[…] ostinato al tuo vero, / insegnami il sentiero / astuto e triste dove sei passato, / la soglia d’aria / dove resisti e vinci.

FRANCO FORTINI, A Carlo Cassola

Leggere la narrativa di Carlo Cassola può avere oggi, e lo ha paradossalmente, la funzione di un antidoto. Non è solo l’incontro con uno scrittore che fra gli anni Cinquanta e i Settanta del secolo scorso ebbe, specialmente con i suoi romanzi (da Fausto e Anna, ’52, a La ragazza di Bube, ’60; da Un cuore arido, ’61, a Paura e tristezza, ’70), un vasto successo di pubblico, quasi incarnasse l’epica dignitosa, laconica, di un paese finalmente scampato al fascismo e ai disastri della guerra; nemmeno è il riconoscimento o il semplice recupero di una fisionomia testuale classica nella sua essenzialità, perché spoglia di orpelli retorici e persino ossessiva nella posata modulazione che si percepisce sulla pagina come un moto necessario, inderogabile: a rendere Cassola fraterno al lettore è, piuttosto, un ritmo che si avverte nel profondo, un passo cadenzato sul respiro, ovvero la mano dell’autore educata al punto sottile di chi viene computando, quasi grano a grano, il dolore che affligge gli esseri umani, un dolore in sé misterioso, mentre costoro vivono o semplicemente provano a farlo.

Nell’epoca della fiction e della produzione di genere, mentre una moda che si proclama postmoderna vorrebbe imporle definitiva subalternità all’invadenza dei media, la pagina di Cassola torna controtempo per testimoniare la più umana attitudine della letteratura e dunque la ricerca di una verità spoglia, laica, temeraria nel suo essere nuda di sovrastrutture à la page come di garanzie e di alibi intellettualistici. Nel suo dato di estrema spoliazione, rinunciando a una poetica programmatica, la narrativa di Cassola si impone infatti fin dall’origine la massima posta, cioè quella di cogliere la condizione di normalità in cui trascorre, nel silenzio e nel grigio, l’esistenza degli esseri umani o, si dovrebbe dire meglio, la vita quotidiana delle donne e degli uomini comuni nel cui anonimato risplende una luce affabile, indelebile, di universalità. Ciò spiega il fatto che nel senso comune e nel ricordo dei lettori l’opera dello scrittore sia tuttora sinonimo di perfezione, di etimologica compiutezza: non tanto lo sviluppo di una storia o la potenza dispiegata di un immaginario, quanto l’evidenza di un tocco, il talento musicale che consiste nel tenere la nota fino in fondo con nettezza di tono e di timbro, come Cassola fa in certi racconti lunghi (Il taglio del bosco, ’50, I vecchi compagni, ’53) dove non succede nulla eppure tutto accade nella massima semplicità, a cadenza fatale, per il dilatarsi di una sensazione o l’effondersi di un sentimento che sia colto allo stadio primordiale e poi venga lasciato al suo libero sviluppo. Anche in questo l’autore è diverso e controcorrente rispetto all’attuale mainstream, perché rigetta il privilegio del narratore demiurgo, vale a dire la premeditazione di una trama e il decorso di una cosiddetta “bella storia”, nello stesso momento in cui si sottrae agli automatismi e agli effetti della drammaturgia romanzesca, come notò precisamente Cesare Garboli: «Raccontare, per Cassola, è sempre stato diverso dal raccontare una storia […] Così Cassola racconta il non-essere: la misteriosa percezione negativa del vivere nella sua durata insieme limitata e infinita, nel suo trascorrere».

