III

A Tano Squillace gli morì il papà. Fu un colpo di paralisi, il secondo. Il primo l’aveva avuto tempo fa e gli aveva lasciato un braccio e una gamba offesi e un occhio semichiuso. L’avvocato Squillace era stato podestà, ma dall’entrata degli americani s’era afflosciato, non era uscito più di casa.

Il Mùstica fece scappare dal portone i ragazzini che facevano macchie e scarabocchi sui fogli protocollo per le firme. Un bastaso ci aveva scritto Sara Mavazza, che era una che ci avevano fatto la fila prima i tedeschi e poi gli americani dietro la porta. Filippo scancellò Sara e ci mise la firma sua e quella di suo padre, bella grande a stampatello, così tutti la leggevano, per dire che suo padre aveva scordato tutto. E mi passò la penna: che ce la mettevo, io forestiero, chi mi conosceva?

Trovammo la stanza del morto piena piena. Tano era vicino al tabuto, con sua madre, sua nonna e Seminara accanto. Quando ci guardò, gli andammo a stringere la mano e ci mettemmo dietro. Seminara pareva gli era morto a lui, neanche ci degnò, si dava arie.

La nonna di Tano aveva una montagna di capelli bianchissimi arruffati, montati come zucchero filato, e invece di tenere lo scialle sulla testa, si passava il tempo a piegarlo e spiegarlo sopra le ginocchia.

Mai visto l’avvocato, sap’egli se somigliava a Tano. Ora non si capiva, così tutto stracangiato.

La nonna s’era alzata e faceva:

«Figlio, figlio, fiato del cuore mio, dormi, dormi: oh oh, oh oh, sto figlio dorme e sua mamma no... St! Muti tutti!» e gli carezzò la faccia sotto il velo.

Poi disse:

«Cavaliere è!» sfidando tutti in giro con lo sguardo.

La nuora la tirò per la vestina e la fece risedere. E mi parve che Tano sorridesse, mah, certo che la vecchia era curiosa forte.

«O la morte puttana!» bisbigliò una dietro a me. «Se si pigliava la maestra a cangio dell’avvocato, che sconcio mai faceva?»

Sul punto che arrivò il maresciallo con la moglie, sta vecchia ribellò, le prese lo scarmiglio:

«Essa fu, maresciallo, tradimento! Non voleva medicine e lei invece gli mise le mignatte, l’altra notte.»

Chi poteva più tenerla?

«Essa fu! Per la bile gli prese un altro colpo: c’è un letto di sangue e di mignatte, vada a vedere, vada a vedere! Mia nuora è l’assassina!»

La calmarono, la portarono di là e Tano pianse forte con sua madre.

Le visite andavano e venivano, Seminara si pigliava pure lui le condoglianze coi baci per lo sbaglio che il morto avesse un altro figlio.

«Lo sa don Sergio?» ci chiese Seminara voltandosi a malapena.

«Glielo vado a dire» e il Mùstica scappò, ché una cosa la diceva e faceva.

Ritornò la vecchia strologa che pareva mascherata: il cappello di paglia con la rosa, la faccia infarinata, lo spolverino bianco, la valigia.

«Vado a Roma a parlare col duce,» annunziò «gli racconto tutto per filo e per segno.»

Fu una risata generale. Tano si nascose la faccia tra le mani e si mise a sussultare, Seminara sorrise solo un poco, la signora si coprì la bocca con lo scialle.

«Non c’è morte senza riso, non c’è nozze senza pianto» disse ancora dietro a me quella di prima.

La vecchia la chiusero questa volta in camerino con una donna a guardia.

Tano non s’era accorto di don Sergio ch’era entrato, preso com’era a trattenere le risate, e quando Seminara lo toccò col gomito, s’alzò svelto e si buttò tra le braccia di don Sergio. Gli tremavano le spalle e non si poteva capire se rideva ancora oppure piangeva. Ma piangeva, piangeva, ché, quando don Sergio lo staccò da sé, aveva le guance umide e gli occhi ancora in lacrime.

Ce ne andammo tutti nel salotto, don Sergio e i compagni di Squillace. Sul canterano c’era roba per fare una scialata: marsala e guantiere di biscotti, pastesecche e cestini pieni d’uova.

