Capitolo sei

Matera, 2009

«E quando hai versato l’olio cos’è successo?»

«Si è allargato, Anna! Non puoi capire, sembrava una tazza piena di olio.»

«Allora è così, avevi ragione tu. Fascinatura.»

«Ma se te lo dicevo! Da mesi, un mal di testa inspiegabile, mai sofferto di mal di testa in vita mia. E niente che lo faceva passare, il medico che mi diceva “Sei stressato, Giovanni, riposati”. Macché stressato, questo è malocchio, lo sapevo io.»

«Va bene, procediamo.»

Era stanca, Anna. Da qualche tempo si sentiva esausta. Aveva delle emicranie che la sfinivano. Ma sapeva che per quel disturbo non c’era rimedio. Dalla notte della nascita di Adele ogni tanto le capitava con maggiore insistenza. Gli spiriti dei morti dell’orfanotrofio le stavano lentamente ma inesorabilmente avvelenando il sangue. Quella notte, per esempio, si era svegliata di soprassalto. Accanto al suo letto aveva visto suor Alessia. Stava bruciando, e gridava. L’apparizione era svanita dopo qualche secondo, ma le aveva lasciato un dolorosissimo mal di testa da cui non era riuscita a liberarsi.

Oltre alla stanchezza di quel giorno però c’era anche la soddisfazione. In tanti erano venuti all’erboristeria a chiederle un consulto. Adesso che, fatta la prova dell’olio, sapeva per certo che Giovanni era stato fascinato, poteva guarirlo.

Si sistemò i pochi capelli rimasti sotto il turbante che portava sempre in testa e andò a preparare il necessario. Dopo aver riempito un tino di acqua, prese dalla madia il recipiente del sale: nove pizzichi sarebbero bastati. Con la pinza estrasse dalla piccola stufa a legno tre tizzoni.

«Ehi, dove vai con quelli? Stai attenta!»

«Tranquillo Giovanni, so quello che faccio.»

Anna infilò con delicatezza i tizzoni nel tino, e uno sfrigolio si diffuse nel retrobottega. Poi immerse la mano sinistra nell’acqua e tracciò sulla fronte del paziente delle croci, pronunciando lo scongiuro: «Padre, Figlio e Spirito Santo, fascinatura va’ da là via. Va’ via da Giovanni Punto ca è carne battezzata. Padre, Figlio e Spirito Santo, fascinatura non sei più niente». Giovanni aveva chiuso gli occhi, sdraiato sul lettino si affidava completamente alle mani guaritrici di Anna.

Ne parlavano tutti così bene, avrebbe sanato anche lui. Anna continuava a massaggiargli la fronte con dolcezza: «Abbiamo finito. Io torno di là, tu riposa pure qualche minuto».

Superata la porta che separava il negozio dal retrobottega, vide Adele al banco. Era intenta a spiegare a una cliente quale fosse la combinazione di erbe più adatta per curare il mal di fegato.

«Per queste cose deve andare dal medico, mi raccomando. Però questo aiuta. E il vino non lo so se può berlo. Ripeto: chieda al medico.»

La cliente uscì e le due donne rimasero sole.

Mentre Adele era intenta a sistemare il barattolo di tarassaco essiccato sullo scaffale, Anna la guardò. Adele non aveva preso nulla dalla sua vera madre: aveva i capelli scuri, la pelle olivastra, i lineamenti decisi. Ma era bella, di una bellezza timida di cui non era neppure consapevole.

«Dài che per oggi abbiamo finito. Aspettiamo che esca Giovanni e ce ne andiamo a casa. A proposito, domani viene Carla. Ha partorito dieci giorni fa, ma non ha latte. Vuoi che la guardiamo insieme?»

«Preferisco di no, mamma. Le preparo una miscela con l’erba galega, ma visitala tu se pensi ci sia altro.»

Non era la prima volta che Anna cercava di coinvolgere Adele nelle attività del retrobottega, ma lei non voleva. Non sapeva nulla del passato della donna che aveva sempre ritenuto essere la propria madre, eppure provava una spontanea, violenta avversione verso tutto ciò che sconfinava nel sovrannaturale, che aveva a che fare con cose inspiegabili, magiche. Perciò teneva lontana dal retrobottega anche Angelica. Anna, che avrebbe voluto la nipotina il più possibile accanto a sé, ne soffriva, ma si imponeva di rispettare la decisione di Adele. Sua figlia era fragile, sembrava potesse andare in pezzi da un momento all’altro sotto una pressione eccessiva, quindi non voleva forzarla a fare nulla. Anna si sentiva spesso in colpa nei suoi confronti: aveva cresciuto Adele nella menzogna. La amava, sì, con tutta se stessa, ma l’aveva sempre tenuta a distanza, per paura che Adele potesse scoprire la verità e la accusasse di essere una bugiarda. Il loro rapporto era stato da sempre complicato, pieno di silenzi. Era come se l’ombra di Eva si allungasse su di loro.

Anna e Adele erano diverse anche nell’amore profondo che nutrivano per quella piccola bottega. Per Anna rappresentava la vita che si era inventata dal nulla, che aveva voluto con tutta se stessa; era il riscatto della piccola, arrendevole Anna. Per Adele l’erboristeria era il rimedio alla solitudine che si portava dentro, il posto in cui poteva essere utile agli altri, accudirli con preziose miscele di erbe che lei conosceva e selezionava con razionalità e accuratezza scientifica.

Quella bottega odorosa di buono per entrambe era casa, era l’amore puro e muto che le legava, oltre tutte le parole che non sarebbero mai riuscite a dirsi.