Uno degli ultimi pomeriggi di settembre la solita comitiva fece una passeggiata alle Balze. La campagna aveva ormai un aspetto autunnale: dalla valle saliva, pieno e profondo, il rumore dell’acqua; una ragazza cantava a un lavatoio lontano. Una vaga malinconia pungeva il cuore di Fausto, preludio della paura e della tristezza che dovevano impadronirsi di lui più tardi.

Apparvero le Balze nella luce ferma del pomeriggio. Le pareti si levavano vertiginosamente, e Fausto non poteva guardarle; il paese intorno era ugualmente nudo e chiaro. Gli altri apparivano allegri: solo Fausto era scosso dallo squallore del luogo. I giovanotti facevano i bravi sull’orlo del baratro, e tiravano le coccole alle ragazze. Una coccola finì addosso a Fausto. «Poverino, ci hai rimesso tu» gli disse la ragazza a cui era destinata; e Fausto ebbe un vago sorriso di riconoscenza verso quella persona grande che aveva badato a lui. Continuarono a scherzare così per un tempo interminabile.

Su un’altura a destra del baratro si vedeva la Badia. Era un’antica costruzione in abbandono che faceva da casa ai più poveri del luogo. I frati erano andati via da tempo, in previsione di una nuova frana che avrebbe dovuto inghiottirla.

«Una volta c’era un’altra Badia e molto più grande, anche» spiegò il fratello con enfasi. «È finita nelle Balze.»

Fausto rabbrividì: e si tese ad ascoltare il resto che, lo sapeva già, sarebbe stato terribile.

«Una notte il Priore ebbe una visione:» continuò il fratello «l’Arcangelo Gabriele in persona lo avvertiva che dovevano fuggire subito. Nella notte i frati fuggirono: quando intesero un rombo spaventoso: si voltarono, e la Badia non c’era più.»

«Dopo quanto si voltarono?» domandò Fausto.

«Eh… dopo un’ora.»

Due bambine spettinate giocavano lungo la via di cipressi. Il vento piegava visibilmente, a raffiche, la scarsa erba del pendio. I grandi sedettero addossati ai piedi dei cipressi, a dieci metri dall’abisso, e cominciarono il gioco del “paese”.

Fausto pensava a Anna che era nata lassù, alla Badia; gli tornavano alla mente i suoi racconti:

“Una notte un uomo cascò nelle Balze. Tornava a casa ubriaco e sbagliò viottolo… Quello che si ammazzò era un giovanotto che aveva il naso grossissimo. Stava fermo vicino alle Balze, a un tratto lo videro coprirsi gli occhi col fazzoletto e buttarsi in avanti.”

Il fratello dirigeva il gioco. Fausto cercò di seguirlo, ma vanamente. Il gruppo dei grandi gli era lontano: non la solita lontananza data dalla loro condizione di grandi, ma un’estraneità che lo gelava. Con lo sguardo e col pensiero tornò alla Badia. La vita era triste, lassù. Anche perché triste era stata la vita di Anna. Oh, se avesse potuto essere felice! Nelle sue fantasie gli avvenimenti più straordinari erano potuti accadere per costruire questa felicità: e lacrime di liberazione gli avevano riempito gli occhi. Ma un’ombra gravava triste su Anna. Un giorno si mise a piangere perché doveva partire: e Fausto empì invano la casa dei suoi urli disperati. Anna partì. Per dove? I suoi genitori erano morti da tanti anni: ella era sola al mondo.

