Il treno si mosse e si allontanarono rapidamente il bianco caseggiato della stazione, la pensilina al centro delle rotaie, le aiuole, il silos, i vagoni distanziati nella campagna. A cento metri sfilarono le case di Cecina nella caligine calda del cielo. Il signor Valli lasciò il finestrino e prese posto in un angolo.
Grandi squadrati si succedevano lungo la corsa del treno, raddrizzandosi e tornando velocemente obliqui. Passavano case, alberi solitari e cavalli. Un’automobile filava lontano, rimanendo gradatamente indietro. Il signor Valli fumò una sigaretta, guardandosi di tanto in tanto le mani grosse e pelose.
A Campiglia scesero in tre o quattro. Sul piazzale della stazione, alla magra ombra degli oleandri, aspettava una vettura con le tendine abbassate. Le mosche e la polvere aumentavano la noia dell’ora. I viaggiatori montarono e il cavallo partì al trotto infilando la via lunga e monotona tra gli olivi e le viti.
Una volta in paese il signor Valli andò direttamente in ufficio. Verso le cinque passò a trovarlo la vedova del maestro Mori, che gli fece la storia della malattia del marito. Per tutta la sera il signor Valli restò sotto l’impressione di quel racconto: un’impressione mista di paura e di pena. Alla chiusura dell’ufficio passò a prenderlo Benso Mannoni, un giovanotto di Cecina impiegato alla miniera. Insieme ripresero la solita vettura.
«È una vergogna per il Comune» disse il signor Valli alludendo al servizio.
«Per il Comune?» fece eco Benso. «È una vergogna per il nostro secolo.»
Alla stazione il capo diede un fagotto al signor Valli. Una volta in treno quest’ultimo raccontò a Benso la fine del maestro Mori.
«Maledetto il male» disse Benso.
Il treno era affollato di operai che tornavano dalla miniera. Fuori dei finestrini le ombre dei vagoni si stendevano al di là dell’altro binario, segmentandosi sul balzo della scarpata. I grandi prati, i lontani monti e il cielo limpido erano illuminati da un sole dolce. E passavano nella corsa del treno quattro filari di viti allineati nel senso della ferrovia, una cantoniera fra le canne bruciate dei pomodori, una casa colonica su cui era scritto un nome della gente dei Gherardesca. Anche il castello di Bolgheri si avvicinava sul costone del monte, girandosi sotto la velocità del treno che divorava i chilometri. Gruppi d’alberi radevano la ferrovia scomponendosi, e si allontanavano immobili. I fili del telegrafo si abbassavano lentamente per rialzarsi distendendosi all’attacco del palo. A un passaggio a livello due ciclisti immobili dietro la sbarra guardavano passare il treno.
Avvicinandosi a Cecina il signor Valli e Benso smisero di parlare e s’immersero ognuno nei propri pensieri. Finalmente nella pianura apparvero le prime case di Cecina: la strada lungo la ferrovia era popolata da uomini e donne in bicicletta e a cento metri passò il camposanto illuminato festosamente dal sole. Il treno rallentò e scivolando sugli scambi entrò in stazione.
Una volta scesi, i due si fermarono in un gruppo dov’erano il padrone e il cameriere del ristorante, l’ex deputato di Massa e un possidente del luogo. Parlavano della decadenza del pugilato. Ci fu chi richiamò alla memoria i tempi in cui il “leone di Manassa” Dempsey si batteva con Firpo e con Carpentier.
Sulla porta del ristorante un signore anziano e un giovanotto discorrevano a bassa voce.
«Io ho fatto il soldato nell’Ottantasei» diceva il signore anziano.
Anche gli operai s’erano fermati a discorrere con i ferrovieri. In un gruppo due si sfidavano.
«La prova dev’essere quella che ho proposto io» diceva uno. «Dieci chili sulle spalle e trenta chilometri di cammino.»
«Sono molti quelli che hanno fatto come me» disse il signore anziano rispondendo a una domanda del giovanotto. «Cecina ha un buon clima ed è centrale. Parecchi pensionati si sono stabiliti qui.»