«Hai mangiato?» chiese don Sergio a Tano.

«Niente!» rispose Seminara.

«Male. Rompigliene uno nel bicchiere.»

Seminara riempì di marsala fino a metà, ci ruppe l’uovo dentro e Tano fece le mosse che non voleva, ma, con un po’ di pressione, lo inghiottì d’un fiato e fece una smorfia come di sconcerto. Poi le pastesecche, e sceglieva quelle con l’amarena e il chicco di caffè. Un altro bicchiere: Tano si fece rosso, due bolli sulle guance.

Nella stanza del morto si sentì un gran fracasso, grida e pianti, scappa scappa. Vennero nel salotto due donne come furie, misero il canterano sottosopra, tirarono dai cassetti panni e cotone fenicato: dice che l’avvocato era scoppiato. Avevo sempre sentito di sti morti che scoppiano e avevo creduto a un gran botto col sangue e le schegge che sporcano mura e soffitto. Ma mi accorsi solo del puzzo che avanzava dall’uscio, un puzzo mai sentito, pesante e grasso che pensai di colore giallo.

Tano rimase con una pasta nella bocca e la sputò, si sbiancò come gli si fossero spente le lampadine in faccia. Don Sergio lo trattenne per il braccio e gli impedì di correre di là.

Aprirono i balconi e le finestre, chiamarono il falegname e lo stagnino. Passò pure da noi una ragazza con la pompa del flit e si mise a spruzzare per l’aria un profumo che sapeva di rose.

Quando tutto questo tramestio si calmò, don Sergio si diede due manate sui ginocchi e disse oremus, rizzandosi all’impiedi e pure noi. Ma arrivammo neanche al secondo gaudioso, che suonò l’ultimo rintocco di trapasso e la carrozza era già sotto il portone coi cavalli che pestavano il selciato.

Don Sergio e Seminara condussero Tano da sua madre.

«Soli restammo, soli ci lasciò. Ah, ah, che fuoco grande in questa casa!» e si dava pugni la signora e scuoteva la testa.

«Buona, buona, signoruzza bella» la confortavano le donne. «Si deve capacitare.»

Davanti al cancello, quattro bastaselli tenevano le conche per i manici e, appena ci videro spuntare, buttarono nel fuoco il miele dei cipressi e fecero un gran fumo. Ma non era tutt’oro quello che luceva: sicuro ci avevano infilato le pezze e le carte chissà fatte di che, poiché troppo fumo c’era e l’odore non era tanto buono. I bastasi sapevano anche loro che l’avvocato morto ci aveva le campagne e pensarono di allungare il brodo.

Nella cappella FAMIGLIA SQUILLACE, Alfa-Omega, l’arciprete col piviale nero cantò il Dies irae e diede gli ultimi colpi di aspersorio.

Dalla collina del cimitero il paese l’avevamo sotto i piedi, trame e trame di vicoli e lo spacco netto della via nazionale, le case nane e i casoni dei civili, il Comune, la Matrice, gli Istituti, i capannoni affumicati della stazione. L’Inganno e il Furiano, col letto largo e una lingua d’acqua, lo stringevano da una parte e dall’altra e lo chiudeva il mare. Pareva un’isola. Il binario correva sulla riva tra le canne e il ricino: il treno delle quattro era passato o non era passato? (Uno, Elia, pescatore, andato al matrimonio dell’ex zita, poi, aspettando le quattro, scrisse ADDIO coi confetti sopra la scarpata e si distese a faccia all’aria sul binario.) Dice che in continente sono senza fumo, ma come può essere senza fumo? Tutto per forza d’elettricità. Pare na stonatura, come dire un uomo senza barba. Lo voglio vedere un giorno il continente: Roma il Papa il Parlamento, Milano Mussolini appeso, Torino la Casa col Padre Generale.

Da lì il mio paese pareva più vicino, si toccava quasi con la mano, sulla testa del leone, preciso accucciato che dormiva, la montagna. Tutta questa differenza, santodio, che motivo c’era di sfotterci? Va be’ ch’è un paese antico quanto il mondo, che parliamo che nessuno ci capisce, ma ognuno ha la sua lingua, e quelli alletterati, quando parlano, sembrano del Nord.

