2 luglio 2018, alba
Dalla finestra della sua stanza, Angelica contemplava il giorno che si risvegliava col mento appoggiato sulle braccia, incrociate sul fresco del davanzale umido di rugiada. Il sole si affacciava dalla Murgia contagiando l’orizzonte con la sua tenera luce che più tardi sarebbe diventata fuoco.
Aspettava che diventasse finalmente giorno.
Le era capitato spesso di alzarsi all’alba per illudersi di ridurre l’attesa di qualcosa di importante che avrebbe dovuto fare durante la giornata.
La segretezza che impregnava quel momento solo suo le dava la sensazione di essere l’unica persona sveglia in città. Immaginava tutti gli altri: a occhi chiusi, fluttuavano indifesi nei loro mondi di sogno.
Anche sua madre.
Ma Adele, sognava ancora? Desiderava ancora qualcosa?
Erano questi i momenti in cui nonna Anna le mancava di più: lei era la sentinella dei loro sogni. Ed era la prima a far prendere vita alla casa.
Alle 7.30, quando lei e Adele si svegliavano, la trovavano già indaffarata in cucina fra i tegami che sbuffavano.
A volte Angelica si alzava prima solo per condividere quel momento speciale con lei.
Arrivava in cucina a passi felpati – anche se la nonna si accorgeva subito della sua presenza –, si arrampicava sullo sgabello di legno e incrociava le braccia sopra la tovaglia di plastica decorata con girasoli enormi.
«Vuoi una tazza di latte?» le chiedeva come se la stesse aspettando. E infatti la tazza era già pronta. E lei ci lasciava cadere, di nascosto da Adele, anche qualche goccia di caffè: «Fa bene alla pressione».
Poi Angelica le raccontava cosa aveva sognato, se aveva fatto degli incubi. E a questi la nonna era particolarmente interessata, perché le chiedeva di ripeterle più volte i dettagli del sogno come se in essi si nascondessero segnali di premonizioni.
Angelica le sorrideva, poi insisteva per vedere i cartoni animati. La nonna accendeva il televisore solo per vedere le soap opera, diceva che la rilassavano.
Quando Angelica cercava di capirci qualcosa, la nonna le raccontava sempre la stessa storia.
«Ma sono ancora a quel punto, nonna?»
«No. A dire la verità nel frattempo si sono sposati altre due volte, hanno fatto qualche figlio, poi sono tornati insieme.»
«Ah» rispondeva Angelica, fingendo di capire il mondo degli adulti.
Quanto le piacevano quegli intrecci amorosi, quelle dinamiche di cui in casa non sentiva mai discutere! Gli uomini non erano mai passati da lì; però adesso c’era Vittorio…
Come sarebbe stato accoglierlo in quelle mura matriarcali e solitarie?
Le sarebbe tanto piaciuto avere un padre così. Ma purtroppo Vittorio, anche se non era felice, era sposato.
Mentre il cielo si tingeva dei colori dell’alba, Angelica era sveglissima e agitata, il cuore le batteva forte.
Non poteva credere che quel ragazzo incontrato al funerale l’avesse prima portata a fare un giro in moto e poi l’avesse invitata a passare la festa della Bruna insieme a lui.
Neanche conosceva il suo nome. Si sentiva una sciocca per non averglielo chiesto.
E lui conosceva il nome di lei? Magari non era la prima volta che tentava di avvicinarla, e il funerale gli aveva offerto l’occasione di farlo.
Chissà quante volte era stato seduto sul muretto della piazza, in attesa che lei passasse, solo per guardarla… chissà. E ora lo avrebbe incontrato di nuovo, lui le avrebbe preso la mano, le avrebbe detto il suo nome e poi magari l’avrebbe baciata… Angelica sognava, costruiva castelli di fantasia. Ma era così bello sognare, e lei se lo concedeva sempre così poco.
Con il sorgere del sole le arrivarono alle orecchie i primi suoni del fermento per l’inizio della festa della città. I primi botti si sentivano già esplodere in lontananza, e presto sarebbero stati sempre più vicini. Se la nonna fosse stata ancora viva, l’avrebbe trovata più sveglia che mai, perché quello, per Matera, era il giorno più lungo e spettacolare dell’anno.
