Capitolo tredici

Com’era bella Maria Rosaria quando l’aveva conosciuta, erano due ragazzi. Pura, dolcissima, spensierata.

Vittorio, schiantato all’improvviso dal ricordo del volto di sua moglie che si era materializzato nella sua testa, crollò seduto sulla panca dello spogliatoio. Proprio quel giorno che era finalmente riuscito ad andare in palestra ad allenarsi, dopo mesi che non trovava il tempo di farlo… perché i ricordi non gli davano nemmeno un attimo di tregua?

Era così cambiato quel volto. Ormai Maria Rosaria era sempre tesa, corrucciata come chi si sente in credito con il mondo, e abbassava lo sguardo ogni volta che ne incontrava uno più forte.

Circa due anni prima era caduta in depressione. I medici non erano riusciti ancora a trovare la cura giusta e nemmeno gli amici erano stati di grande aiuto, dato che la maggior parte delle persone che conoscevano consideravano la depressione una malattia immaginaria, derubricandola a semplice debolezza di carattere. Così Vittorio aveva deciso di affidarsi a Dio e a don Franco.

Come richiamato dall’intensità di quei ricordi, don Franco si materializzò: il suo nome apparve sul display del cellulare. Ecco, lo sapevo, avrei dovuto spegnerlo prima di entrare, pensò Vittorio. Ma ormai aveva visto la chiamata e, proprio per la gratitudine che lo legava al prete, non se la sentiva di ignorarla.

«Padre, come sta?»

«Vittorio, sto bene grazie. Sei in servizio?»

La voce grave del prete spense il sorriso sulle labbra del carabiniere.

«No, sono in palestra, sono mesi che non mi alleno e…»

«Vieni subito da me, per favore, e cerca di non farti notare. Vieni in borghese se puoi, che è meglio», e don Franco chiuse la telefonata.

Vittorio rimase per un attimo bloccato sulla panchina dello spogliatoio pensando con nostalgia al sacco nero al quale non vedeva l’ora di tirare pugni e calci.

Erano mesi che non si allenava. E non aveva scelto nemmeno il giorno più adatto, visto quello che stava accadendo. Ma proprio per questo avrebbe avuto ancora più bisogno di sfogarsi, di pensare.

Ma se don Franco lo aveva chiamato con tanta urgenza e soprattutto con quella voce agitata che non gli aveva mai sentito, non poteva rimandare. C’entrava in qualche modo Maria Rosaria? Sua moglie aveva avuto un’altra crisi?

Tutta la sua energia vitale si scaricò in un secondo, come un temporale improvviso. Recuperò mestamente la borsa già sistemata nell’armadietto, vi ripose le fasce e i guantoni da sacco e si avviò verso l’uscita.

Si mise al volante diretto alla chiesa di San Pietro Caveoso. Il traffico scorreva blando. All’improvviso gli venne in mente quella ragazzina dai capelli rossi che camminava sconvolta in mezzo alla strada qualche sera prima. Cosa avrebbe fatto se fosse stata figlia sua? Lui, che da sempre desiderava un figlio, per un attimo si era sentito sollevato di non averne, e poi subito aveva provato vergogna per quel pensiero.

Ma con tutto quello che aveva visto da quando era entrato nell’Arma pensava che il mondo, per quanto popolato anche da persone perbene, fosse davvero un posto di merda in cui far crescere dei bambini.

Parcheggiò l’auto sul retro della chiesa, davanti alla sagrestia, e prima di entrare si fermò un istante a osservare il pesante portone di legno antico con la sua moderna serratura.

«Entra dal portone sul retro, quando arrivi» gli aveva detto don Franco la prima volta che l’aveva invitato a passare un po’ di tempo insieme in biblioteca, offrendogli tutta la discrezione di cui un appartenente alle forze dell’ordine aveva bisogno. E da allora Vittorio era sempre passato da lì, sentendosi un po’ uno di casa.

Gli venne in mente il primo colloquio che avevano avuto, il giorno in cui aveva aperto quel suo cuore facile alle ferite a qualcuno che non fosse sua moglie.

«Ero in servizio don Franco, capisce? Io non c’ero. Ma non perché fossi con gli amici o in palestra. Ero al lavoro. Stavo solo facendo il mio dovere. Ero in servizio, e invece mi devo sentire questo peso qui, nello stomaco. È come se Maria Rosaria me lo rinfacciasse ogni giorno con il suo silenzio che io non c’ero quando abbiamo perso nostro figlio.»

Tutti avevano cercato di liberarlo dai sensi di colpa, ripetendogli che non sarebbe cambiato nulla. Compresi suo padre e sua madre, secondo cui quelli di Maria Rosaria erano solo capricci. Capricci? Come potevano essere capricci?, si chiedeva. Maria Rosaria passava la gran parte delle giornate a letto, con le imposte serrate. Da quel giorno era come svuotata, una parte di lei sembrava essere morta insieme al bambino che aveva portato in grembo.

Stava a lui fare l’uomo e “rimettere tutto a posto”. Tutto a posto, già. E fare l’uomo. Per loro significava non perdere tempo col dolore, non perdere tempo con le lacrime.

Suonò il campanello dell’appartamento di don Franco.

Una voce arrivò dalla finestra aperta del piano di sopra. «Vittorio, vieni.»

Quando entrò nello studio del prete, fu sorpreso di trovarci Angelica.

«Don Franco, cosa sta succedendo?» gli chiese.

Comprendendo il suo disagio, il prete gli chiese di avere pazienza e di sedersi.

«Non tutti possono capire ciò che stai per ascoltare.»