Degli scrittori classici Cassola ha l’apparente monotonia, la fedeltà a un universo percettivo, a una trama di presenze e di nomi, di luoghi e di atmosfere, da cui non gli è permesso mai di distaccarsi. Il suo amico Giorgio Bassani rilevò, in proposito, che leggerlo equivale a ripercorrere per altra via il catalogo dell’opera di Giorgio Morandi, un artista che davvero gli è consanguineo nella facoltà di trarre il massimo dell’espressività e della totalità fisiognomica da un minimo di oggetti usuali, perché anche in quel caso una luce apicale, verticale, si spicca dalla polvere che il tempo deposita sugli umili utensili domestici, quali un vaso, una bottiglia o un bricco del caffè. Semmai Morandi si è venuto via via emancipando dalla figura umana fino a liquidarla come inessenziale per ritrovarne l’ombra implicita, gettata sulle nature morte, mentre, all’opposto, Cassola è partito dal lume delle cose inanimate, da interni fissati in un presepe, da esseri che davvero potevano sembrare delle nature morte, per coglierne subito il tratto vibratile, l’animazione inapparente o insomma l’avvio di un movimento che le portasse verso gli altri esseri. Non è un caso che la sua opera prima, La visita (’42), si intitoli a un racconto che in realtà consiste nella letterale animazione di un arazzo (ovvero nella proiezione dell’inanimato in una vita realmente vissuta, in effetti mancata) e tanto meno è un caso che il volume La visita, pur restando un’opera prima, già contenga il patrimonio potenziale di un’arte che la massima studiosa di Cassola, Alba Andreini, ha descritto nei termini di un rizoma dove «centro e margini intrecciano le loro strade in fili sparsi non consequenziali», alludendo al futuro sovrapporsi, nella attività dello scrittore, di racconti lunghi e brevi, di partiture istantanee o invece più diffusamente narrative: è la riprova che l’apparente monotonia dello scrittore dissimula una costante attitudine percettiva e insieme denota la natura di un immaginario formatosi una volta per sempre, cioè un microcosmo tradotto in scrittura dove il centro è visibile ovunque ma i confini non sono individuabili da nessun punto.

Fatto sta che La visita non è soltanto l’incipit di un percorso ma il libro che, debitamente integrato e ristampato da Einaudi vent’anni dopo la sua prima uscita (di questo dice nel dettaglio la stessa Alba Andreini nella seguente Nota al testo), ne rappresenta anche il baricentro, fungendo da bilancio della giovinezza all’indomani del successo ottenuto prima con La ragazza di Bube e poi con Un cuore arido. È questo, sul principio degli anni Sessanta, il momento in cui Cassola si congeda sia dall’insegnamento sia dal giornalismo militante e ritorna al suo libro d’esordio nell’impellenza di traguardare un percorso come di interrogarlo alla luce di una consapevolezza adulta, smagata e anzi per la prima volta chiaramente rivendicata. È anche il momento, per lui, di prendere in prima persona la parola, diviso tra la soddisfazione per un largo riconoscimento di pubblico e il dolore per i sospetti larvati, che presto diverranno insulti gridati, da parte di un establishment il cui maggioritario ha scelto anche nelle cose della letteratura la via di uno sviluppo svelto e frettoloso, verniciato di cosmopolitismo e circonfuso d’aura avanguardistica. Perciò Cassola risponde in anticipo a chi nel Gruppo 63 lo vorrebbe una “Liala”, un arcade dei buoni sentimenti o uno scrittore filisteo, facendo precedere all’edizione ne varietur de La visita un testo pure risalente al ’42, intitolato Il film dell’impossibile e valevole come una dichiarazione di poetica dettata per eccezione, dove il punto di innesco della propria parabola viene fatto risalire in presa diretta alla poesia di Montale (una «vita che dà barlumi», inerte e rediviva solo per intermittenze) ma viene anche riferito al modello di Joyce (il Joyce dei Dubliners, beninteso), a riprova che la “gita a Chiasso” allora invocata dall’interno della neoavanguardia altro non poteva essere che un caso di cattiva coscienza o, peggio, il sintomo di una consapevolezza inconfessabile, quella di chi si vede suo malgrado organico ai nuovi orientamenti dell’industria culturale e agli assetti produttivi del neocapitalismo all’italiana.

