Nelle prime ore di un pomeriggio festivo, quattro Accademisti della Farnesina e un giovanotto in borghese s’intrattenevano nel bar al capolinea del tram che sale a Monte Mario.

«Cin cin» disse Giovanni Trevisan alzando per primo il bicchiere.

Gli altri lo imitarono. Il giovanotto in borghese vuotò d’un sorso il suo e lo depose sul banco schioccando le labbra; diede un colpetto alla tesa del cappello buttandolo indietro, e disse:

«Io vado con Sancisi e tu che fai Trevisan?»

«Io non vengo» rispose Trevisan. «Non so che farmene dell’aria pura.»

«Saremo in Galleria verso le sei» continuò imperturbabile il borghese.

«E poi che faremo?» domandò Trevisan con tono cambiato.

L’altro finì di accendersi la sigaretta e disse:

«C’è qualche buon varietà; o possiamo provare a quell’indirizzo.»

Prese per un braccio Sancisi e salutò gli altri con un gesto circolare. Una volta fuori disse a Sancisi:

«Quell’imbecille m’indispone! Cristo! Cosa crede di darci a bere? Scommetto che non ha mai avuto il coraggio di fermare una donna da tanto che onora Roma della sua presenza.»

«Ma a quel paese…» disse Sancisi. «Al suo paese tutti i ragazzi che nascono sono suoi.»

L’altro rise. Si chiamava Di Belmonte: era biondo, piuttosto alto ed esile; aveva le labbra carnose, il naso leggermente in su, e gli occhi chiari.

Camminavano tra due file di tipici villini della periferia. Le rotaie del tram correvano ai lati della strada, che si rialzava al centro in una lucida curva di asfalto. Gruppi di persone passeggiavano nell’aria tranquilla: intere famiglie, coppie, serve e soldati. Il sole luccicava sulle rotaie: le ombre delle case e delle cancellate si stendevano attraverso la via. I villini finirono e la via continuò chiusa a sinistra da un muro e libera, a destra, verso un pendio verde dove il vento scorreva leggermente. Sancisi e Di Belmonte presero da quella parte e si fermarono in alto dove più intensa era l’azione del vento. Guardando verso la città videro un gruppo di vecchi alberi coi tronchi rossi e le fronde intatte. Dei gridi si levavano dietro quegli alberi; e alcuni ragazzi sbucarono di corsa fra i tronchi per scomparire nuovamente.

I due si sdraiarono e rimasero un pezzo senza parlare, guardando l’erba mossa dal vento, le chiome ombreggiate dei lecci, il sole impresso nitidamente sulla campagna e sulla città, e i lontani monti azzurri soffusi della tiepida aria invernale.

Di Belmonte aveva tirato fuori un mazzo di fotografie. Giocherellava con un filo d’erba mentre l’altro esprimeva il suo giudizio sulle ragazze che via via passavano tra le sue dita. Improvvisamente Di Belmonte sputò il filo e riprese le fotografie dicendo:

«Credo che tu abbia guardato abbastanza. Non vorrei che la notte ti facessero un cattivo effetto, all’Accademia.»

Sancisi ebbe un accesso bestiale di riso:

«Davvero!» esclamò. «Sempre rinchiusi come…»

Di Belmonte lo interruppe dicendo:

«Se ci muoviamo ti porterò da Nino. Posto che ti piacciano i sedani è quello che fa per te.»

Sancisi si alzò, e fecero una lunga passeggiata su Monte Mario.

Gli ultimi riflessi sui monti s’erano spenti. I due si fermarono davanti a una casa stinta, immobilmente remota nell’aria grigia del cielo. Intorno girava un piazzale chiuso da una rete metallica: in questa era aperto un cancello di legno sormontato da un arco con su scritto: TRATTORIA. Pochi tavoli deserti erano allineati sul belvedere verso la città.

Sancisi e Di Belmonte entrarono in silenzio. Di là dalla rete si stendeva un campo in cui razzolavano le galline. Da una parte la terra appariva zappata di fresco; in fondo c’era una carciofaia.

I due sedettero su una panca. Un uomo in maniche di camicia uscì dalla casa e venne alla loro volta. Ordinarono sedani e vino bianco. Di lassù vedevano la linea delle case del quartiere di Montesacro, lontana nel crepuscolo della pianura. Sterili o coltivati a ortaggi, i campi scendevano in un declivio irregolare limitato da gruppi d’alberi.

Una voce intonò debolmente una canzonetta. Istintivamente i due guardarono da quella parte. Una ragazzetta scendeva per il sentiero che segnava il fondo dell’avvallamento. Era una figurina scura che si muoveva nell’aria immobile. La sua voce arrivava lassù debolmente.

Vicino l’uomo in maniche di camicia annaffiava le piante. Si udivano distintamente i suoi passi, il fruscio misurato dell’acqua; e il cigolio di un tram che si allontanava.

Sancisi e Di Belmonte alzarono i bicchieri.

«Salute» disse Sancisi.

«Cin cin» rispose Di Belmonte alla maniera di Giovanni Trevisan.

Nella strada si sentì venire una macchina che rallentò fermandosi davanti al cancello. I due si avviarono verso l’uscita. A mezza strada incrociarono i proprietari dell’auto: un uomo e una donna, alti ed eleganti. La donna aveva un corpo splendido ed era molto dipinta. L’uomo era fra i trenta e i quarant’anni. Aveva una faccia aristocratica e vigorosa; teneva il cappello in mano mostrando il cranio lucido e le tempie quasi grigie. Stettero qualche minuto in piedi ad ammirare il panorama, poi sedettero e ordinarono una cena caratteristica a base di carciofi.

Il crepuscolo infittiva. I monti infoschivano e sempre più indistinti erano i contorni della pianura punteggiata di luci.

All’osteria di Nino la coppia aveva finito di mangiare. L’uomo aveva avvicinato la sedia e passato un braccio intorno alla vita della compagna. Le loro gambe si toccavano. Avevano mangiato e bevuto in abbondanza e l’uomo, guardando il corpo splendido della donna, si sentiva pieno di desiderio.

La notte era scesa, propizia all’appagamento di quel desiderio.