Nelly abitava con la mamma a mezza strada fra Cecina e Bolgheri. Le due donne lavoravano tutto il giorno. Nelly aveva cura delle pentole di gerani che ornavano le finestre, e si occupava dei polli. Era ferma sulla soglia del portichetto tenendosi il grembiule: il sole splendeva sull’erba del campo che esalava il fumido odore dei buoi.
Quasi ogni giorno Nelly saliva al podere superiore, dove stavano a pigione due sorelle, orfane, amiche d’infanzia. E qualche pomeriggio capitava la zia Elisabetta, che le portava i libri.
Nei momenti liberi, leggeva o stava alla finestra. Oltre i contadini i passanti erano rari. A volte passava Alfredo, il cacciatore. In quel tempo il fratello di Alfredo, Enrico, che era fidanzato con la figliola del vecchio Mannoni, partì per la guerra di Libia. Poi Nelly rimase incinta.
Una sera, per svagarsi, salì al podere di sopra. Le signorine non c’erano. I contadini attendevano alla sfogliatura del granturco davanti all’uscio di casa, sotto la vecchia pergola: uomini e donne erano rientrati dai campi e sfogliavano placidamente scambiando qualche parola nell’ultima dolce ora del giorno.
Il capoccia era un uomo severo, che incuteva soggezione anche a Nelly. Ella sedette nel gruppo e cominciò a sfogliare. Le sue dita scorrevano sulle lisce pannocchie; era fresco e si strinse nelle vesti godendo del mite lavoro. Alzando gli occhi vide Alfredo.
Era comparso sulla porticina che dava accesso al cortile e stava indeciso, col fucile a tracolla, polveroso e sudato. Avanzò salutando le donne con un cenno della testa e si mise a discorrere col capoccia. Quest’ultimo aveva fatto un segno: una ragazzina tornò con un fiasco e un bicchiere e Alfredo bevve alla salute dei presenti. I discorsi vertevano sulla caccia e sulla campagna; nell’imminente oscurità le parole degli uomini si succedevano tranquille. Nelly sfogliava macchinalmente, con gli occhi bassi: sentì che stava per piangere, ma non poté frenarsi: Alfredo l’aveva abbandonata, ed ella soffriva non per l’onore perduto, ma perché lo amava. Le lacrime le appannarono la vista del granturco e caddero. Ella si sentì insieme le guance bagnate e il cuore grande grande, come quand’era bimba.
Fu l’ultima volta che vide Alfredo. Continuò a vivere con la mamma anche dopo la nascita del bambino: i contadini la chiamavano signora invece di signorina: tranne questo, niente era cambiato.
Il pomeriggio le due donne lavoravano ancora dietro la finestra che dava sulla strada. I passanti erano rari… tutto era pace e serenità. L’ombra della casa si allungava sempre più scalando il muro di fronte. Cadeva la sera, dovevano pensare a preparar cena.
Era l’alba. Non c’era nessuno nelle vie di Cecina: le case erano immerse nel loro tacito sonno, simile a un ronzio lontano e interminabile. Ma molti fra gli abitatori smaniavano rivoltandosi nelle lenzuola, o nel sonno avevano gli occhi pieni di lacrime.
Fuori del paese i campi soffrivano nell’immoto stagno della luna, e la rugiada inargentava le stoppie. Le case erano senza vita: ferme sulle alture e negli squadrati deserti.
Alfredo andava nella campagna sommersa, pensando alla caccia; ma nell’intimo era punto dall’immane sfinimento dell’alba. Al primo casale c’era luce nella stalla, e un’ombra attraversava l’aia con un bigoncio, facendolo tintinnare. A oriente le colline scuotevano già la stanchezza. Alfredo seguiva sempre il filo dei suoi pensieri, e sbigottì vedendo sbiancato il cielo, incorporeo il fragile cerchio della luna, e i monti liberati dal suo vigile riflesso.