La risposta di Cassola ai propri aggressori è preventiva ed è tanto più severa, tagliente, perché implicita e avanzata per forza di cose. Così, in pieno 1962, egli può permettersi di riproporre un libro di racconti scritti per lo più nell’anteguerra, già usciti su «Letteratura» e sulle più importanti testate di allora, senza che un’ombra di calligrafismo, senza che un moto di evasione o di ricreazione riesca mai a ipotecarli. Riordinati in tre parti, essi sono in tutto una cinquantina, dissimili nel tono e nel passo, talora diametrali nell’ambientazione (che può essere Monte Mario o un’Australia da favola esotica, Marina di Cecina o Volterra, suoi luoghi elettivi), si compongono a mosaico secondo un’attitudine cui l’autore ha dato in gioventù, negli anni di uno stretto sodalizio con Manlio Cancogni, il nome di “subliminare”. Il termine si riferisce all’esistenza catturata nel suo stato di assoluta interiorità, di perfetta immobilità, ed è quanto precede l’avvio della vita medesima nei suoi sviluppi imprevedibili. Come se fosse il fermo-immagine che annuncia, per un lasso di tempo indefinito ma proporzionato alla chiarezza della percezione, la dinamica di un film a venire. Per Cassola l’immagine più arcaica, la scena primaria della sua vocazione e insieme corrispettiva al ritratto dell’artista da giovane, è quella inquadrata dal finestrino di un treno in corsa che fissa in una eternità d’istante, montalianamente, anonimi ciclisti fermi a un passaggio a livello. Sono presenze misteriose, sottratte per un attimo al dominio del tempo ma cariche di tutta la vita non ancora adempiuta, come è detto con chiarezza cristallina nel passo che avvia Il film dell’impossibile:

Il fondamento della bellezza di un quadro, di una stampa, di una fotografia è lo stesso: l’immobilità del personaggio. Immobilità apparente piena di moto sostanziale. Perché il personaggio immobile ha tutte le possibilità di movimento intatte […] La sua immobilità allude al movimento, la sua mancanza di vita alla vita, l’assenza del tempo al fluire del tempo.

Il sentimento del tempo segna il ritmo dei racconti. La scansione è puntiforme, un flusso che duplica il moto lento e inarrestabile di una clessidra. Tuttavia non si tratta di un tempo cronometrico, perché la normale trafila di passato/presente/futuro (e basti pensare a un titolo emblematico, quello del racconto Paura e tristezza, che tornerà a distanza di decenni traslato nella forma espansiva di un romanzo) va in cortocircuito e si traduce nella eterna imminenza del presente, un presente tanto ignaro del proprio futuro da esserne sgomento, in costante postura di allarme, e invece pregno di un passato senza scampo, un’onda spessa e scura che immobilizza i personaggi nel momento in cui li definisce, li individualizza, nei modi di una incisione a sbalzo (e qui si vedano alcuni capolavori: nella seconda parte Alla periferia e La vedova del socialista, nella terza La moglie del mercante che appunto dà il titolo all’ultima sezione). Disse Luigi Baldacci, dettando il necrologio di Cassola, che la memoria costituisce il «tessuto biologico» della sua opera, certo non nell’accezione proustiana del flusso continuo e compatto, cioè di una progressiva erosione o sostituzione del presente ad opera del passato, ma nei termini di una adesione totale dei personaggi alla propria Stimmung e pertanto al peso e al colore di un ambiente, di un clima e di una educazione, i quali sono dati una volta per sempre.

