Una volta fuori della pineta si trovarono davanti alla pianura deserta. La via puntava diritta alle case di Vada. Nuvoloni scuri correvano lungo la linea dei monti, ma Giacomo disse che non sarebbe piovuto.

Dopo quest’affermazione Fausto riprese coraggio e seguitarono a camminare ciascuno per suo conto. Ogni due o trecento metri incontravano un canale e la strada si rialzava sul ponticello: i canali finivano diritti in mare. Dietro la linea bassa del tombolo si levavano tre alberature.

«Andremo a vedere quei tre barconi?» domandò Fausto.

«Chi ti dice che siano tre?» fece Giacomo con mistero.

Poi cantò due pezzi dell’Otello. Infine si mise a declamare dei versi:

O mia casa! o mia casa che scricchioli al vento!

Arrivati su un ponticello, indugiarono a tirare sassi nell’acqua. Fausto prese la cosa sul serio e corse nel campo a portarne via uno che riuscì appena a sollevare. Fece per lasciarlo cadere ma Giacomo lo fermò.

«Due contro uno che ti schizzerai» propose.

Fausto si mise a ridere e mollò il sasso tirandosi indietro; ma parecchi schizzi lo raggiunsero ugualmente. Dopodiché Giacomo gli diede una pedata secondo la lettera della scommessa.

«Due contro uno che siamo a meno di un chilometro» propose Fausto alla sua volta.

Giacomo accettò. Egli sosteneva che non c’erano meno di milleseicento metri. Fausto propose di misurare la distanza contando i passi ma Giacomo non ne ebbe voglia e lanciò invece l’idea di raggiungere la spiaggia dove si vedevano le tre alberature. Quando l’ebbero raggiunta si trovarono davanti a un trealberi che caricava mattoni. Una diecina di uomini attendevano al lavoro, fermi a intervalli su una passerella curva sotto il peso. Altri si riposavano sotto incerate umide. Nell’aria c’era un penetrante odore di pece.

Giacomo si mise a osservare il lavoro.

«Dove credi che siano diretti?» domandò Fausto.

«All’Elba, immagino» rispose Giacomo.

S’avvicinò a un marinaio e glielo chiese alla sua volta. Tornando accennò di sì col capo.

Ripresero il cammino attraverso le dune mezzo coperte di tamerici. Era un cammino disagevole e finirono col tornare sulla strada. Il barcone aveva acceso la fantasia di Fausto che s’immaginava d’esservi imbarcato come mozzo. Frattanto mezzo cielo s’era schiarito.

L’aria risuonò del rumore di un treno. Fausto lo vide correre sul bordo della pianura: dietro il piccolo convoglio si levavano i monti. Il rumore aumentò e si mantenne costante. Finché fu possibile Fausto seguì con lo sguardo quel treno che correva nella sospensione della pianura.

La visione disperse i suoi pensieri. Gli vennero in mente i pomeriggi desolati in cui tornava da ginnastica. Per un tratto faceva la strada coi compagni, poi continuava solo, stanco e in disordine per le vie abituali, fra gli alti palazzi opprimenti.

A Vada si fermarono in un caffè. La lunga piazza alberata che avevano davanti era appena circoscritta dalle poche case e dalla chiesa; gli abbozzi di vie davano nella campagna. Sulla strada nazionale passava velocemente qualche macchina, apparizione nell’aria morta del crepuscolo.

Giacomo ordinò un bicchiere di birra.

«Com’è la birra?» domandò Fausto quando l’uomo se ne fu andato.

«Buona» rispose Giacomo. «Ristora.»

Fausto disdisse il tamarindo e prese birra alla sua volta, ma gli sembrò detestabile. Non finì il bicchiere e rimase in silenzio guardando intorno. Su un muro c’era un manifesto mezzo strappato che chissà da quanto tempo era lì.

Diceva:

QUESTA SERA LUBRANI

L’ILLUSIONISTA

IL RIVALE DI GABRIELLI

Una strana illustrazione di un uomo coi grandi baffi e di tre donne nude segate a metà completava il manifesto.

Brillarono i primi lumi.

Per qualche momento Fausto guardò lo sforzo degli aloni nascenti nella ragnatela del crepuscolo. Intorno le case scuotevano la loro fissità, animandosi nei contrasti di luci e di ombre.