Capitolo tre

Matera, 2004

«Exorcizo te, creatura salis, in nomine Dei Patris omnipotentis, et in charitate Domini nostri Jesu Christi…»

«Ma cosa sta dicendo, la sta esorcizzando? Che bisogno c’è? E perché parla in latino?» sbottò Anna, le guance imporporate dall’indignazione.

«Shhh, mamma, parla piano che ti sente. E comunque si usa» tentò di rabbonirla la figlia.

«Ma che dici! Non si usa più la formula per esorcizzare un neonato! E poi guarda che faccia che ha don Franco, sembra lui il posseduto. Non capisco perché guarda così Angelica. Povera nipote mia.»

Angelica, effettivamente, strillò. Il padrino e la madrina, Rocco e Lucilla, se la presero in braccio a turno tentando di calmarla, ma la piccola continuava a urlare disperata.

«Vedi che l’ha spaventata?»

«Ma no, è l’acqua santa. Tutti i bambini quando sentono l’acqua fredda piangono.»

A fine funzione tutti uscirono dalla chiesa dei santi Pietro e Paolo in piazza San Pietro Caveoso di Matera: Adele e la sua bambina, avvolta in una mussolina color panna, e il padrino e la madrina, che andarono al bar più vicino a prendersi un caffè. Tutti, tranne nonna Anna, che si attardò in chiesa perché aveva qualcosa da dire al prete.

Adele fece qualche passo sul piazzale, si avvicinò al parapetto e girò la sua piccolina verso la Murgia lucana: voleva condividere con sua figlia tutto ciò che anche lei aveva sempre guardato, fin da bambina.

La mostrò a quella terra come se la stesse presentando ai suoi calanchi, ai suoi Sassi dormienti.

Era incredibile pensare che quel panorama oggi così amato, quei vicoli alle loro spalle brulicanti di turismo e di vita, fossero rinati da poco.

Sua madre Anna, infatti, quando con lei appena nata si era trasferita a vivere in quei Sassi, l’aveva dovuto fare illegalmente, occupandone uno. Dopo lo sfollamento avvenuto negli anni Cinquanta, prima della riqualificazione, nessuno poteva abitarci. Ecco perché lei aveva scelto quel posto: per starsene in pace. E non era stata l’unica a trovare rifugio lì. C’era per esempio don Peppino, che si era aperto una bottega di Cuccù, i fischietti portafortuna di terracotta e di timbri per il pane; oppure la famiglia che aveva occupato la chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve, fra la navata sinistra e quella centrale, coprendo di calce gli affreschi per disinfettarla.

Quando Adele era piccola, Anna era riuscita a occupare un Sasso scavato nella roccia fortunatamente poco umido, proprio dietro la chiesa di Santa Lucia, in Rione Casalnuovo. Era poco più su della stradina oggi viavai di turisti e si affacciava su una terrazza a strapiombo proprio sulla Murgia lucana.

Adele non poteva sapere che era stata partorita proprio in uno di quei Sassi, e non da Anna.

Sapeva però che quel Sasso, a poco a poco, per via delle cure di colei che credeva sua madre, era diventato una vera casa, calda e confortevole, dove pigri gattini si rifugiavano ogni giorno, grazie alle amorevoli attenzioni di Anna e soprattutto grazie alle abbondanti razioni di cibo di cui venivano costantemente riforniti.

Solo Anna sapeva che i gatti non solo tengono lontani i topi, ma sono i primi ad avvertire il malocchio, innervosendosi e arricciando il pelo.

Accanto al portone di legno Anna aveva piantato un piccolo ulivo in una botte. Le era sempre piaciuto l’albero di ulivo, come quando scappava dalla cascina di zio Michele e si sedeva al riparo e in pace là sotto. Era come se si fosse portata un pezzo di casa, l’unica casa mai posseduta, anche nella sua nuova vita.

Adele da bambina pensava che si trattasse solo di un ornamento; in realtà durante la sua infanzia quell’ulivo era il punto di riferimento dei pazienti per trovare fra quei grappoli di abitazioni proprio quella in cui operava sua mamma per guarire i casi più disperati.