Potrà sembrare sorprendente rilevarlo, ma va detto che nessuno scrittore del Novecento italiano ha tanto diffidato, glacialmente ignorandole, della psicologia come della sociologia, vale a dire le tavole della legge della narrativa ottocentesca su cui hanno puntualmente inchiodato Cassola i suoi detrattori. Fin dai racconti giovanili, l’orizzonte dei personaggi cassoliani è la rappresentazione fenomenologica (che peraltro lo ha associato a suo tempo ai battistrada del nouveau roman, quando nulla gli è più lontano del mondo alienato e totalmente reificato di un Robbe-Grillet, di quegli esseri acefali e robotici che sembrano in esilio dai vivi e paiono vagare alla deriva dentro un labirinto asettico o in un deserto post-umano). È un fatto che i personaggi di Cassola non rientrano nell’ordine dei “tipi” né in quello dei “caratteri” ed è un fatto, d’altronde, che portano sempre dei nomi comunissimi, emblematici – Fausto e Anna su tutti –, cui l’autore fa credito evidentemente di una nozione larga di umanità dove riunire ogni volta l’universale e il particolare, l’essere umano e l’individuo. Costoro non somigliano a figure ideali ma a persone reali, libere e nel frattempo imprigionate entro il proprio orizzonte fenomenico intessuto di poche azioni, di parole espresse con estrema difficoltà, secondo una procedura evidente proprio nei racconti che sembrerebbero più occasionali, dei flash o degli stenogrammi (si veda per esempio Franceschino o Giorgio Gromo), in cui il destino di qualcuno è fissato in un breve frangente e dedotto virtualmente da una muta apparizione o da un minimo gesto, anche da una parola sbadata. Qui, se lo scrittore si vieta ogni intromissione, se impone di tacere alla sua voce fuoricampo, non omette però di inquadrare i personaggi entro una cornice ambientale. Prima che di un contesto storico, si tratta di un paesaggio da cui essi ora assorbono la linfa silenziosa che li fa vivi e definiti; ora, di riflesso, ricevono lo spessore tridimensionale che li stana dall’inerzia e li fa muovere verso il proprio adempimento. Cassola è un grande poeta del paesaggio non nel senso della illustrazione e nemmeno in quello della metafisica (il che esclude l’abusato rinvio sia ai Macchiaioli sia a certe vedute, brumose e desertificate, di un Carlo Carrà che pure egli volle per la copertina della riedizione einaudiana de La visita); lo è invece perché depositario di una immagine trascendentale del paesaggio stesso. Nella sua concretezza, in un nitore di dettagli talvolta accecante, il paesaggio non si limita a perimetrare i personaggi ma li segna e, alla lettera, li permea di sé. In altri termini, è come se il paesaggio fungesse da correlativo oggettivo, supplendo al silenzio della psicologia e della sociologia del personaggio che vive e agisce al suo interno. Monte Mario (con i villini liberty, le trattorie, gli orti e i vasti appezzamenti di cicoria), le spiagge di Marina di Cecina (ventose e assolate, spazi franchi del sogno adolescente), i vicoli cupi e le pietre vetuste di Volterra non sarebbero per Cassola dei fondali pensabili senza gli esseri umani che li abitano. Qui il paesaggio è una couche, un limite e una linea d’ombra amata e temuta, che ognuno ambisce a valicare o a cui si illude, magari, di poter ritornare.

