Matera, 2014
Quando si era accorta che la vecchia foto di famiglia non occupava più il suo posto sulla credenza, Adele aveva chiesto alla figlia che fine avesse fatto. Angelica aveva risposto di averla portata a scuola per un laboratorio teatrale e di averla persa, e tutto era finito lì. Adele non aveva mai amato quell’immagine e si sentiva oscuramente sollevata all’idea di non averla più sotto gli occhi tutti i giorni.
Angelica era turbata dall’accaduto, ma non ne aveva parlato con nessuno. Non aveva amici e non era abituata a confidarsi con sua madre, non voleva agitarla inutilmente. Si spiegò quel fuoco improvviso come una combustione naturale, una specie di conseguenza della sua tristezza di quei giorni. La nonna era morta da poco, e lei non si era mai sentita così sola. Come se la sua tristezza si fosse manifestata fuori di lei, dato che era incapace di esprimerla a parole.
Non era la prima volta che le succedevano delle cose strane. Da quando era piccola a volte bastava che sfiorasse un oggetto per capire cosa stesse pensando il proprietario, oppure vedeva cose che gli altri non vedevano. Una volta che era al parco, per esempio, e si stava arrampicando su un albero di fico, aveva notato vicino alle giostre una signora vestita tutta di nero con un velo sulla testa, come una suora. Quando la donna si era girata verso di lei, Angelica aveva sussultato. I suoi occhi erano pozzi di tenebra. Poi la donna aveva fatto un gesto strano con l’indice e il medio della mano destra, li aveva mossi come se fossero un paio di forbici, ed era scomparsa in una fiammata. Angelica si era spaventata tantissimo: aveva urlato ed era caduta dall’albero. Per fortuna era su un ramo basso e il prato aveva attutito la botta.
«L’avete vista quella signora?» aveva poi chiesto balbettando agli altri bambini. «Quella vestita di nero? Era qui vicino a voi!»
«Ma qui non c’è nessuno! Angelica, sei pazza!» avevano risposto i bambini. E avevano iniziato a cantilenarla: «Angelica la svitata! Angelica la ciuota!».
Ma poi, la conferma definitiva che lo fosse davvero, svitata e ciuota, arrivò qualche anno più tardi, alla fine della quinta elementare, quando ci fu la festa di compleanno di Federica.
Federica abitava in un appartamento vicino al Castello di Matera. Il palazzo non era granché a vederlo da fuori, ma la posizione centrale era strategica. E strepitosa era anche la casa esageratamente grande, che la madre vantava di aver ricavato dall’acquisto di due appartamenti sullo stesso pianerottolo e che aveva sontuosamente arredato facendoci costruire anche finte colonne e piazzando uno stemma familiare nell’atrio, intarsiato nelle mattonelle. Aveva perfino una piccola piscina in terrazzo e una palestra dove la madre allenava il suo corpo tonico fra un aperitivo e l’altro con le amiche della borghesia di Matera.
Il giorno della festa di Federica segnò il momento in cui Angelica divenne ufficialmente una bambina strana. Una che porta sfiga.
Adele aveva deciso di preparare un dolce da portare alla festa, anche se Angelica si vergognava e l’aveva pregata di lasciar perdere. Sua madre non era proprio capace di cucinare, malgrado l’impegno che ci metteva.
Quando Adele, dopo aver accompagnato la figlia, si congedò, la madre di Federica, che aveva accolto quel dono con un sorriso di circostanza, fece un cenno alla domestica: «Portalo in cucina, se vuoi puoi mangiarlo tu. Abbiamo già tante cose».
La torta al limone di Adele non arrivò mai sulla tavola imbandita, dove troneggiavano vassoi di pizzette, tartine e pasticcini preparati dalla miglior pasticceria della città.
Angelica se ne stette in disparte per tutta la festa. La sua timidezza le rendeva difficile interagire con gli altri bambini, che erano chiassosi e scalmanati. Tutto quel caos le dava fastidio, avrebbe preferito rimanere in camera sua a leggere i fumetti o a guardare i cartoni animati.
Rimase seduta in un angolo del salotto fissando intensamente l’orologio in attesa che la madre andasse a riprenderla.
Alle 16 il campanello suonò, ma purtroppo non era Adele. Era arrivato l’animatore.
Un mago che fin da subito un poco la inquietò, perché mentre eseguiva i suoi numeri continuava a guardarla. Aveva le gambe lunghissime, il viso tondo e piccolo come quello di un bambino, con un paio di baffetti a manubrio, e le dita, che si muovevano veloci, sembravano essere più di dieci.
Dopo diversi numeri di magia in cui aveva stupito e fatto ridere i bambini così come gli adulti, il mago si preparò al gran finale. Spinse il tasto play su un piccolo lettore cd e nell’aria esplose Smooth Criminal di Michael Jackson. Dopo una serie di giravolte e movimenti a tempo con la musica, prese da un grosso baule ai suoi piedi un secchiello di metallo e una manciata di monete colorate. Poi scrutò con sguardo fintamente minaccioso il giovane pubblico seduto a terra di fronte a lui e disse, con voce tonante: «Allora, chi vuole essere il mio aiutante per un emozionante numero di magia?».
Quasi tutti alzarono la mano gridando «Io! Io! Io!», e venne scelto un bambino in prima fila dall’aria simpatica e furba. Il mago lo mise al centro della scena girandolo verso la sala e chiese: «Come ti chiami?».