All’inizio le cose non erano state facili. Anna non era più tornata nella cascina di zio Michele. Era troppo pericoloso stare lì, se i Bruni l’avessero scoperta avrebbero trovato il modo di portarle via la bambina e farla passare per la loro figlia. Ma lì a Matera era una donna sola con una bambina, e non poteva trovare un lavoro: a chi avrebbe lasciato la piccola? Non aveva i soldi per pagare una balia. Senza contare che c’era un’unica cosa che sapeva fare: guarire le persone.

In quelle prime settimane faticava a trovare il denaro sufficiente per sfamare lei e la piccola. Alice per fortuna se la cavava da sola: qualcuno le dava sempre una ciotola di cibo. Anna si arrabattava a fare le pulizie, portandosi dietro la bambina. Zio Michele, che soprattutto di notte la raggiungeva per portarle da mangiare, iniziava a non potersi più spingere fin lì per aiutarla. Aveva troppo da fare alla cascina.

Una notte, una di quelle particolarmente faticose per via dei pianti di Adele, che non ne voleva sapere di dormire nemmeno con tutto ciò che aveva imparato Anna sull’arte di addomesticare i bambini al sonno, aveva sentito bussare.

Pensando che si trattasse di zio Michele, aveva aperto la porta girando subito le spalle e lasciandogli lo spazio per entrare e lasciare le ceste.

Ma non entrò nessuno.

A terra trovò una busta, legata con lo spago. E dentro c’erano soldi, tanti. Anna era così incredula che li contò e ricontò diverse volte, lasciando anche che la piccola piangesse e si addormentasse cullata dalle sue lacrime.

«Oh Adele, questa notte ti lascio piangere. Perché da domani potremo finalmente vivere bene e sono certa che dormiremo di più. Era ora che tua madre si occupasse di noi» disse, sapendo che c’era una sola persona al mondo che avrebbe potuto sollevarsi così dal più potente dei sensi di colpa.

Dal giorno dopo Adele non pianse più. E Anna, con quel denaro, poté dedicarsi a realizzare il suo sogno.

Il primo cliente lo aveva trovato quasi per caso, incontrandolo in un rione poco distante. L’uomo aveva perso la voce da quando la figlia si era sposata.

Dato che lui non riusciva più a salutarla, gli si era avvicinata percependo una difficoltà e lo aveva trascinato a casa. Gli aveva preparato un decotto e gli aveva detto di berlo per una settimana, ogni giorno alla stessa ora.

L’ottavo giorno la voce gli era tornata completamente, e fuori dalla porta di Anna si era già formata una fila. Ufficialmente Anna era un’esperta erborista e anche una specie di pranoterapeuta, e moltissimi si affidavano alle sue mani guaritrici, tanto che le sue giornate erano un viavai incessante di clienti.

Non si ha mai idea di quanto la gente sia alla ricerca della magia.

Più di una persona però le aveva fatto notare che non poteva continuare a ignorare la burocrazia.

«Ti aiuto io con i permessi in Comune» le proponevano, cambiando atteggiamento dopo averle parlato anche solo qualche minuto. C’era qualcosa in lei che li ammorbidiva.

Anna era cresciuta in un luogo dove l’unica legge da seguire è quella del cielo.

«Devi metterti a posto o ti fanno chiudere» le ripetevano.

E anche in quel caso Anna dovette imparare. Si rassegnò a occuparsi degli aspetti più pratici infilando la bambina appena nata in una fascia e portandola in giro da un ufficio comunale all’altro. Quella parte di casa inutilizzata e vuota si colmò di vita e di un viavai di consulenti per ottenere i permessi, di muratori per rendere agibile quello spazio dove lei avrebbe aiutato le persone, senza più nascondersi.

La fortuna, l’unica fortuna di Anna, era che tutti le volevano bene profondamente.

E dove non arrivavano il suo intelletto e la sua praticità, ci pensavano i suoi nuovi amici.

Soprattutto quando la convinsero a recarsi dal nuovo parroco, un certo don Franco arrivato da Trieste.

