca, dài. Non capisco la madre come faccia a non intervenire. Non la vede? Sempre vestita di nero, sembra un corvo. Forse le piacciono le ragazze, ed è per questo che se ne sta sempre isolata.»
«Ai nostri tempi quelli con il suo look si chiamavano dark. Cosa c’è che non va? E poi, anche se fosse lesbica? Quale problema ci sarebbe?» commentò la professoressa di educazione fisica sorseggiando il caffè.
«Che parole, su!»
«Che male c’è a dire le cose come stanno? Lesbica non è mica una parolaccia. Sono un po’ preoccupato. Se questi discorsi li facciamo noi adulti, figuriamoci i ragazzi. Spero non sconfinino mai in atti di bullismo» intervenne il professore di latino.
«Ma quale bullismo! Il bullismo non esiste, sono invenzioni moderne da talk show. E che nessuno affronti l’argomento in classe o saremo inondati di genitori isterici» tagliò corto la vicepreside Rienzo. «Sono le solite prese in giro: ci siamo passati tutti, e dico tutti, da ragazzi. Non è il caso di farne un dramma. Magari così quell’Angelica si darà una svegliata. Pensasse a studiare invece di andare dietro alle ragazze» disse ponendo fine alla discussione su Angelica. «Comunque qualcosa di lugubre ce l’ha» borbottò poi uscendo, legittimando così le manifestazioni di sospetto e scaramanzia. Tanto che qualcuno fece le corna, inducendo gli altri a ridere.
«Non è vero ma ci credo…»
La Rossa. Le si rivolgevano così i ragazzi, come se avere i capelli rossi fosse un orribile difetto. Aveva i capelli infuocati in mezzo a teste color carbone, la pelle bianchissima e delicata tra quelle carnagioni olivastre. Era diversa dagli altri, in un posto dove essere diversi voleva dire essere sbagliati. «Arriva la Rossa, arriva l’appestata!» scherzavano quando, d’estate, le lentiggini che le ricoprivano il volto e le braccia diventavano più accese e spiccavano sulla carnagione candida. Sua madre Adele aveva fatto di tutto per toglierle il complesso dei capelli rossi e delle lentiggini: avevano guardato insieme La Sirenetta e The Brave, la Ribelle, in cui entrambe le protagoniste sfoggiavano meravigliose chiome rosse, e da bambina le aveva letto e riletto i romanzi di Anna dai capelli rossi e Pippi Calzelunghe. Per far sentire la figlia meno sola, aveva anche provato a usare l’hennè, ma il risultato non era mai quello sperato: il suo castano scuro non si prestava facilmente alle tinte.
Adele, a differenza di Angelica, non aveva ereditato i capelli rossi di sua madre Anna, e quasi se ne dispiaceva, vivendo questa caratteristica comune tra nonna e nipote come l’ennesimo segnale della loro speciale complicità, da cui spesso si era sentita esclusa. Ogni sera prima di andare a dormire la nonna le slegava la lunga treccia, le pettinava i capelli e poi li intrecciava pazientemente, suggerendole di farlo sempre perché non si annodassero.
Nel bagno sudicio della scuola, dove i water venivano usati come poggiapiedi per nascondersi a fumare, Angelica passò il dito sugli insulti rivolti a lei: qualcuno di recente aveva aggiunto in pennarello rosso “iettatrice”. Credevano che portasse sfortuna soltanto perché si vestiva sempre di nero? «Sei così bella, Angelica, come fai a non vederti? Andiamo al mercato, compriamo qualcosa di chiaro, che valorizzi i tuoi colori…», sua madre ci provava di continuo, ma lei non voleva assolutamente rinunciare al nero. Da quando nonna Anna era morta, un anno addietro, Angelica si era vestita sempre e solo di nero.
Lo faceva per rispetto nei confronti di quella nonna tanto amata, ma anche perché in questo modo le sembrava di passare inosservata. Non si rendeva conto che, al contrario, questa sua eccentricità attirava maggiormente l’attenzione. Come se non bastasse, si chiamava Nero anche di cognome, e questo per i suoi compagni era un motivo ulteriore per sbeffeggiarla.
Di ritorno da scuola, Angelica entrò in casa. Come ogni giorno, si sfilò le sneakers nel sottoscala, si tolse la felpona nera con cappuccio e zip che usava come giacca e la appese nel ripostiglio stretto come un cubicolo, ben spinto e schiacciato fra i numerosi soprabiti della madre. Andò in bagno a lavarsi le mani, poi si diresse in cucina. C’era odore di bruciato, e Adele borbottava tra sé perché come sempre qualcosa non le era venuto come sperava. La frittata troppo cruda, la pasta incrostata alle pareti della pentola di acciaio, gli hamburger stracotti e spappolati perché si ostinava a non usare la padella antiaderente, le zucchine dure, il riso scotto.
«Sei l’unica donna del Sud che non sa cucinare» la prendeva in giro Angelica.
«Nemmeno nonna Anna era capace! Diciamo che le donne della nostra famiglia non sono granché come massaie, abbiamo altri talenti…» ribatteva Adele, pur sapendo che così non era. La nonna sapeva cucinare, ma forse era stata troppo fagocitante nel voler fare sempre tutto lei.
Ma ad Angelica andava bene così. Tornata da scuola aveva così tanta fame che le sue fauci avevano la stessa forza di un bocchettone dell’aspirapolvere. Ingurgitava tutto di fretta, senza nemmeno sentire i sapori, dando l’illusione a Adele che tutto quell’appetito fosse scatenato in parte dall’apprezzamento per ciò che cucinava.
«Tutto bene a scuola, amore?» le chiese sollecita Adele guardandola con una punta di preoccupazione.
No, mamma. Ho preso 4 nel compito di greco e a educazione fisica sono caduta dalla fune finendo col sedere per terra e tutti hanno riso di me. E poi quella stronza di Federica mi ha nascosto le scarpe nello spogliatoio dei maschi, è dovuto andare il bidello a recuperarle.
«Certo mamma, tutto bene» disse invece, facendo poi sparire nella sua bocca un’enorme forchettata di timballo con le melanzane. Non sapeva di niente, ma quel calore dentro lo stomaco le dava una sensazione di conforto.
«Meno male, Angelica, meno male» le disse Adele rasserenata dalla menzogna, poi si sedette a tavola con lei, accese la tv e la sua attenzione fu catturata da un talk show pomeridiano che parlava coi consueti toni apocalittici di disagio giovanile.
«Per fortuna che tu non hai di questi problemi» disse Adele. «Vero, amore?»
Ad Angelica andò di traverso il boccone. Tossì, bevve dell’acqua e poi, appiccicandosi a fatica in faccia un sorriso che sembrasse naturale, disse: «Sicuro, mamma».