Al riguardo, La visita è leggibile come una sequenza di microromanzi di formazione, come un campionario di destini presagiti, appena tentati o, al contrario, spenti e falliti. Lo dice la galleria dei personaggi che presto diverranno familiari ai lettori, quali il cacciatore, il commerciante, il soldato, lo studente, il giovane artista, l’uomo della bettola e il piccolo patetico viveur. Se costoro sono in genere testimoni estroversi di un impulso, di un’impazienza che non sa nulla della vita e nulla presagisce dello scacco che li attende, al contrario le figure femminili (la ragazza contadina, la giovane borghese, la vedova, la malmaritata) rappresentano un’attesa della vita che può essere perpetua, chiuse come sono nel riserbo e nel mistero del loro stesso corpo, oscuramente consapevoli di una ferita che mai sarà rimarginata, per sempre avvolte (disse un grande critico, Niccolò Gallo, che fu a lungo compagno di via di Cassola) «dall’ombra e dalla malinconia del vivere quotidiano». Quasi che la vita, per essere davvero tale, nelle predilette figure femminili dovesse germinare sempre incognita, gratuita, pronta a fluire soltanto in uno spazio riservato, recluso, e quasi che allo scrittore altro non toccasse se non il muto ascolto, senza alcuna aspettativa per costoro. Al femminile Cassola ha consacrato la sua arte, illimitatamente, e proprio in uno dei racconti giovanili più belli, Gita domenicale, si può leggere la notazione che da sola basta a scolpire l’autoritratto di un esistenzialista:

Eppure non so staccare gli occhi da lei, quasi ci fosse un segreto nella sua vita che dovrei penetrare. Nulla è più stupefacente di un’esistenza comune, di un cuore semplice…

Tuttavia Cassola non è mai sedotto dai problemi astratti dell’essere ma è coinvolto, irretito senza scampo, nel mondo della finitezza. Egli è uno scrittore dell’esser-ci e il richiamo al «cuore semplice» vale ovviamente come un atto d’omaggio a Flaubert, il maestro che si profila in controluce alle spalle dei Dubliners e insieme con Joyce rappresenta il banco di prova della sua iniziazione alla letteratura. Precisione lenticolare nella scelta della parola, sobrietà della sintassi, giro di frase ellittico e ai limiti dello spettrale, prevalenza del luce/ombra sull’utilizzo del colore sono del resto tratti così costanti nella sua prosa da essere riconoscibili alla stregua di una petite musique, pure se va sempre rammentato il rilievo di Giovanni Falaschi secondo cui Cassola «non sente i modelli come fonti linguistiche ma come archetipi di situazioni narrative o di soluzioni strutturali». Dunque il moto calmo e rettilineo, la coesione della pagina che ai vuoti, alle rapide inversioni e ai colpi di scena preferisce il bianco delle dissolvenze, rappresenta il segreto in piena luce di un’arte tesa a metabolizzare il molteplice dell’esistenza (il suo essere normale e atroce, banale e rovinosa) nella fermezza di un solo e implacabile gesto linguistico-stilistico, che può essere variato ma viene sempre reiterato. Chiedersi, come capita talvolta ancora oggi, se Cassola sia un autore “realista” oppure un inventore di “effetti di realtà”, se sia un’anima lirica costretta a trasmigrare e ad istallarsi fra le res durae della vita quotidiana e della storia o se non sia, piuttosto, l’erede laterale di un naturalismo col tempo divenuto inammissibile, equivarrebbe a perdere il segreto medesimo di un’arte in cui la rappresentazione delle cose e degli esseri umani non è un dato di partenza (cioè una scelta mimetica) e nemmeno un risultato (cioè l’esito di una poetica) ma, al contrario, è un rapporto fra soggetto e realtà, è una reciproca tensione che vibra sottotraccia, qualcosa che assomiglia ad un campo magnetico sensibilissimo fra l’“io” (o un “sé”) e il mondo, tra il “film” della vita, impossibile nella sua totalità, e i segni di una scrittura che invece si produce soltanto nella consapevolezza, straziata, della sua parzialità.