Lui le affiancò una sua parrocchiana per aiutarla con la bambina e darle la possibilità di avviare il negozio. Anna in pochi mesi trasformò quello spazio in un’accogliente bottega piena di libri e odorosa di spezie e piante da cui estraeva essenze per oli, saponi e profumi. Sopra la porta aveva fatto appendere un’insegna che recitava semplicemente “Erboristeria Alice”.

Zio Michele fece appena in tempo a vedere il negozio aperto, perché morì pochi mesi dopo. Il suo cuore cedette di schianto mentre stava sistemando i filari di pomodori nell’orto.

Anna non smise mai di piangere la sua morte e non si perdonò mai di non essere stata al suo fianco.

Quando l’avvisarono fece ritorno a Pietrapertosa senza pensarci un istante. Arrivò trafelata, pensando di dover gestire tutta la parte organizzativa, come una brava figlia dovrebbe fare. Chiudere la casa per sempre, delegare qualcuno che continuasse a occuparsi dell’orto. Invece non appena spalancò la porta di legno e se lo trovò davanti, immobile e indifeso, capì che per la prima volta non doveva avere avuto nessun avvertimento. Era pallido, ma soprattutto aveva sul volto lo stampo di un grande spavento. Disteso così com’era sul letto, in attesa dei becchini, lo accarezzò per la prima volta in viso, come si fa con un padre. Gli sistemò i capelli, pettinandolo lentamente con le dita. Come se non volesse disturbare il suo sonno eterno gli sussurrò all’orecchio: «Grazie, ti porterò con me per sempre».

Poteva sentirla? I doni servono a qualcosa nel luogo in cui si va quando si muore?

Anna posò il viso sulla sua spalla e si abbandonò a un lungo pianto. Poi fece uscire tutti dalla stanza, chiese ai portantini della bara di aspettare ancora un attimo che fosse pronto, sgridò le signore del paese per avergli messo dei vestiti raffazzonati e chiuse la porta. La folla che si era radunata fuori di casa udì delle urla ripetitive con frasi incomprensibili.

Piansero tutti quel giorno.

Pianse Anna, per prima e più di tutti, come se le sue lacrime potessero riempire la sorgente ai piedi delle cascate di San Fele, dove lui l’aveva battezzata.

Piansero i suoi compaesani, i suoi pazienti, perché non avrebbero mai trovato nessun altro come lui, pronto a comprenderli e a salvarli.

Piansero le sue donne, da cui era ancora profondamente amato.

E dovette piangere anche Alice, che da quel giorno si dileguò.

Quelle due perdite così ravvicinate diedero ad Anna un dolore immenso, ma non poteva permettersi di fermarsi: doveva pensare all’erboristeria, e soprattutto doveva pensare a Adele.

Adele non aveva mai saputo nulla delle sue origini. A volte Anna aveva cercato di parlargliene, ma non aveva mai trovato le parole giuste per farlo. Ed era stata talmente impegnata a sopravvivere da finire per smettere di cercarle.

Adele fin da piccola aiutava Anna nella gestione della bottega, e nel tempo libero le piaceva sedersi alla finestra della sua camera, che si affacciava sui tetti su cui erano spuntate naturalmente delle piantine di capperi. E al tramonto, in primavera, le piaceva contare le piccole rondini che garrivano sullo strapiombo della Murgia Timone.

Con sua figlia in braccio, il giorno del suo battesimo in chiesa, Adele ripensò a quei momenti incantati della propria infanzia e ai sacrifici che aveva fatto per lei sua madre. Si chiese se quel mondo in cui aveva sempre vissuto sarebbe piaciuto anche ad Angelica. E soprattutto se anche lei sarebbe stata in grado di fare così tanto per un figlio.

Nel silenzio assoluto, spezzato solo dal lieve respiro della piccola, Adele si godette l’emozione di quel momento, lontana da sua madre almeno per qualche minuto.

«Vedi, piccola mia, anche la mamma è nata qui. Non è la città più bella del mondo? Saremo felici, io e te. Sole, ma felici.»

Intanto, in chiesa, Anna non aveva perso tempo e si era diretta in sagrestia.