Don Sergio me lo chiese, un giorno che dicevo la lezione. «Di’ un po’: non sarai mica settentrionale?» e le risate di que’ stronzi mi fecero affocare. Glielo dissero che ero uno zanglé, che avevo una lingua speciale. Don Sergio volle sapere e fece la scoperta che poteva essere colonia francese, che zanglé storpiava lesanglé, non inglesi, ma normanni. Ma non sono neanche uno zanglé, un civile di casino, facce smorte e pertiche di faggio, zarabuino, se ci tiene tanto.

«Zarabuini sono gli arabi» disse don Sergio. «Arabi e normanni: due razze, due classi ben distinte, la seconda s’impose sulla prima e si produsse questo spacco netto che dura fino ad oggi. Questo come si chiama?»

«Il pane?»

«Pen.»

«La madre?»

«Mer.»

«Il lavoro?»

«Travai.»

Non la finiva più.

«Vedete, vedete! Che c’è da vergognarsi, è storia, storia.»

Con me la doveva fare ora la storia. Tanto, francese o non francese, era lo stesso: in questo paese, e per tutti i paesi in giro, quando sentivano zanglé, zarabuino, sentivano diavolo: tutti i mali vizii l’avevamo noi, se non ci ha potuto Mussolini, non ci pote più nessuno a farci diventare cristiani. Dal primo anno m’ero già preso tante bili per sta storia. Quando veniva zio a trovarmi, non vedevo l’ora che partiva: non s’era messo in testa che il vestito di velluto, la zucchetta e l’orecchino qui facevano specie. Uno che non m’aveva mai chiamato zanglé era il Mùstica. Diceva che ognuno è figlio di suo padre e basta, che tutti usciamo dalla stessa tana, il meglio che si sente. E don Barrajo, che m’aveva suggerito: «Quando ti chiamano zanglé, rispondi male parole nella tua lingua».

Don Barrajo era simpaticone, poteva aver ventun anni e pareva un caruso come a noi. Mi prese a ben volere dal primo giorno che spuntai all’Istituto, così spaventato che, se non era per lui, me ne tornavo al paese e vaffan pure la scuola e il Dazio di zio Peppe. Peccato che don Barrajo l’avevano trasferito da poco all’Istituto di Randisi. Mi dispiacque vero quel pomeriggio che partì. E lui stesso non mi parve tanto contento. Aveva due valige e la leggera gliela portavo io. Le mani dietro la schiena, scavava con la punta della scarpa nel terreno, mentre mormorava pei trasferimenti, ogni anno, che non danno manco il modo di vedere, di conoscere i carusi, la gente d’un paese. E poi si stette muto, e il treno non veniva. Non entravo alla stazione dal tempo che bazzicavo con la corriera: c’era sempre quella palma nana nana che pareva si seccava, la fontanella asciutta, il cubo di traverse accatastate, quel vagone merci sul binario morto. Poi mi disse don Barrajo, affacciato al finestrino: «Se tuo zio passa sempre da Randisi, vieni qualche volta. C’è l’Etna là sopra, e fuma nera, come una calcara. Come questo treno...» e sorridendo si sventolò con la mano il fumo dalla faccia mentre il treno si muoveva.

Verso le Madonie un nuvolone s’era rotto, scomposto in macchie nere come pecore, e una s’era posta avanti al sole, che così mandava lunghi raggi per tutto il cielo, distanti l’uno dall’altro e consistenti da sembrare d’ottone come quelli dell’ostensorio sull’altare. La campagna brillava ancora verde di muschi ed erba acre. Sulla collina tirò la brezza di tramontana, così fredda che faceva lacrimare gli occhi. L’inverno era già maturo, che si voleva? era già Natale. Ed anche il giorno si chiudeva, troppo presto: giorno d’inverno che scura in un pugno.

Don Sergio ci fece premura che, su su, svelti, cominciava la funzione, sentite le campane? Filippo mi tirava per la giacca e mi fece capire di rimanere indietro. «Ce la svigniamo, dai, tanto questo non se n’accorge, non ci conosce ancora molto bene.»