La festa della Madonna della Bruna, protettrice della città, iniziava.
E per sua nonna, che non amava molto la Chiesa o le feste religiose, quella era un’eccezione. Perché le piacevano le luci, i fuochi d’artificio e perché in quella giornata poteva finalmente riposarsi dal viavai dei clienti della bottega.
Si sedeva sulla seggiola fuori dalla porta di casa e guardava. Tutti passando da lì la salutavano con devozione.
La festa iniziava già alle cinque del mattino, con la messa all’aperto in piazza San Francesco d’Assisi, a cui Angelica, con gli occhi pieni di sonno, venne trascinata una volta da sua madre e don Franco, mentre sua nonna si stringeva nello scialle borbottando contro quella costrizione.
Di quel giorno Angelica ricordava la tristezza sua e degli altri bambini, portati lì a forza come lei, nel vedere le luminarie ancora spente, senza magia. Non vedevano l’ora di vivere la parte più divertente della festa: quella in cui avrebbero comprato dolci e giocattoli alle bancarelle, in cui avrebbero giocato a nascondino in giro per i vicoli, in cui avrebbero goduto del brivido di essere liberi di andarsene in giro in quella notte infinita illuminata a giorno da migliaia di lampadine accese.
«Lei quando arriva?» aveva chiesto alla madre, tirandole la gonna.
Lei, la Signora, la statua della Madonna: era la più attesa. Preceduta dalla banda della città, veniva portata in processione su un carro adornato di statue colorate di santi e fiori candidi, tirata da quattro muli con finimenti da parata e pennacchi perlati.
Una volta aveva domandato a nonna Anna se la Madonna le piacesse. «Sembra buona. Ti protegge, dice don Franco.» A dire il vero la Madonna le ricordava proprio la nonna. Ma la nonna aveva risposto: «Sono le persone buone ad aiutarti, la Madonna non sempre con me l’ha fatto».
Ed effettivamente, dopo la morte di Monica Fasano, sembrava che quella statua fosse più propensa a essere protetta che a proteggere. La Madonna, così fiera nel suo vestito bianco e con la corona d’oro, veniva scortata, insieme al bambinello che teneva in braccio, dai cavalieri della Bruna, bardati con corazze ed elmi piumati alla spagnola, e da decine e decine di preti di ogni età con chierichetti al seguito.
Chissà se anche quell’anno la festa sarebbe riuscita o se il retrogusto amaro della perdita di una giovane vita avrebbe guastato l’esultanza e i sorrisi.
La giornata era ancora molto lunga, così Angelica decise che sarebbe andata a trovare nonna Anna al cimitero.
La sua tomba, a terra in un prato bruciato dal sole, si trovava accanto a quella di un bambino morto piccolissimo. La sua foto sulla lapide di marmo era talmente consumata e ingiallita che non riusciva a distinguere bene il volto, ma poteva leggere la scritta smaltata sotto il suo nome: “Le anime dei bambini giocheranno in eterno”. Angelica l’aveva sempre trovata vagamente inquietante.
Aveva comprato una rosa bianca per la nonna. Gliela posò sulla tomba e poi si sedette sull’erba a gambe incrociate, abbracciandosi le ginocchia spigolose. Il sole scottava la pelle, non c’era un alito di vento. Di colpo fu attraversata da un brivido e le venne in mente un particolare a cui non aveva mai pensato, da quando era capitata all’orfanotrofio abbandonato.
Quella giostrina, vecchia e arrugginita. Nonna Anna, quando la accompagnava al parco vicino a casa, non voleva mai che lei giocasse sulla giostrina tonda, smaltata e lucida di vernice rossa. Andavano bene gli scivoli, i ponti di corda, le altalene, ma la giostrina no. E non serviva piangere o protestare sino allo sfinimento, la nonna non voleva sentire ragioni. Una volta aveva sorpreso la nonna a fissare proprio quella giostrina. Girava, anche se sopra non c’era nessuno.