Il gioco del “paese” era finito. I grandi rimasero in silenzio ad ammirare il tramonto, poi tutti si mossero. Scesero nella vallata opposta alle Balze; via via Fausto si voltava a guardare la Badia che scendeva anch’essa sul limitato orizzonte: finché scomparve. Quando furono in fondo alla valle, cominciarono a risalire. Altre volte, tornando di là, Fausto aveva visto casa sua emergere in alto segnata dalla luce in un’aria irreale e lontana: ed era un’immagine piena di dolcezza; ma questa volta la notte calava rapidamente e ben presto intorno a lui non ci furono che masse buie più o meno vicine a seconda che più o meno nere. Camminava fra gli altri, ma la compagnia, se arrivava a proteggerlo, non arrivava a rasserenarlo. Una volta a casa si cenò come sempre nel tinello, alla luce accecante del lume a petrolio. Lui faceva fatica a inghiottire, e la tovaglia, i bicchieri, i discorsi, i volti dei suoi cari, la stanza, i rumori della donna di là in cucina, lo sfrigolio della padella, tutto quello che aveva di familiare e di affettuoso, gli era allontanato da un freddo distacco. Quando la cena fu terminata, non ebbe il coraggio di andare subito a letto: aprì la porta e attraversando di corsa il piazzale entrò in casa dei contadini. Anche qui la cucina nera e fumosa gli apparve ugualmente lontana. Il capoccia dormiva con la testa sulla tavola, il gatto russava su una sedia e il cane ammusava da un canto. Fine faceva la calza vicino al fornello. Fausto si mise a sedere e ricominciò a pensare alle Balze. Era un pensiero che non l’assorbiva: parlava con Fine e ne sentiva i discorsi, ma ogni frase detta o ascoltata restava senza effetto a causa di quel pensiero.

«È una cattiva annata» disse Fine tranquillamente.

Mentre discorreva continuava a infilzare col movimento ritmico del gomito.

«Eppure è piovuto» azzardò Fausto.

«Troppo poco» disse Fine. «Oh, ne verrà di pioggia, non dubiti, ma a guastarci le olive.»

«Allora io non ci sarò più.» Presto il vento avrebbe cominciato a farsi cupo giù nella valle; gli olivi si sarebbero imbiancati voltandosi sotto le raffiche, e sarebbe scrosciata giù la pioggia, temporalesca prima, e poi monotona e diffusa per la campagna appannata. E come s’annunciava triste, pur nella sua vaga bellezza, la bacchiatura delle castagne! Nell’aria infoschita avrebbe aiutato le donne a raccogliere i ricci, guardando i bacchiatori agitare temerariamente le pertiche, e alla fine non ci sarebbero rimasti altro che il mucchio di ricci nell’aia desolata, e il castagneto spoglio. Il vento non sarebbe importato più. Scuotesse pure i castagni! I ricci erano nell’aia… come i morti nel cimitero.

Ma non erano finite le sensazioni paurose e tristi di quella giornata. Se ne accorse poco dopo quando Fine gli raccontò una storia avvenuta al suo babbo.

«Lei conosce il mio babbo, non è vero, Faustino? Allora saprà che è stato sempre un vagabondo. A diciott’anni faceva all’amore con una ragazza dei Borghi, e il padre di lei aveva giurato di ammazzarlo se lo trovava con la figliola. Dopo un po’ di tempo che le cose andavano a questo modo, la ragazza s’ammalò dal dispiacere ed era moribonda. Il mio babbo volle rivederla: montò su un cipresso vicino alla casa di lei, quando fu in cima diede una svettata, ed entrò per la finestra nella camera della ragazza. Mentre stavano insieme sentirono dei passi per le scale, e il mio babbo si nascose in una cassa che era piena a metà di mele.»

A queste ultime parole, Fausto sentì un remoto terrore affiorargli nell’anima; e si mise ad ascoltare avidamente. Fine aveva smesso di lavorare, come le accadeva sempre quando raccontava qualche storia.

«A questo punto la ragazza cominciò a peggiorare, e ricevette l’estrema unzione. Allora mandò via tutti fuorché il padre e quando fu sola con lui gli disse: “Babbo, vuoi farmi morire contenta? Ebbene, appena sarò morta inchioda quella cassa: la porterete al camposanto insieme alla mia bara, perché voglio che siano sotterrate una vicina all’altra. Giurami che lo farai”. Il padre giurò e lei subito morì.

«Il giorno dopo vestirono la morta e la misero nella bara. Vennero gl’Incappati della Misericordia, presero le due casse, e fecero il trasporto. Il mio babbo sentiva tutto: le preghiere con cui s’accompagnano i morti, i passi degli accompagnatori, e perfino il lezzo dei ceri. Di tanto in tanto ammorsava una mela.»