Tutti i viottoli di campagna li sapeva lui, per poco un cane non ci ficcava i denti. Arrivammo ad una casa tra gli ulivi e Filippo bussò forte. Una donna venne ad aprire.

«Che fu?» chiese.

«Io sono» disse Filì.

«Ah, tu: fammi il favore, non mi restò manco na goccia» ed allungò una mano dietro la porta e gli porse una lancella. Andammo fino alla gebbia e Filippo non volle lo aiutassi, protestava che da solo la puoteva, ma camminava obliquo ed ansimava, con la lancella appoggiata sopra il fianco.

«Se vuoi, entra. Ma sta’ dietro la porta, e non fiatare» mi disse Filì.

«Mettila, mettila là» fece la donna. «Se è scuro, appiccia.»

Filippo sfregò lo zolfanello sui mattoni, accese il lume, e il puzzo di petrolio si sparse per la stanza. Era tutto netto lì dentro, ordinato: le pareti bianche e lo zoccolo celeste, la trave e le canne del cielo pure imbiancate; il letto ben squadrato e alto, la fornacella sotto la finestra, i tegami e le pignatte appesi ai chiodi, e le teste d’aglio, il lauro, il ventaglio.

La donna venne al tavolino al centro della stanza, spostò il boccale, piegò da una parte la tovaglia e rovesciò sul legno i ceci da un setaccio.

«Vie’, portati la luce e aiutami a mondare sti legumi.»

Filippo, il lume in mano, guardò dalla mia parte, abbassò la testa, e si sedette con quella al tavolino.

La donna era svelta nel mondare, moveva le dita tra i ceci e separava come le galline che beccano il granone, trovava le pietruzze e le buttava dietro le spalle, verso la porta. Ma non guardava sopra il tavolino, guardava oltre, gli occhi alti e fissi, come prima, quando venne sulla porta, come quando parlava con Filì.

«Fammi sto conto» disse a un certo punto. «Tre chili e cinquecento per quaranta meno venticinque che mi restò a dare.»

Io lo feci subito quel conto, scrivendo con una pietruzza sopra la lancella.

«Centoventicinque?» azzardò Filì, dopo un poco.

«Mai: centoquindici deve fare.»

Filippo mi guardò ed io gli abbassai la testa per conferma.

«Giusto» disse Filì.

La donna, con il braccio, fece cadere i ceci dal tavolino dentro il setaccio e l’andò a posare sulla fornacella. Si slegò il fardale dalla vita, vi si pulì le mani, si tolse pure il fazzoletto dalla testa. Era bionda, con una treccia che le girava sopra la fronte; e gli occhi mi pareva avesse chiari, molto chiari.

Ritornò da Filippo, con dietro l’ombra lunga che le faceva il lume sopra il tavolino, gli mise le mani sulle spalle.

«Mi porti, domani, na saccoccia di rena asciutta dalla plaia? Devo cuocere sti ceci, per Natale.»

Le mani gliele posò sopra la testa, e Filippo si girò verso di lei.

«E mi devi leggere ancora la lettera di Nino, me la scordo sempre...»

Si mise a passare le dita sulla faccia di Filippo, adagio, dalla fronte, sopra gli occhi, sulla bocca, fino al collo. Filippo le cinse la vita snella con il braccio e le poggiò la testa sopra il petto. Poi s’alzò, se la strinse bene con tutte due le braccia, premendola contro il tavolino.

Il lume barcollò e stava per cadere, se Filippo, svelto, non lo afferrava con la mano.

«Stùtalo» disse la donna.

Filippo soffiò nel tubo e divenne buio fitto nella stanza. Ma poi la luna, per la finestra, cadeva sulla fornacella e sui mattoni con una larga striscia.

Loro erano sempre fermi vicino al tavolino, la donna che faceva: «Nino, Nino...».

Poi camminarono verso il lato scuro, dove c’era il letto.

La luna dopo aver fatto il giro della stanza, se n’andò via, oltre la finestra, dietro il cantone della casa.

Io non ce la facevo più a restare, così sempre impalato, contro la porta, la lancella che trasudava e mi bagnava la gamba: mi stavo piegando adagio sopra le ginocchia, ma il ferro della porta si abbassò e fece un verso come un miagolio di gatto.

