Il colonnello Delfo viaggiava verso Collie, lungo il Fiume dei Cigni. Il paese era ricco di fiumi, laghi, ponti, e lo animavano comitive di cacciatori in calzoni rossi e giubbe azzurre: seguivano i servi portando fagiani dorati, lepri e cinghiali, e i cani si muovevano nei gruppi. Sullo sfondo le chiome degli alberi ricordavano le felci e le infiorescenze. A Collie Delfo scese in un grande prato dove alcune figure discorrevano con grazia a distanze progressivamente maggiori. L’ampio spazio d’aria era chiuso da un edificio a cupola intorno a cui svolavano gli uccelli come puntolini neri.

Una portantina recava in visita una gran dama. Il colonnello si diresse verso la casa dei Murchison, una palazzina colorata dal giallino al rosso mezzo nascosta nel verde cupo dei cedri. Intorno un muro alto recingeva il parco che arrivava al fiume: così l’abitazione dei Murchison, pur essendo in città, era lontanissima dal mondo e piena di una freschezza campagnola. Attraverso il parco discretamente illuminato dal tranquillo sole pomeridiano, il cameriere introdusse Delfo in una stanza rettangolare. Sulla parete di fondo un gran quadro fastosamente incorniciato rappresentava l’ingresso di Giorgio Washington in Filadelfia. Delfo esaminò la lustra carrozza al cui sportello si affacciava il viso di Washington.

Murchison entrò. Era un uomo alto e scarno; i capelli divisi su una parte e ancora neri gli ricadevano davanti in un ciuffo ricciuto. Aveva la faccia triangolare, il naso lungo, le basette grosse e crespe. La moglie, Carolina, era sui quarant’anni.

«Siete americano?» gli chiese subito il colonnello.

«Già. Ma ne manco dal ’90.»

Infatti nel 1790 la famiglia Murchison era emigrata in Australia. I due sedettero a un tavolino di mogano e accesero i sigari.

«Allora restate a pranzo con me» dichiarò Murchison.

Il colonnello accettò.

«È da molto che avete lasciato Londra?» cominciò Murchison.

«Da un anno» rispose il colonnello.

Parlò diffusamente delle ultime vicende napoleoniche, di cui l’ospite era scarsamente informato. Il discorso cadde su un poeta italiano amico del colonnello, ma Murchison ne ignorava l’esistenza. Allora Delfo parlò del commercio britannico. Murchison gli mostrò due medaglioni coi ritratti dei genitori.

«Venite, vi farò vedere il fiume» disse poi.

Uscì dalla stanza per ultimo, richiudendo adagio dietro di sé il bianco uscio segnato da un esile motivo floreale. Al di là del finestrone tremolavano all’aria le ultime fronde di un’acacia.

Usciti nel parco presero per un vialino di eucalipti che li condusse a una terrazza. A cento metri il fiume faceva una lenta curva adagiata sulle cupole verdi pallide degli alberi. Le lontananze dell’acqua erano intensamente bianche.

Il colonnello vestiva in divisa e s’appoggiava a una palizzata. Murchison indossava una redingote color crema e teneva in mano una tuba dello stesso colore. Guardavano entrambi verso il fiume. In quest’atto erano effigiati nell’arazzo in camera della signora Rosa Boni.

La signora Rosa Boni era vedova da dieci anni. Io la conobbi in treno un giorno d’estate che andavo da Roma a Pisa. Faceva molto caldo e le ore trascorrevano interminabili lungo un paesaggio monotono. Una signora piuttosto grassa era accomodata vicino al finestrino. Aveva il labbro inferiore spaccato. Non mangiò mai durante il viaggio: beveva di tanto in tanto un po’ di latte da un termos. S’era levata il cappello col velo e, tenendosi i capelli con una mano, guardava i monti passare lentamente sotto il sole. Scese verso le due: la vidi sul marciapiede ferma aspettando che il treno ripartisse per attraversare il binario.

Nella camera penetrava un po’ di luce dalla finestra che dava sulla strada. La signora si riposava nell’ora afosa. Ancora in dormiveglia, seguiva le ombre chiare dei passanti che nascevano in un angolo del soffitto per morire dopo un arco nell’angolo adiacente. I ciclisti si riconoscevano perché passavano più veloci. Nella strada si sentì il rumore della fontanella. Nella stanza s’intese il volo preoccupante d’una zanzara. Sul soffitto il passaggio era in aumento: la giornata caldissima spingeva la gente al mare. La signora Boni rifletté. Con qualche preparativo per l’arrivo del cognato avrebbe trovato le cinque; si sarebbe rivestita e una volta tanto sarebbe andata anche lei sulla spiaggia. Ogni volta la bagnina correva a prenderle una sedia e gliela metteva all’ombra di una cabina; poi, negl’intervalli del lavoro, le faceva compagnia. Davanti passava di continuo gente e fin dove arrivava l’occhio, nella calma un po’ allucinata del sole pomeridiano, la spiaggia era tutta animatissima.