Cassola deve esserne stato consapevole fin dai tempi in cui componeva sparsamente i racconti de La visita. Lo rivela un aneddoto, che in sostanza è un apologo, raccontato dal suo amico Cesare Cases, un saggista che ne amava la schiettezza narrativa e il supremo nitore stilistico ma nello stesso tempo gli rimproverava di avere dato voce, in esclusiva, a un mondo di esistenze chiuse, represse, rassegnate, mentre gli imputava l’amore per i borghi e la luce struggente di un’Italia eclissata, defunta, accusandolo di ignorare le nuove forme di esistenza e i problemi del mondo industriale e della società affluente. Racconta Cases:

Quello che non capivo era perché lui non trovasse qualche modo di inserire questo retroscena orrendo nelle sue immagini di bellezza. E lì scoppiava il conflitto, perché odiava gli scrittori tedeschi che secondo lui introducevano questi personaggi sconclusionati, falliti, sull’orlo della catastrofe, pieni di patemi ingiustificati. Mi ricordo che una volta venne alla libreria Einaudi quando io ci lavoravo, a Roma; era appena uscito I sonnambuli di Broch, e lui mi disse: «Dimmi la verità, che questo Broch non esiste, tutta questa gente, questi Thomas Mann, Musil, Broch, non esistono, li hai inventati tu per rovinarci la nostra bella letteratura italiana».

Naturalmente non ignorava l’importanza di quei grandi scrittori, ma sentiva comunque il bisogno di marcare una distanza ed una differenza paventando, ancora una volta, che i beni dell’intelletto (o le armi sempre più micidiali della psicologia, della sociologia, delle neonate scienze umane) potessero oscurare sulla pagina la nuda verità della letteratura o potessero bruciare senza residui, esplodendo in superficie, quanto per lui viceversa era frutto di un processo di continua meditazione e di lenta distillazione, nato nel riserbo di un’arte che era e doveva rimanere figlia della sapienza esistenziale prima che di un sapere culturale. L’amico Cases aggiunge che Carlo Cassola non disse altro, quella sera, e se ne andò non senza avere platealmente reindossato il solito pastrano nero e l’antico cappello maremmano: che gli stolti continuassero a dargli del ritardatario e del provinciale, che i ciechi continuassero pure a non vedere.

L’epigrafe è tratta da Franco Fortini, A Carlo Cassola, in Una volta per sempre [1963], Einaudi, Torino 1978, p. 212.

Tra le definizioni della narrativa di Cassola date da Cesare Garboli, quella riportata si trova nella recensione Paura e tristezza [1970], confluita in Falbalas. Immagini del Novecento, Garzanti, Milano 1990, p. 35, mentre il ritratto di Giorgio Bassani, Carlo Cassola, la verità sul caso [1955], è in Di là dal cuore, Mondadori, Milano 1984, pp. 180-81 in particolare.

Un profilo dell’autore intitolato Il romanzo delle origini (di cui si cita la p. XXXII) introduce l’impeccabile edizione del volume Carlo Cassola, Racconti e romanzi, a cura di Alba Andreini, «I Meridiani» Mondadori, Milano 2007.

Manlio Cancogni torna agli anni dell’antico sodalizio nella Introduzione alla recente edizione de Il taglio del bosco pubblicata nella collana Scrittori moderni degli «Oscar» Mondadori (a cura di Alba Andreini, Milano 2011), mentre la valutazione de La visita come «Arcadia dei buoni sentimenti» è nel saggio di Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea [1965], Savelli, Roma 19756, p. 267.

Il necrologio dal titolo Cassola [1987] è raccolto da Luigi Baldacci in Novecento passato remoto. Pagine di critica militante, Rizzoli, Milano 2000, p. 392; la rassegna Racconti di Cassola [1954] è accolta nel volume postumo di Niccolò Gallo Scritti letterari di Niccolò Gallo, a cura di Ottavio Cecchi, Cesare Garboli e Gian Carlo Roscioni, Il Polifilo, Milano 1975, p. 96; il rilievo sulle fonti linguistiche proviene da Giovanni Falaschi, “Umili esistenze” in umili carte, in AA.VV., Carlo Cassola, Atti del convegno di Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, a cura di G. Falaschi, Becocci, Firenze 1993, p. 118.

L’aneddoto raccontato da Cesare Cases chiude la Tavola rotonda, coordinata da Gian Carlo Ferretti, ibidem, pp. 242-43.