«Chi è?» gridò la donna.

«Nessuno» disse Filì.

«Come, nessuno?»

«Il vento fu.»

«Il vento, sì... Vattene, va’, torna domani.»

Filippo aprì la porta, m’afferrò per il braccio e fummo fuori.

«Filì...»

«St! Zittiti. Mannaggia a chi si mette coi carusi. Se quella si accorgeva davvero.»

«Ma io...»

E fermati, bastardo! Correva avanti, non mi dava conto.

«Filì, e parla!»

«Uh, che prescia...»

Mi pareva un altro, nel giro di mezz’ora s’era fatto come i grandi: vaffan, Filippo, va’!

Sbucando dagli ulivi, ci trovammo ad una balza tonda bagnata fino all’orlo dalla luna. Era un’aia, una terrazza, oltre la quale buio fitto, fino al paese a filo sotto gli occhi, le luci delle case e delle strade affogate e tremolanti.

«Se mi butto di qua,» disse Filippo «vado a finire a cavallo sopra il monumento.»

«Facciamo un’altra cosa, qualcuno aprirà l’ombrello.»

«Vallo a fare al tuo paese!»

«Sta troppo in alto, bisognerebbe salire sopra il cielo.»

«Allora getta sangue, gira le spalle o te n’arriva una!»

Finii prima e gliene assestai una di pianta: Filippo barcollò e si bagnò le scarpe. Fortuna se la prese a ridere, mi inseguì per rendermi la parte: era tornato coi modi naturali.

Di fronte c’era il mare, alto fino ai nostri occhi, con la fila di luci di barche che facevano su e giù per l’acqua un poco mossa: parevano lanterne appese ad una corda, scosse dal vento. Domani si mangia sarde, ma la signora aspettava che fetevano prima di comprarle. Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte, femmine, correte, prima che si squagliano.

«È una orba» disse Filì tornando a quella donna. «Me l’insegnò Nino, un manovale che partì per l’Argentina, ma ha dovuto dire che sono suo fratello e ho vent’anni.»

«E per la barba, niente dice?»

«Dice che non le fanno genio le facce di carta vetrata. Ma che ti pare? Il baffo me lo taglio, e le basette.»

«Ma tu, quant’anni hai?»

«Eh, ne feci quindici e vado per i sedici.»

«A me pareva tredici, quattordici... Filì, ma com’è?»

«Che?»

«L’orba.»

«Bah, mai l’ho vista, e che si fa vedere, che m’interessa?»

«Filì, e... com’è?»

«Non si può dire, ognuno a modo suo... Ma ti pare se non aspetti i quindici ti portano in galera?»

Un cirneco venne avanti sopra l’aia – uno di quei cani di campagna che sembrano scampati a sette malannate, tanto son tristi e scavati nella carne. S’arrestò al centro del chiarore, fiutando l’aria per i nostri corpi.

«Cane morto quanto sta?» dissi calandomi ed afferrando un sasso.

«Sta niente, cazzo!» e, con un balzo, m’afferrò il polso, mentre il cane, al tramestio, s’infilava correndo dentro l’ombra.

Succedeva che Filippo questa sera l’aveva di traverso, non si capiva.

«O camorrìa, che t’hanno incaricato a far le leggi questa sera?»

«Leggi o non leggi, se vuoi star con me, devi finirla col piscio e con i cani...»

Si sedette, stringendosi le gambe con le braccia, poggiando il mento sopra le ginocchia, come ogni volta che inseguiva i suoi pensieri. Frugò dentro le tasche, tirò una sigaretta e se l’accese. A metà me la passò senza guardarmi.

«Un giorno di questi,» disse alzandosi «mi metto a fumare al centro del cortile.»

Alla marina le donne avevano acceso i fuochi e suonavano le brogne a tutto fiato: si vede che minacciava brutto e chiamavano le barche a ritirarsi. Erano i vecchi seduti dietro gli usci che spiavano il tempo e lo capivano come una faccia d’uomo, erano loro che davano i comandi. Infatti, già, alle isole, il cielo si spaccava per i lampi.