«Nonna, ci posso salire?» aveva chiesto come sempre Angelica.
«Non vedi che è occupata?» le aveva risposto la nonna. Angelica era piccola, ma era rimasta impalata a osservare quelle poltroncine libere e vuote.
«Nonna, ma lì sopra non c’è nessuno!»
Era stata l’ultima volta che nonna Anna l’aveva accompagnata al parco.
Angelica sentì delle voci impossessarsi del silenzio del luogo. Alzò la testa e oltrepassò le lapidi con lo sguardo, scoprendo ombre informi che vagavano come spettri nei corridoi scuri del cimitero.
Si alzò e le seguì, poi si nascose dietro una parete di marmo azzurro, con una ventina di lapidi e i fiori che spuntavano come uncini dal muro.
Vide un gruppo di uomini e donne parlare fitto fitto in cerchio come fosse un’adunanza misteriosa. Le sembrò anche di scorgere dei bambini, scuri come quelle ombre, inseriti nel cerchio e sigillati al loro interno.
Poi tutti si girarono e fissarono il punto dove lei si era nascosta. «Vieni, Angelica, ti stavamo aspettando» le dissero, facendole segno con le mani di avvicinarsi. Lei li riconobbe, e la paura la invase.
Erano Achille, Orso, Allegra… c’erano tutte le persone ritratte nella foto di nonna Anna, quella che aveva preso fuoco. I bambini, come uno sciame, corsero verso di lei. Avevano i vestiti bruciati, i corpi ustionati. Tentò di fuggire, ma i suoi piedi erano piantati a terra e si stavano sciogliendo nel cemento, fino a farla sprofondare. Si dimenò, urlò. Precipitò nel buio.
Di colpo spalancò gli occhi: era nel suo letto, il lenzuolo tutto attorcigliato al corpo. Mentre il cuore le batteva impazzito, si rese conto che era stato solo un brutto sogno.
«Ma quanto hai dormito? Oggi è la festa della Bruna, non ti sei mai svegliata così tardi!» disse Adele entrando in camera e aprendo le finestre.
Angelica doveva essere tornata a letto ed essersi riaddormentata dopo l’alba, stremata da quell’attesa, dal battito accelerato del suo cuore e dai ricordi. Si girò su un fianco e prese il cellulare per guardare l’ora: erano le due del pomeriggio.
«Scendi, amore, che ti preparo qualcosa da mangiare» le disse Adele sollecita.
«Sì, ora arrivo» rispose Angelica con la bocca impastata di sonno.
In corpo sentiva ancora la paura dell’incubo: che legame c’era tra quella giostrina, la scritta sulla tomba e le anime che continuava a vedere?
Quanto avrebbe voluto parlarne con la nonna! Lei avrebbe saputo cosa fare. Ma forse avrebbe potuto aprirsi con Vittorio, lui si sarebbe sforzato di capirla. Decise che lo avrebbe fatto l’indomani. Aveva qualcosa di più importante a cui pensare, ora. L’appuntamento con il ragazzo senza nome.
Dalla finestra aperta arrivavano i rumori della città: erano già state sistemate le transenne, e Angelica sapeva che nelle vie a quell’ora era quasi impossibile circolare, la folla aveva già iniziato a impossessarsi dei vicoli e dei muretti per scattare le fotografie.
Si infilò un paio di leggings, una maglietta scura a maniche corte e le All Star rosse che le aveva comprato Adele. Pettinò con cura i suoi capelli corti davanti allo specchio: non vedeva l’ora che crescessero per potersi fare di nuovo la treccia, ma anche così non stava male. Quel taglio le valorizzava gli occhi, che sembravano più grandi.
Scese in cucina e ingurgitò la frittata con pomodori e olive che sua mamma le aveva preparato, annaffiandola con abbondante spremuta d’arancia.
Quando rialzò gli occhi dal piatto, si accorse che Adele si era vestita e truccata con cura.
«Esci?» le chiese perplessa.
«Certo tesoro, vado alla festa.»
«Ah. E con chi ci vai?»
«Come con chi ci vado?» disse Adele controllandosi il rossetto nello specchio. «Con te.»