Non c’era giorno in cui lo sguardo di Angelica non cadesse sulla credenza di acero profumato che era appartenuta a nonna Anna. Era un modo per sentirla vicina. La nonna le mancava tantissimo. Le era sempre sembrata eterna, e poi di colpo era sparita.
Adele aveva disposto in fila alcune delle sue vecchie e fragili ampolle ormai vuote, posate su carta da parati per proteggere il legno del mobile, e qualche bomboniera con dei confetti mai consumati, regalo dei clienti dell’erboristeria. Poi c’era una fotografia di Angelica neonata, nuda sul lettone. Alle sue spalle una cicogna bianca grande due volte lei, con le ali rivestite di foglioline di tulle e le zampe rosa, come il nastrino vezzoso che le adornava il lungo collo. La piccola tentava di afferrarsi i piedi con le mani e rideva, sdentata, di gusto. L’espressione felice le trasmetteva tristezza ogni volta che guardava quella foto. Perché in maniera così aperta e spensierata non ricordava di aver riso mai. Nonna Anna invece adorava quell’immagine: era capace di fissarla per interi minuti con occhi colmi d’amore. Non era mai stata in grado di guardare sua figlia in quel modo, e Adele lo sapeva. Infatti nel suo cuore aveva accusato molte volte la madre di essere troppo presa dalle sue cose, indifferente ai bisogni della famiglia, anaffettiva addirittura. Ma di certo questo non valeva per Angelica: la nonna era la persona che più di tutte l’aveva fatta sentire scelta.
Con disagio lo sguardo di Angelica scivolò su una pesante cornice d’argento vuota. Un brivido le attraversò la schiena. Non poteva dimenticare ciò che era accaduto l’anno precedente, ancora non riusciva a darsi una spiegazione.
Per anni quella cornice aveva protetto una vecchia fotografia che immortalava un gruppo di persone piuttosto bizzarre, tutte vestite di nero tranne due bambine con degli abitini bianchi, che sembravano capitate lì per caso. Ogni volta che aveva chiesto alla nonna chi fossero quelle persone, lei aveva distolto lo sguardo e dato delle risposte evasive: «Oh, è solo una vecchia foto saltata fuori da chissà dove».
«Ma non sei tu una di quelle due bambine con la cuffietta bianca?»
«Ma no tesoro, che stai dicendo?»
«Queste due bimbe si assomigliano così tanto… secondo me potrebbero essere gemelle!» insisteva Angelica.
«Amore, tu corri troppo con la fantasia» tagliava corto la nonna, per poi darle una carezza sui capelli e tornare alle sue occupazioni.
Ma Angelica si era convinta che la nonna le stesse nascondendo qualcosa, e quando l’anziana donna era in negozio passava a interrogare Adele.
«Ma è nonna Anna quella con la cuffietta bianca?» aveva provato a chiedere alla madre.
«Non lo so, tesoro, ma chi sarebbe allora l’altra bambina vestita come lei? Va bene che tua nonna è sempre stata misteriosa, ma sorelle non ne aveva, a quanto mi risulta. Sarà una vecchia foto scovata chissà dove, lo sai com’è fatta, l’avrà comprata in qualche mercatino delle pulci.»
In effetti la nonna aveva una passione smisurata per gingilli di ogni genere, purché antichi. Spesso riceveva in regalo dai clienti del negozio zuccheriere, sacchettini profumati, cartoline raffiguranti damine eleganti o luoghi in cui non avrebbe mai messo piede nella vita, saponette che restavano avvolte nelle loro carte eleganti e conservate in quella credenza che sembrava un bazar in miniatura.
«Ma non gliel’hai mai chiesto alla nonna chi sono queste persone?»
«Mi ha sempre risposto che è un vecchio ricordo di famiglia. E poi cambiava discorso.»
Nel corso degli anni, ad Angelica era capitato di sognare qualcuna delle persone che comparivano nella fotografia. Alla lunga quelle facce le erano diventate familiari. Così aveva iniziato a considerare quegli individui veri e propri componenti della famiglia e ad attribuire loro dei nomi e un passato.
Il più anziano, l’uomo in piedi all’estrema sinistra del ritratto, teneva una mano appoggiata sulla spalla di una donna seduta su una sedia di vimini. I lunghi baffi e gli occhi sottili come lame di coltello non rendevano ben visibili i suoi lineamenti.
Aveva deciso di chiamarlo Armando. Era un proprietario terriero molto efficiente. Gli piaceva comandare, ma poi era il primo a sporcarsi le mani nella sua terra.