E fu l’aurora, Alfredo. Dietro i monti si accese un lago rosso, e rosse saette via via più acute striarono l’altezza del cielo. Alfredo lasciò la strada e prese un viottolo attraverso i campi, voltando le spalle alle fiamme dell’orizzonte. Andava verso la macchia di Bolgheri, verso il mare. Alle sue spalle i raggi radevano i crinali perdendosi davanti al suo sguardo nella purezza cadente del cielo. Il chiarore conquistava velocemente l’ultima fascia di cielo, il cielo sospeso sul mare, svegliandolo dall’incantesimo dell’alba. Una striscia di mare si colorì: si allargò: una carezzevole gioia era distesa sull’intatta superficie azzurrina. Poi anche Alfredo si sentì preso, e voltandosi vide l’occhio del sole affacciato tra due monti.
Alle cinque Alfredo riprese la via di Cecina. Al bivio trovò un barrocciaio che conosceva e fece un pezzo di strada al suo fianco. Le parole si perdevano nell’aria quieta del pomeriggio; la pianura era una lunga distesa di sole; gli oliveti lontani avevano scosso la pesantezza del giorno e risaltavano in una placida festosità. Per la strada c’era viavai di contadini che tornavano dal mercato. Alfredo lasciò la strada e continuò solo verso la Cinquantina.
Attraverso l’aria immobile veniva uno scampanio insistente e malinconico. Qualcuno s’era spento nel paesino emergente appena dalla quiete laboriosa della pianura: là dove salivano, cullati dal vento, i fuggevoli fumi delle ciminiere. Alfredo guardò il cielo. Una nuvola bianca sostava nell’uguale altezza, come un incerto presagio. Lo scampanio era finito, lasciando un’eco nel vuoto spazio del cielo.
Il giovane fiutò l’aria e s’immerse nei dolci pensieri della caccia. Il passo stava per cominciare. La stagione si manteneva propizia: a centinaia le starne pascolavano nelle saggine e nei medicai, spingendosi a beccare i semi insepolti fra le zolle brune che ancora mostravano il taglio lucente dell’aratro.
Alfredo arrivò alla Cinquantina senz’accorgersene. La vecchia villa un tempo soggiorno di Domenico Guerrazzi era silenziosa, come disabitata, di fronte al vecchio parco in rovina. Il portone era chiuso, ma Alfredo spinse un cancelletto laterale e i passi risuonarono sull’ammattonato della corte. Polli e tacchini razzolavano in giro. Alfredo richiamò il cane e, girato l’angolo, entrò in una cucina di contadini. Diede una voce per le scale e sedette nella penombra, tra un ronzio invisibile di mosche.
I vetri attenuavano lo splendore del giorno morente. Alfredo accese una sigaretta e fiotti di fumo gli uscirono dalla bocca e dal naso nella mezza ombra dove stava; e così lo trovò il contadino che era un uomo quasi vecchio.
Quando uscì, un ultimo riflesso giaceva sul piazzale. Spinse un altro cancelletto e attraverso il prato si diresse verso la strada, con a fianco la lunga ombra leggera. Il riflesso sostava acceso qua e là fra le tenui ombre sproporzionate tingendo la verde erba soffice.
Non aveva fatto cento passi che si vide venire incontro il vecchio Mannoni, il futuro suocero del fratello; e si fermò a discorrere con lui. Il vecchio Mannoni cominciò a parlare di una partita di grano, ingolfandosi in uno dei suoi discorsi lenti e confusi. Alfredo l’ascoltava con rispettosa attenzione. A un certo punto il vecchio tirò fuori un fascio di carte.
«Ecco qua» disse. «Ti sembra possibile?»
Senza volerlo aveva tirato fuori anche una lettera. Mentre ascoltava, il giovane leggeva e rileggeva l’indirizzo:
Distinta signora
Orsola Mannoni
Via Garibaldi 6
Cecina
La pianura era chiusa da molli ondulazioni che sfumavano nel pallore del cielo. E svaniva nell’aria attonita l’immoto chiarore del giorno.
Il vecchio Mannoni parlava del futuro genero:
«Chissà dov’è ora» disse tristemente.
Alfredo scrollò il capo.
«Fatevi coraggio» disse poi. «Non ci sarà sempre la guerra.»
«Oh, buon Dio!» esclamò il vecchio. «Speriamo che tutto finisca presto.»
Si separarono e Alfredo continuò il suo cammino nella nuda luce del crepuscolo, per la muta campagna dove risaltava il bianco spento della via.