Nel 18…, la prima nave di deportati gettava l’ancora nella baia di Sidney. Dànroel, il piantatore, la salutò dall’alto del promontorio. Nugoli di gabbiani sbattevano le sottili ali bianche sulla superficie luminosa del mare.
Nel chiaro pomeriggio Dànroel era in piedi davanti alla casa; la moglie seguiva con lo sguardo una scena di caccia. Una lepre correva sulla sommità di una collinetta inseguita dai cani: il cacciatore la indicava col braccio ai servi. Un’ora dopo, al crepuscolo, la casa era impressa sullo sfumato verdolino della foresta. Le chiome degli alberi erano leggere macchie in cui si distinguevano le nervature dei rami.
La nave fluttuava nella solitudine del mare. Gli uccelli stridevano intorno alle alberature, girando in fitti nugoli sulla superficie lucente dell’acqua.
Lasciarono in quarantena la nave secondo la consuetudine e quando il capitano si recò dal governatore per ottenere il permesso di sbarco salì la collina dove abitava il suo vecchio conoscente Dànroel.
I due uomini parlarono delle usanze dei vari paesi e il capitano raccontò a Dànroel dell’America e di alcune meraviglie naturali che vi si possono ammirare, quali le cascate del Niagara e il ponte di roccia nella Virginia. Ma Dànroel, in cuor suo, preferiva la vita arcadica dell’Australia, dove gli abitanti passano il tempo nelle cacce e nei balli campestri.
Il capitano fece all’altro una lunga storia di un forzato che era evaso; ma la sera Dànroel voleva raccontarla alla moglie e non la ricordava più esattamente. Era la storia di un forzato innocente che per evadere colpiva a morte la sentinella: quand’ecco riconosceva in questa l’uomo che gli aveva salvato la vita… O forse era il contrario, la sentinella sparava sul forzato e riconosceva in lui il suo salvatore.
L’altura era incorniciata dai gonfi panneggiamenti degli alberi. Al di là di uno slanciato ponticello un cavaliere in redingote era chino verso la dama seduta ai piedi di un albero gigantesco. E una carrozza filava lungo il bosco seguita da un cavaliere che aveva il fucile sulla spalla. Le fronde gialline e spumose degli alberi si libravano nel chiarore infinitesimo; il cielo lontano guardava su una terra invisibile.
Il capitano spiegò a Dànroel come si caccia l’uccello lira nella foresta australiana. È un sistema simile a quello usato per le beccacce in Granbretagna. E Dànroel la notte, in sogno, vedeva la foresta australiana con le radure di erbe alte dove i cacciatori sparivano fino al petto, chiuse dal buio degli alberi più diversi: gigantesche euforbie candelabro, eucalipti che salivano forando le cupole di verzura degli altri alberi, palme ombrellifere con le fronde simili a felci, terminanti in muscose infiorescenze…
Era il più bel paese del mondo.
Il giorno dopo ebbe luogo lo sbarco. Nel pomeriggio il tempo cambiò: il mare era mosso; la nave abbandonata dondolava i suoi alberi nel cielo minaccioso; sull’albero maestro sventolava senza posa la bandiera della Madrepatria. Il piantatore era davanti alla casa: e la vastità dell’oceano empiva le sue azzurre pupille, il rumore delle onde che s’infrangevano lungo la spiaggia solitaria giungeva ai suoi sensi in ascolto. La moglie cullava il bambino dondolando l’amaca.
Dànroel aveva invitato il capitano per la Pasqua dell’anno seguente; ma passò molto più tempo prima che i due potessero rivedersi. Appena smise di piovere Dànroel si mise in viaggio. Un servo andava avanti con un cavallo su cui era caricato il bagaglio; il piantatore e la moglie seguivano su un altro cavallo: la moglie teneva in braccio il bambino. I verdi campi limitati da scure siepi irregolari sprigionavano l’umidità imbevuta. I passi dei cavalli risuonavano secchi sulla polvere asciutta della strada.
Molti anni dopo il capitano si trovava di stanza a Paramatta. Passava la carrozza di un piantatore agiato. Il capitano, riconoscendo Dànroel nell’interno della carrozza, salutò col braccio l’ospite di un tempo.
In quegli anni il capitano viaggiò molto, nell’interno e nelle isole. Egli fu presente a una convenzione fra bianchi e selvaggi nella terra dei Papua. I suoi compagni avevano in testa le feluche napoleoniche, e indossavano giubbe azzurre e calzoni rossi. Lance e fucili furono legati insieme e tutta la notte i selvaggi danzarono in onore dei gentiluomini bianchi seduti alla fiamma di un tripode.
Il capitano viaggiava nel paese dei Cogàri, selvaggi feroci per la maggior parte mangiatori di carne umana; e cadde loro prigioniero. I suoi compatriotti furono sbranati dai cani ed egli stesso, legato a un palo, dovette assistere all’empio spettacolo. Scoppiò una lite fra i selvaggi e due di loro, al centro del gruppo, si colpirono a morte con le clave: il sangue colava spruzzato in terra e sui corpi.
Nel cuor della notte il capitano riuscì a sciogliersi e a fuggire. Con una piroga raggiunse l’isola di Norfolk, dopo diciassette giorni e diciassette notti di navigazione. In seguito fece il giro di tutti quegli arcipelaghi.
Vide due Carolini, un uomo e una donna, danzare seminudi davanti alla loro capanna. Vide, nell’isola Guam, il grande nido del vitelmarino. In quella stessa isola ebbe la ventura di assistere a un funerale degli indigeni. I selvaggi avevano posto il defunto sulla pira. Mentre le fiamme lambivano il cadavere, il capitano, immobile in un gruppo di compatriotti, pensò alla fortuna che aveva avuto nella vita il suo conoscente Dànroel.
Quell’anno stesso fece ritorno in patria, dopo tanti anni di assenza.
La sera era calata. Il vecchio capitano vedeva balenare, riflessi nei vetri della piccola stanza, i ricordi delle sue notti nella foresta australiana. E mentalmente pregava per gli uomini che aveva conosciuto, primo fra tutti Dànroel.