Capitolo quattro

Era una domenica pomeriggio, e i coniugi Bruni erano impegnati nell’inaugurazione del nuovo oratorio, a cui avevano dato un generoso contributo economico. Per la stampa, loro erano “gli instancabili benefattori della città”, sempre in prima linea nel sostenere le opere caritatevoli della Chiesa. L’evento, aperto a tutta la cittadina, era in programma da settimane, così io, Anna e Tina avevamo avuto il tempo necessario per organizzare tutto.

Anna, sempre protetta dal suo turbante nero, mi aspettava sotto casa. Appena scesi, ci scambiammo uno sguardo. In giro non c’era nessuno. Senza parlare iniziammo a camminare veloci verso la piazza.

Il percorso in corriera per arrivare a casa di zio Michele mi innervosì molto.

Le curve, tutte quelle fermate, la puzza che le persone sedute emanavano dopo il lavoro mi fecero vomitare. Lo feci nella mia borsetta, Anna mi passò il suo fazzoletto per pulirmi.

Scendemmo a Pietrapertosa, sotto il paese che sembrava un presepe incastonato nelle rocce, ma non eravamo arrivate, c’era ancora un bel tratto di strada per arrivare alla cascina di zio Michele.

Fu proprio lui a venirci incontro, a bordo di un piccolo calesse. Chiesto in prestito a uno dei suoi pazienti, disse Anna.

Zio Michele era un uomo di cinquant’anni circa, con le mani ruvide e grandi, proporzionate rispetto al corpo massiccio. Si presentò masticando una radice e togliendosi il cappello. Mi diede immediatamente sui nervi. Era chiaramente un contadino, uno zotico. Abbozzai un sorriso e salii al suo fianco. Frustò il cavallo e il calessino iniziò a muoversi, sbandando e oscillando.

«Ho appena vomitato, può andare piano?»

«Non hai un bagaglio?» mi rispose lui ignorando ciò che gli avevo detto.

«Perché mai dovrei avere un bagaglio? Così tutti avrebbero capito che stavo scappando? Non sono così stupida.»

«Non ho detto che sei stupida. E comunque un bel bagaglio ce l’hai già in pancia» disse abbassando gli occhi sul mio ventre.

Quella battuta così sfacciata mi infastidì e girai il viso dall’altra parte.

«Ti presterò i miei vestiti, non preoccuparti» intervenne Anna a mettere pace. Da quando eravamo scese dalla corriera, tutto il nervosismo l’aveva abbandonata ed era calmissima. D’altronde, quella era casa sua. Era facile per lei sentirsi al sicuro.

Si ripeteva la solita storia: io mettevo sempre a disagio le persone, ci entravo in conflitto. Non ero mai stata simpatica a nessuno, nemmeno da bambina. Mi rispettavano perché provavano soggezione, non perché volessero stare con me.

Anna invece era diversa, la sua sola presenza bastava a rassicurare, curare. Come mi aveva detto quando ci eravamo ritrovate in camera.

Lei curava. Io distruggevo.

Una volta arrivati nella cascina, sentii scivolare via il risentimento che stava montando dentro di me e fui sopraffatta dalla pace. Ci venne incontro un cane gigantesco, dal pelo candido e setoso. Anna mi disse che si chiamava Alice. Mi annusò, ma quando tentai di accarezzarla scappò via ringhiando.

«Deve solo imparare a conoscerti» spiegò Anna. Poi mi condusse nella cucina, grande e spoglia.

Restammo un po’ in silenzio, bevendo un decotto di erbe.

«È qui che vengono le persone per farsi curare?» domandai.

«Sì.»

«E domani arriva qualcuno?»

«C’è sempre gente» rispose laconico zio Michele sprofondando in una vecchia poltrona di fronte al camino. Poi, dopo avermi osservata per un po’ come se mi stesse studiando, se ne andò bofonchiando che aveva da fare nell’orto. Ebbi l’impressione che tutti scappassero da me: prima il cane, poi lui.

Chiesi a mia sorella se per zio Michele fosse un problema avermi come ospite, ma lei mi spiegò che no, non era un problema, anzi, ero un aiuto in più. Mi spaventai, temendo che avrei finito per trasformarmi in una domestica o peggio in una contadina.

