Il fondamento della bellezza di un quadro, di una stampa, di una fotografia è lo stesso: l’immobilità del personaggio. Immobilità apparente piena di moto sostanziale. Perché il personaggio immobile ha tutte le possibilità di movimento intatte, cioè tutte le possibilità di vita intatte. La sua immobilità allude al movimento, la sua mancanza di vita alla vita, l’assenza del tempo al fluire del tempo.

E lo stesso vale per un paesaggio, che potrà essere teatro di qualsiasi vicenda.

Partendo dunque da visioni ferme, cioè da quadri, stampe o fotografie, io volli viceversa raccontare la vita di quei personaggi o le vicende che si potevano svolgere in quei luoghi. Animare una stampa, cioè far muovere e vivere i suoi personaggi, è, appunto, tentare un film dell’impossibile. Generalmente invece ci si limita a dare delle visioni impossibili, cioè quadri o stampe o fotografie e nulla più. Quando io scrivevo: “I ciclisti immobili dietro la sbarra guardavano passare il treno”, descrivevo l’effetto che mi han sempre fatto, viaggiando in ferrovia, i ciclisti e le altre persone ferme al passaggio a livello nella luce della sera: effetto del tutto simile a quello di un personaggio di un quadro o di una stampa o di una fotografia: e in sostanza con quella frase non ho fatto altro che un quadro, un quadro degno (almeno nell’intenzione) di figurare in una galleria dell’impossibile (tutte le pinacoteche o gli album di fotografie possono essere gallerie dell’impossibile, al di là si capisce dell’intenzione del pittore o del fotografo).

Quando Govoni scrive che a Venezia una buccia di arancio in un canale sembrò la scarpina di una dogaressa, rimane sempre ai margini della vita: la vita comincerebbe con la vita della dogaressa, qualora Govoni la scrivesse.

Quando Joyce in uno dei suoi racconti dublinesi ci mostra due uomini che camminano nel crepuscolo inseguiti da una dolce e triste melodia popolare, la melodia conferisce vita ai due uomini. Essi non sono immobili nel senso rigoroso della parola, ma il loro è un movimento uniforme: non sarebbe possibile un’azione cinematografica, un film con due che camminano indefinitamente. Joyce non si azzarda a raccontarci la loro vita, quella creata dalla musica, non ci dice come la loro vita possa proseguire al di là di questa scena, come per esempio uno dei due personaggi, continuando a vivere al ritmo segnato dalla melodia, vada a casa e ceni con la moglie, e la casa e la moglie e la cena siano come lui intonati alla melodia.

“La vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi” dice Montale; ed è vita per modo di dire. La poesia di Montale è caratterizzata appunto da questo anelito verso la vita: ma la vita ci è preclusa: per noi è immobilità, pietrosità. Tutta la poesia di Montale è fatta di barlumi, di segni, di allusioni, di varchi, di occasioni che non possiamo sfruttare. “Nuvole in viaggio, chiari / reami di lassù! D’alti Eldoradi / malchiuse porte!” Il poeta ci dà uno spiraglio, una fugace visione dell’impossibile: non ci descrive la vita nei chiari reami di lassù. Descrive il punto fermo che allude alla vita, non la vita cui è rivolta l’allusione.

Non il punto fermo ma la vita che è moto doveva essere l’oggetto della mia scrittura. E per riallacciarmi a una polemica attuale – quella tra narratori e prosatori o tra narratori e poeti – dirò che la narrazione chiamata a rappresentare moto e vita è certo il massimo a cui tende lo scrivere; ma la narrazione a sua volta deve tendere a riprodurre quel moto e quella vita che sono al di là del limite, che ci si rivelano per segni, barlumi, spiragli, occasioni, giusta la terminologia montaliana: e cioè la narrazione deve tendere a essere una cinematografia dell’impossibile. In questo senso Il ponte di San Luis Rey di Wilder, Il grande amico di Alain-Fournier, L’isola del tesoro di Stevenson mi sembrano tra i romanzi meglio riusciti.

Sono da rigettarsi senz’altro, insomma, le ragioni della narrativa ottocentesca: psicologia, moralismo, tesi polemica, interesse per l’intreccio, umorismo ecc. Scorrere liste di libri sconosciuti o leggere biografie di scrittori ugualmente sconosciuti o leggere critiche in cui grazie a Dio nulla capisco, queste restano sempre tra le mie occupazioni preferite. Perché in tal modo sempre torna in me pertinace l’illusione che quel tale scrittore in quel tal libro e in tutta la sua opera altro non abbia inteso fare che quello stesso che io mi sforzai di fare. Io sono per quella narrazione in cui il sentimento di un personaggio ha lo stesso valore del suo vestito.

Una volta mi attrasse una certa non meglio definita figura (non sapevo nemmeno se uomo o donna) la quale si rassegna nei confronti delle cose del mondo per guardare solo a Dio e ripone ogni speranza in Lui. Un simile atteggiamento di completo abbandono e rifugio in Dio avrebbe logicamente dovuto escluderne ogni altro: invece per me quell’atteggiamento verso Dio non escludeva l’atteggiamento verso l’altro sesso. Vedevo l’oscuro personaggio, la sua semplice, rassegnata e fidente vita, i gesti misurati del culto esteriore, le preghiere che uscivano dalle sue labbra, la serenità del suo cuore che si comunicava alle cose: non c’era che Dio per quel personaggio – e invece ai miei occhi non c’era che l’altro sesso (l’altro sesso, l’unico attributo che soffra l’esistenza). E capitatomi fra le mani un elenco di libri, vi scorsi:

B. Bjorson - Le vie di Dio

Subito pensai che si trattasse di ciò cui io andavo pensando in quel tempo.

Come lettore, potrebbe anche darsi che io preferissi leggere Dickens anziché Joyce e Proust. Ma, d’altra parte, quelle che sono state le basi della narrativa sono ai miei occhi irrimediabilmente compromesse. Dopo aver tentato una narrativa esistenziale, non posso fare della narrativa psicologica o psicanalitica. Dickens mi piace, ma al di là delle sue intenzioni, del suo moralismo, della sua psicologia e del suo umorismo. Mi piace in quanto si presta all’innesto, qua e là, di più o meno brevi azioni cinematografiche dell’impossibile.

Concludendo: la comparsa di un sempre più consapevole esistenzialismo ha gettato a terra la narrativa, togliendo valore a ogni suo antico sostegno. Restaurare la narrativa sulle vecchie basi è pertanto impossibile. Ma – si rifletta bene: la vita è tutto. La narrativa pertanto è la forma d’arte più alta. La poesia è questione di attimi, per ritrovare il tempo bisogna scendere nel racconto.

E si tenga presente che il modello ultimo da tenere davanti è la pagina bianca, il libro che non si è ancora sfogliato o che abbiamo visto in un catalogo.