«Edoardo» rispose ridendo il ragazzino.
«Bene, Edoardo, ora infilerò queste sei monete nelle tue orecchie, dopodiché tu dovrai farle uscire una a una dal naso starnutendo quando te lo dirò io, tutto chiaro?»
Edoardo annuì trattenendosi a stento dal ridere, il mago gli piazzò il secchiello sotto il mento e con un ampio gesto delle mani mostrò le monete colorate a tutti per poi infilarle nelle orecchie del bambino.
«Edoardo!» gridò poi facendolo sobbalzare dallo spavento. «Sei pronto?»
«S-sì…»
«Mi senti con tutte quelle monete nelle orecchie, o sei sordo?»
«Sì!»
«Sì sei sordo o sì sei pronto? O sei un sordo pronto?»
Tutti ridevano a crepapelle, compreso Edoardo che riuscì solo a emettere un soffocatissimo «Pronto.» Tutti tranne Federica, che in quanto padrona di casa si sentiva derubata della scena e iniziava a essere nervosa, e Angelica, che non vedeva l’ora che la festa finisse per tornarsene finalmente a casa.
Il mago poi mise una mano aperta davanti al naso del ragazzino incitandolo a starnutire, e a ogni starnuto una delle monete cadeva nel secchiello. Dopo che ne furono cadute sei o sette, il mago disse: «E ora Edoardo, un ultimo sforzo. Al mio tre, uno starnuto grandissimo! E uno, e due, e tre!».
Quando il ragazzino starnutì una pioggia di monete uscì da sotto la mano del mago, che dopo aver guardato dentro il secchiello, strabuzzando teatralmente gli occhi, fece il gesto di lanciare il contenuto in faccia ai bambini, che alzarono le mani davanti al viso per proteggersi.
Ma invece delle monete colorate, dal secchiello uscì una moltitudine di stelle filanti provocando un “ooh” generale e un conseguente applauso da parte del pubblico.
Edoardo, coperto di stelle filanti, tornò raggiante al suo posto.
«E ora, per l’ultimissimo numero di magia, mi serve un nuovo volontario!» gridò il mago. «Chi sarà il fortunato, o la fortunata?»
Federica non stava più nella pelle, sapeva che ora il mago avrebbe chiamato lei, sua madre gliel’aveva promesso, chissà che numero stupefacente le avrebbe riservato. Se lo sarebbero ricordati tutti, e lei sarebbe diventata la bambina più ammirata della scuola.
E infatti il mago disse, indicandola: «Sei tu la fortunata! Vieni qui!».
Federica, raggiante, corse accanto al mago.
«Qual è il tuo nome, bambina fortunata?»
«Federica!» rispose lei con la sua voce argentina.
«Lo sapevo già eh! Sono un mago, no? Bene Federica, brava Federica, un applauso per FE-DE-RI-CAAAA!… Fermi! Non ha ancora fatto niente, ma cosa applaudite?!»
Tutti ridevano di gran gusto, compresa Federica, che gongolava di gioia per quel bagno di attenzione su di sé.
«Adesso, Federica, alza un braccio, così!»
Il mago diresse i suoi movimenti come se lei fosse un manichino e, dopo aver armeggiato dietro a un cubo coperto da un drappo, fece spuntar fuori magicamente due colombe bianche che posò sul braccio di Federica.
Ma quelle, con un rapido battito d’ali, presero il volo e andarono a posarsi sulle spalle di Angelica.
Di colpo tutti gli occhi furono su di lei. Angelica si sentì morire. Federica la guardò con odio, mentre le altre compagne bisbigliavano tra loro. Angelica provò a scrollarsele dalle spalle mentre il suo viso diventava paonazzo, ma fu tutto inutile. Le colombe non volevano staccarsi da lei.
Una ragazzina ridacchiò: «Guardate com’è rossa, adesso le scoppia la faccia!», e tutti presero a ripeterlo e a sghignazzare.
Un altro disse: «Ehi, mago, ma perché con una magia non fai sparire tutte le lentiggini ad Angelica?».
Solo Federica non rideva: era furibonda perché Angelica le stava rubando l’attenzione. «Ridammi le mie colombe, sfigata!»
«Buoni, bambini» provò a rabbonirli il mago. Ma Federica non gli diede ascolto e si avventò su Angelica per riprendere le colombe, mentre tutti i bambini ricominciarono a prenderla in giro, erano volti e occhi cattivi che le giravano attorno veloci, sempre più veloci.
Cosa volevano tutti da lei?
Di colpo le finestre della sala si spalancarono con un boato, i tovagliolini di carta iniziarono a volteggiare nell’aria come se li avesse investiti una raffica di vento e i quadri appesi alle pareti caddero a terra con uno schianto.
Tutti urlarono, terrorizzati, e le colombe iniziarono a sbattere freneticamente le ali e a volare come impazzite da tutte le parti. Poi si lanciarono nel gruppo dei bambini, che alzarono le braccia per proteggersi il volto.
Federica, distratta da tutto quel caos che stava rovinando la sua festa, non ebbe la stessa prontezza di riflessi.
Tutto ciò che era successo dopo si confondeva nel ricordo di Angelica: le urla, il sangue sul viso di Federica, e la lunga cicatrice sulla guancia che da quel giorno rovinò la perfezione dei suoi lineamenti.