«No, intendevo una mano in più con i pazienti.»

«Ma io non so come si curano le persone. E poi non voglio che nessuno mi veda.»

«Potresti coprirti il viso, come faccio io. E io ti insegnerei, sarebbe una cura anche per te. Comunque ci sarà tempo. Ti ho preparato il letto, io dormirò sul divano. Hai una camicia da notte? Altrimenti ti presto la mia.»

«No, non ti dare disturbo, dormirò io sul divano.»

Lei mi guardò e sorridendo mi chiese: «Sicura?».

Certo che no. Non sarei mai riuscita a dormire sul divano, abituata com’ero al letto grande di casa Bruni con il materasso morbido e il piumino d’oca.

«Certo, sicura» mentii.

Ma lei fortunatamente insistette: «Aspetti un bambino, devi stare comoda».

Annui di sollievo. Andai a stendermi, ma prima avevo bisogno di rinfrescarmi un attimo. Scoprii che il bagno era fuori dalla casa, un bugigattolo di mattoni, infestato dall’umidità e dai ragni. In quel momento mi sembrò tutto faticoso, misero, ma mi consolai dicendo a me stessa che tanto sarebbe stato per poco.

La mattina dopo fui svegliata dal rumore delle stoviglie in cucina, dal vocio di persone fuori casa e dall’abbaiare del cane.

Mi trascinai in cucina. Anna era già indaffarata: preparava strani miscugli di erbe. Le chiesi che ore fossero.

«Le sei, più o meno.»

«Le sei? Ma è presto!»

«Qui ci si sveglia presto.»

Che ci facevo lì? Avevo la nausea, la testa mi girava, la pancia era dura e gonfia. Nel letto scomodo di Anna avevo dormito malissimo, l’unica nota positiva era che non avevo fatto incubi e nessuno dei bambini dell’orfanotrofio era venuto a trovarmi. Scoprii in seguito che Anna e zio Michele avevano nascosto sotto il materasso degli oggetti che tenevano lontani gli spiriti sofferenti.

Anche per questo, forse, mia sorella aveva voluto che dormissi nel suo letto.

Mi lasciai andare sul divano. Davanti a me avevo una lunga giornata e mi sentivo già esausta. Anna mi portò, su un rozzo vassoio di legno con un fiore infilato in un bicchierino, una fetta di pane abbrustolito con del formaggio stagionato, olive sott’olio e una tazza di metallo con dentro un intruglio che profumava di menta. Ero abituata a ben altre colazioni, ma provai lo stesso a mangiare qualcosa perché non ci restasse male.

Finita quella colazione frugale, risposi svogliatamente a qualsiasi proposta di condivisione di compiti. No che non l’avrei aiutata a raccogliere le erbe nell’orto. No che non avrei cucinato con lei – non l’ho mai saputo o dovuto fare –, no che non le avrei fatto compagnia mentre rassettava la casa.

Non so nemmeno io perché fui così scostante. Un sì però lo dissi. Sì, voglio assistere agli incontri con i pazienti.

E così feci, nascosta dietro una tenda perché nessuno mi vedesse.

Una certa Rosalba disse di non avere latte per il suo bambino, e Anna le disse che le avevano fatto una fattura. La congedò dopo aver pronunciato delle strane formule in dialetto.

Un tizio si lamentò di un’insonnia cronica e Anna gli diede delle erbe.

Un bambino continuava a piangere accusando un tremendo dolore alla testa e Anna gli mise le mani sulle tempie. Dopo poco il bimbo smise di piangere e lo sentii ridere a crepapelle.

Quando tutti andarono via spostai la tenda.

Anna era seduta in poltrona, con gli occhi chiusi e la testa leggermente piegata.

Le chiesi se fosse stanca, e annuì debolmente.

Le chiesi perché lo faceva, allora, e lei mi disse soltanto che quello era il suo destino e l’aveva accettato.

Non capivo perché si desse tanta pena per dei poveracci. Nessuno le aveva dato dei soldi, per i suoi servizi; l’avevano pagata con forme di formaggio o ceste di pomodori. Uno, poi, in cambio della cura le aveva dato un libro. Anna ne era stata felicissima.