Era sempre stata diffidente nei confronti della Chiesa. «Ma non di Dio!» specificava. «Lui è ovunque, come potrebbe essere così bello il mondo senza di Lui? Ma i preti, a che servono?»

Eppure non riusciva a fare a meno di intraprendere estenuanti discussioni con don Franco, un triestino che chissà come era finito nel profondo Sud. Anche se non serviva a granché, dato che i due non arrivavano mai a una conclusione: borbottando, finivano per congedarsi dandosi le spalle.

Don Franco, poi, da quando era diventato esorcista si era indurito, e si prestava poco e malvolentieri a faccende ordinarie come battesimi, matrimoni e funerali.

«Avete troppi parenti qui al Sud» si lamentava. Aveva ottenuto da poco il mandato di esorcista dal vescovo, e preferiva dedicare il proprio tempo a studiare e perfezionare il sacramentale.

Ma per il battesimo della nipote di Anna il prete aveva fatto un’eccezione.

«Don Franco, lo sa che i Sassi di Matera custodiscono un’energia potentissima, oscura?» lo provocò Anna, entrando come una furia in sagrestia. Voleva capire perché il prete avesse cambiato la formula del battesimo. Il suo pessimo umore era peggiorato da un’emicrania dolorosa. Aveva passato una notte terribile: era stata tormentata da voci provenienti dal passato, tanto che si era svegliata urlando, in un bagno di sudore.

«Sciocchezze» le rispose lui ripiegando l’abito talare aiutato dalla fedele Giovanna, la nonnina del rione che aveva assunto di personale iniziativa il ruolo di perpetua.

«Se pensa che siano sciocchezze, perché è diventato esorcista? E poi perché ha usato quelle parole in latino per Angelica, sperava forse che non capissi? Ma io non sono stupida, dovrebbe saperlo. Non è che l’ha esorcizzata?»

«Anna, si usa. Io sono un prete all’antica, uso le formule della tradizione. E adesso per favore vai, che oggi ho da fare. Nessuna stranezza, nessun segreto. E tanti auguri per la piccola, è bellissima.»

«Angelica non aveva bisogno di essere esorcizzata» continuò Anna, «io non l’avrei nemmeno battezzata, ma Adele ci teneva. Lei che ne sa? È troppo nordico, troppo freddo per capire il Sud. Perché non si fa un giro da me, una volta? Da me vengono quelli con i problemi veri, e il latino di sicuro non serve per curarli. Io uso altri metodi, più efficaci, che però non si trovano su nessun manuale. Dovrebbe provarli anche lei.»

«Anna, lascia perdere tutte queste chiacchiere sulla magia. Io non ci credo.»

«Ma se lei è esorcista è perché crede nel diavolo. E che differenza c’è con la magia?»

«Di’ tre Ave Maria, Anna, e vieni a confessarti.»

«Giovanna, diglielo anche tu che se io mi vengo a confessare lui come minimo deve venire nel mio retrobottega a vedere quello che faccio. Così siamo pari.»

La donna continuò a piegare diligentemente le vesti del prete.

«Va bene, verrò. Così tu mi mostrerai il mondo dell’occulto e io ti aiuterò a purificarti» disse don Franco in tono scherzoso.

«Giovanna, sei testimone! Ha detto che verrà.»

«Ormai è quasi sorda, è inutile che la tiri in mezzo.»

«Lei solo con una sorda poteva farsi compagnia! Così non la contraddice. Be’, adesso vado. Don Franco, se vuole venire le offriamo un bicchierino di rosso.»

«Grazie Anna, dai un bacio alla piccola. Ma non posso, ho un convegno.»

«Uh, come è impegnato, don Franco, come è acculturato. Ma i preti non dovrebbero fare meno convegni e stare di più fra la gente?»

Il prete, invece di arrabbiarsi, si lasciò andare a una risata. «Anna, sei sempre impertinente! In confessione dovrai dire anche questo.» Poi la prese sottobraccio e la accompagnò verso l’uscita.