«Ma perché non gridava che c’era lui dentro?» domandò Fausto.

«Perché il padre della ragazza l’avrebbe ammazzato» rispose Fine. «Una volta arrivati al camposanto portarono le due casse nella camera mortuaria, il prete diede la sua benedizione e se ne andarono via tutti lasciando soli i becchini. Rimasti soli, i due becchini cominciarono a chiacchierare. In una parola erano curiosi di sapere che cosa ci fosse in quella cassa. Finalmente la curiosità ebbe il sopravvento: uno dei due prese un’accetta e con un colpo, plaf! spaccò la cassa in due. Il mio babbo, che stava sul chi vive, si levò in piedi: l’altro fece un passo indietro. Allora il mio babbo prese la rincorsa: il becchino tentò di dargli l’accettata nella schiena, ma le mele s’erano sparse in terra, mise il piede su una e andò lungo disteso sul pavimento. Il mio babbo infilò la porta e, svelto com’era, non fu ripreso più.»

A un urto del cane che gli aveva smosso la sedia, il capoccia s’era alzato. Sollevò la candela dalla mensola e l’accese. Fausto sentiva i suoi movimenti, ma non lo guardava: guardava fisso la pancia lustra del gatto alzarsi e abbassarsi soavemente. Senza nemmeno accorgersi della sua presenza, il capoccia uscì di cucina soffiando.

«Non ho capita questa dei becchini» disse Fausto respirando a fatica. «Perché lo rincorsero?»

«Volevano riprenderlo e sotterrarlo,» rispose Fine che aveva ricominciato a far la calza «perché non potesse dire a nessuno quello che avevano fatto.»

Fausto vide confusamente una figura giovanile nella sua corsa disperata verso l’uscita del camposanto. Pensò allo spasimo dei suoi movimenti per aprire il cancello o per scalare il muro, sotto l’inseguimento infernale dei becchini. Il raccapriccio gli gelò il sangue e, insieme, il corso dei pensieri.

Non fu più buono a parlare. Dopo un silenzio struggente, ebbe voglia di essere a casa sua; diede la buonanotte e uscì. Era buio fitto. Allora raggiunse al passo l’uscio di casa e restò seduto sulla soglia, voltandosi di tanto in tanto a guardare la luce che veniva dalla cucina, mentre l’ombra rassicurante del padre passeggiava per il piazzale. Una volta a letto non sarebbe riuscito ad addormentarsi. Avrebbe ascoltato gli altri andare a dormire, uno per uno, ultimo il padre che si chiudeva al cesso; poi sarebbe rimasto solo nel silenzio interminabile.

Non poteva non pensare al camposanto. Mentalmente distingueva il chiarore netto sulla linea del muro e, attraverso il cancello, i lumini tremolanti e le masse grigie delle cappelle che sembravano fantasmi in corsa. Il cancello rammentava un’altra storia di Fine. Uno per scommessa ci aveva dato una coltellata. La mattina dopo lo avevano trovato col pugno sul manico, morto. Com’era possibile che dopo avere infisso il coltello non fosse più stato capace di staccare la mano? Ma Fine s’era meravigliata di una domanda simile. «Io farei qualunque cosa,» aveva aggiunto «ma mai per scommessa.»

Era pieno di quelle immagini, e non poteva scacciarle da sé. Nella notte senza stelle la melodia accorata dei grilli lo riempiva di tristezza. Canticchiando, si ridiceva all’infinito la canzoncina del grillo che doveva sposare la formicuzza:

Quando fu sera
di là dal mare
s’intese dire
che il grillo stava male.
Quando fu notte
di là dal porto
s’intese dire
che il grillo era morto.

Perché il grillo era voluto andare lontano? Anche Anna aveva fatto così.

Solo nelle fantasie poteva mutare le cose che lo addoloravano. S’immerse nella creazione di una vita dove si stesse sempre insieme con gli esseri amati, dove i morti vivessero ancora, dove non ci fossero più tutte le cose tristi della terra, il camposanto e le Balze e la morte e l’infelicità.