Il cognato arrivò la mattina presto e fece a piedi il breve tratto di strada. La via era candida, i prati, intorno, verdolini, marino il cielo, leggera come uno straccio di fumo la linea in fuga della pineta. Arrivato alla casa entrò risoluto nell’androne dove la signora Rosa gli fu a ridosso: si baciarono sulle guance.

Passarono in cucina. La signora mise a scaldare il latte e apparecchiò.

«Questa è per te» disse il cognato posando una lettera sul tavolino.

Quando la colazione fu pronta si levò la giacca e cominciò a spezzettare il pane per inzupparlo. Intanto la signora Rosa, in piedi accanto alla credenza, leggeva la lettera della sorella. Alla fine sospirò e disse:

«È daccapo col suo male?»

«Daccapo» rispose l’uomo.

«Che hanno detto i dottori?»

«Che vuoi che dicano? Le solite buscherate per far spendere denari. Ormai non c’è più speranza.»

La signora Rosa fece le corna. L’uomo sorrise e la fissò, interrompendo di mangiare. Rosa guardò fuor di finestra le canne dei pomodori e, oltre il muro dell’orto, il letto del fiume ridotto a poche chiazze d’acqua lucenti nella mattinata. Quando la sorella fosse morta, lei non sarebbe finita in casa del cognato. Erano anni, dal principio della malattia, che quell’uomo cercava di farla arrivare a quest’idea, ma lei non poteva pensare a cambiar vita.

Il cognato era stanco del viaggio e lo fece stendere sul letto matrimoniale. Chiuse le imposte e uscì dalla stanza dando un’occhiata all’arazzo. «Chi sono quei due uomini, zio Andrea?» aveva chiesto una volta il più grande dei nipoti. Era stato l’anno stesso della morte di Andrea. Dieci anni erano passati. «Sono i Bucalossi» aveva risposto Andrea ridendo. Un tempo i Bucalossi erano padroni di mezza Cecina. Andrea l’aveva detto solo perché era un nome buffo e avrebbe fatto ridere il bambino.

Quando il cognato comparve in cucina era vicino mezzogiorno. Rosa era indaffarata intorno alle pentole. L’uomo andò nel minuscolo salotto accanto alla cucina e prese un libro dalla mensola. Era La trappola d’oro di Oliviero Curwood. Mentre leggeva sentiva la donna che, sempre dietro alle pentole, cantava: Gira rigira biondina l’amore la vita godere ti fa… Rifletté che quel valzerino doveva essere pieno di ricordi, per lei. Difatti Rosa l’aveva ballato quando era giovane. Riascoltandolo dalla propria voce, i tempi andati le tornavano alla memoria in un unico ricordo fuso, indistinto: e continuava a cantare trascinata da una dolce, voluttuosa tristezza.

Il pomeriggio andarono sul mare. Due o tre volte il cognato accennò all’imminente disgrazia della moglie, insistendo sull’affetto che i nipoti avevano per la zia. Rosa non disse mezza parola. Ma, a parte queste imbarazzanti allusioni, la conversazione fu piacevole, perché si aggirò sempre sul passato.

Cenarono prima di buio perché lui doveva partire, poi Rosa l’accompagnò alla stazione. Dopo il gran caldo del giorno l’aria era limpida e leggera. I due procedevano per la via lunga e piana, tra i campi decorati ordinatamente di festoni di viti sospesi da salcio a salcio. Di là dai campi si vedeva il muro del cimitero. Il cognato pensava con tristezza alla vita che lo riaspettava: la moglie moribonda, i figlioli, il lavoro. Invece Rosa non aveva fatto altro in tutto il giorno che ripensare al passato, con uno stupore che tante cose fossero avvenute nella sua vita e che, in definitiva, non ne fosse avvenuta nessuna. E ora guardava là dov’era sotterrato Andrea e pensava, a conclusione e a consolazione della sua giornata: “Com’è confusa e inutile la vita! E più è inutile e confusa più sentiamo il bisogno di affidarci alla Misericordia Divina. Il giorno che il Signore vorrà me n’andrò anch’io al cimitero e dormirò in pace accanto al mio Andrea”.