«Anna…» le disse tornando serio. «Se davvero pensi di avere un dono… delle doti, e io non dico che non sia possibile, sai cosa dovresti fare, vero? Non mi guardare così. Pensavi che non me le venissero a dire le cose che fai? Non sei una semplice pranoterapeuta. Ma allora dovresti fare in modo che la Chiesa ti riconosca come carismatica.»

Anna si bloccò e incrociò le braccia sul petto, l’espressione del viso che si faceva sempre più dura via via che il prete parlava.

«Sai cosa significa, vero? No. Allora te lo spiego con parole semplici, e non perché penso che tu sia ignorante ma perché sono cose complesse. Ecco… alcuni doni, chiamiamoli così, devono avere il riconoscimento e la benedizione cristiana. Stare dalla parte del bene. Altrimenti diventano doni di Satana, e tu una sua alleata.» Pronunciò queste ultime parole a bassa voce, avvicinandosi a lei. E lei lentamente sciolse l’intreccio delle braccia.

«Don Franco, io con la Chiesa non stringo alleanze. E stia sicuro: ho visto bene com’è fatto il diavolo. E aveva un vestito uguale al suo.» Poi, senza lasciare al prete il tempo di rispondere, si voltò e uscì per raggiungere Adele e Angelica. Adele stava ancora guardando il panorama, mentre la piccola dormiva beata.

«Non capisco perché l’abbiamo dovuta battezzare in chiesa» chiese alla figlia con tono polemico.

«Ssshh, parla piano sennò la svegli. Perché i sacramenti, mamma, si ufficializzano in chiesa. Dove pensavi di battezzarla, a casa?»

«Pure a casa, e se anche fosse? A chi serve questa formalità? Non la poteva battezzare giù al fiume? Era lo stesso, come per Gesù.»

«Mamma, ti prego, almeno per oggi potresti non ossessionarmi con le tue visioni alternative? E comunque nessuno ti obbliga a entrare in chiesa o a discutere con don Franco. Di questo gli dovevi parlare con tanta urgenza? Dell’inutilità del battesimo cristiano?» Adele era molto credente, e aveva sfidato la disapprovazione della madre quando, una volta adolescente, aveva deciso di farsi battezzare.

Il padrino e la madrina, tornati dal bar, si accostarono con un sorriso, sperando di interrompere la discussione tra madre e figlia prima che degenerasse in litigio.

Rocco e Lucilla erano marito e moglie e Lucilla era sempre disponibile a dare una mano ad Anna e Adele nell’erboristeria. Rocco e Lucilla, oltre a essere discreti riguardo a tutto ciò che accadeva nel retrobottega, erano riconoscenti ad Anna per averli liberati da una malattia che aveva colpito i nervi di lui e che nessun medico aveva saputo curare. La consideravano una sorta di santa, con quel turbante sempre legato sul capo come fosse un’aureola.

«Se non ci fosse stata Anna, il mio Rocco si sarebbe ucciso» sussurrò Lucilla nell’orecchio di Adele. «Forse tua madre non ha proprio tutti i torti. Secondo me fa del bene più lei che don Franco.»

Non ci fu una vera e propria festa dopo il battesimo, ma un pranzo a base di cialledda lucana, formaggi silani e pane di grano duro, una grande passione di Anna. Avrebbe potuto vivere di solo pane e olio, lei. E infatti aveva detto che solo così si doveva omaggiare la piccola: con gli ingredienti naturali e semplici della terra.

Adele avrebbe di gran lunga preferito avere qualcuno con cui condividere quella gioia, ma oltre a Rocco e Lucilla avevano scelto di non invitare altre persone per evitare la solita domanda imbarazzante: e il padre? Il padre quando torna? Perché per tutti il padre di Angelica era un viaggiatore, uno studioso.

«Mamma, smettila, tanto non ci crede nessuno» la implorava Adele quando la sentiva costruire storie immaginarie sul motivo per cui quel fantomatico padre era assente, pur di non alimentare chiacchiere sul suo conto.

«A me credono tutti. Poi un giorno lo faremo morire e tutto tornerà a posto» sentenziava Anna.

«In che senso lo faremo morire?» sbiancava Adele, preoccupatissima.

«Nei racconti Adele, nei racconti!» la tranquillizzava sorridendo Anna.