Sua moglie doveva essere stata una donna robusta, ma ora di largo le erano rimasti solo il sedere e gli abiti. Forse era dimagrita a causa di una malattia. Sembrava triste. Allora provocatoriamente le aveva attribuito il nome di Allegra.
I tre ragazzi alle loro spalle, con lo sguardo vitreo, dovevano essere i figli. Avevano baffi identici al padre, la mano infilata nel panciotto. Dovevano avere pochi anni di differenza, e si assomigliavano moltissimo. Erano fratelli, senza ombra di dubbio.
Per lei erano Orso, Leone e Achille. Per spronarli a essere più coraggiosi rispetto all’espressione della fotografia.
Poi c’era una donna seduta accanto ad Allegra. Ma non sembrava una di famiglia per com’era vestita, portava il grembiule e aveva gli occhi bassi. Come mai però era seduta nel mezzo? Che fosse una parente? O peggio, l’amante di uno degli uomini e la moglie magari ne era al corrente? Ad Angelica gli intrecci piacevano. Così le aveva dato un nome irritante: Veronica, come quello di una compagna di scuola che le tirava sempre i capelli per farla piangere.
Accanto a lei una ragazza, poco più che adolescente. Con una calza leggermente allentata sul polpaccio, come se le stesse per cadere. Aveva due trecce sulle spalle, fermate da due fiocchi vistosi. Anche lei, l’espressione assente. Doveva essere la figlia del signore accanto a lei, che le teneva lo sguardo addosso. Loro si chiamavano Orsetta e Pietro. Lei aveva smesso di studiare e imparava dalle donne di famiglia a occuparsi dei bambini e della casa. Lui era un commerciante.
E dunque: Armando, Allegra, Orso, Leone, Achille, Veronica, Orsetta e Pietro. E poi c’erano le due bambine in prima fila, le uniche vestite di bianco. Avranno avuto tre o quattro anni. Alle due gemelle Angelica aveva destinato la più bella delle storie.
Una si chiamava Anna, e l’altra… dopo averci pensato su un bel po’, aveva deciso di darle il proprio nome, Angelica. Le piaceva pensare che in un tempo lontano c’erano un’Anna e un’Angelica che crescevano insieme, pettinandosi i capelli e facendosi le trecce a vicenda. La nonna doveva essere la bambina dall’espressione più dolce che teneva per mano la sorella, mentre l’altra, rigida, guardava l’obiettivo come se al posto degli occhi avesse due proiettili. Dopotutto, anche a lei non piaceva essere fotografata, e non si era mai fatta un selfie.
Le immaginava correre a perdifiato giù per la collina su cui si trovava la loro grande casa di campagna, e i loro capelli – rossi come i suoi – si allungavano sulle spalle quasi fossero cascate sinuose di rame che il sole faceva brillare come lava incandescente.
Angelica si sentiva sola, e fantasticare sulle gemelle della fotografia la faceva sentire meno triste. Lo aveva fatto anche quel giorno di un anno fa, dopo il funerale di nonna Anna.
Immaginarla bambina le faceva sentire meno la sua mancanza straziante.
Era sola in casa, la mamma trascorreva molto tempo in negozio ora che la nonna non c’era più. Si era avvicinata alla credenza, aveva tolto la fotografia dalla pesante cornice d’argento e se l’era portata sul divano, pronta a immergersi nelle scorribande delle sorelle.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente.
Suoni lontani. Risate argentine, il canto delle cicale. Le gemelle corrono in un prato punteggiato di fiori gialli tenendosi per mano. Un vento caldo gioca coi loro lunghi capelli rossi, li scompiglia. “Dovevamo farci la treccia!” ride una delle due. Poi il cielo azzurro di colpo si fa plumbeo e l’erba alta e rigogliosa si appiattisce e diventa nera, si trasforma in un lungo corridoio lugubre dal freddo pavimento di marmo. Le due sorelle corrono ma non stanno più giocando, ora stanno scappando, non sorridono più, qualcosa le insegue, un fuoco che cammina e vuole divorarle, bruciarle, loro corrono, corrono, ma hanno paura, il fuoco è sempre più vicino…
Angelica aveva aperto gli occhi di colpo e aveva stretto i bordi della foto, cercando di interrompere quella visione, ma era come se non dipendesse più da lei.
Il cuore aveva preso a batterle più velocemente e la fronte le si era imperlata di sudore, come se fosse lei stessa a scappare.
Poi d’un tratto una fiammella aveva iniziato ad ardere al centro della fotografia, come se qualcuno le avesse acceso sotto un accendino, o una candela. La foto aveva preso fuoco in un istante e Angelica l’aveva lasciata cadere a terra con un grido.
Pochi istanti dopo non era che un mucchietto di cenere.