Avrei dovuto, e forse anche voluto, prepararle io la cena per alleggerirla almeno da quella fatica, ma non avrei saputo da dove iniziare. Guardai quei due miseri fornelli alimentati con una bombola a gas, aprii la dispensa e la trovai vuota. C’erano solo uova, verdure e dei sacchi di farina: come facesse mia sorella a tirare fuori dei pasti da quelle cose per me rimase sempre un mistero.

Un giorno, mentre si dava da fare come al solito per preparare il pranzo, Anna mi guardò come se potesse leggermi nei pensieri e sorridendo disse: «Piano piano. Piano piano ti abituerai».

Il tono era benevolo, e proprio per questo mi infastidii: «A questo devo abituarmi? All’umidità che ti spacca le ossa, agli insetti ovunque, alla miseria? Mai» risposi senza mezzi termini.

Anna non se la prese: «A me non sembra così male tutto questo, ma si sa che le donne incinte hanno frequenti sbalzi d’umore… Ho giusto preparato un infuso di erba di San Giovanni che è un ottimo tonico… non per niente la chiamano “Scacciadiavoli”!» rise contenta.

Mi misi a fissarla come avrei fatto con me stessa allo specchio. E più cercavo di riconoscermi in quella riproduzione buona di me, più mi sentivo un’aliena.

«Hai una sigaretta?» le chiesi.

«Eva, che stai dicendo? Non puoi fumare nelle tue condizioni. E comunque no, non ce l’ho.»

«Non fumi, bevi tisane, ti occupi del prossimo, vivi con un vecchio in questa baracca che cade a pezzi. Non hai voglia di una vita vera, di una vita tua?»

«Perché, tu ce l’hai?»

«Cosa, una casa vera? Certo.»

«No, mi riferisco alla vita. Ti sembra una vita quella che vivi tu?»

«Almeno sono comoda. E poi qui in che veste sei? Sei una specie di figlia di zio Michele? Ti ha adottata? O sei anche altro? Tipo la sua amante?»

Anna arrossì violentemente a quell’allusione e dilatò gli occhi dalla rabbia. Stavo esagerando, lo so, ma dentro di me c’era qualcosa che mi spingeva a farle del male. Era così serena in quella sua vita modesta, mentre io mi sentivo sempre fuori posto, sin da quando ero nata. Non ero mai riuscita a trovare pace.

La provocai ancora: «E perché curi le persone gratis come fosse una missione invece di farti pagare e avere una vita più decente? Non ci sarebbe niente di male. E invece preferisci fare la sguattera a quel vecchio».

«Non ti permettere, Eva» sbottò Anna allontanandosi dal fornello e minacciandomi con un cucchiaio di legno.

«Dài, colpiscimi.» La guardai con occhi di fuoco, sfidandola.

«Ma cosa stai dicendo? Ma cos’hai? Io voglio solo aiutarti. Perché ce l’hai con me? Ti fa sentire bene offenderci? E perché, perché non siamo al tuo livello? Pensi che dovrei sentire la mancanza del bagno in casa, di un bel vestito nuovo, di uno scialle di seta e non di lana? No. E sai perché non mi manca?»

Restai in silenzio.

«Perché quando è scoppiato l’incendio all’orfanotrofio quell’uomo, che ha sentito che stavo morendo divorata dalle ustioni, mi ha salvata e curata. E poi mi ha accolta qui, mi ha dato da mangiare, un tetto, dei vestiti. Mi ha insegnato a mettere a disposizione il mio dono.»

Anna prese fiato e poi proseguì: «Non mi ha mai toccata nel senso che intendi tu. Mi ha sempre rispettata. Io gli devo la vita. E ora che ci sei anche tu potremmo essere una vera famiglia e crescere insieme quel bambino che porti in grembo.»

Io non dissi nulla. In quel momento provavo solo disagio per tutti quei cambiamenti sgraditi che il mio corpo stava subendo e per quello squallore in cui ero costretta a vivere.

Ma se Anna voleva una famiglia, l’avrebbe avuta, anche senza di me.