La signora Rosa Boni scese alla penultima fermata del tram, secondo le indicazioni del fattorino. C’erano, da una parte, alcuni eucalipti; dall’altra il quartiere (Rosa ricordava vagamente). Il quartiere si stendeva per poche centinaia di metri sulla dorsale di una collina ed era formato, si può dire, da una sola strada longitudinale da cui si dipartivano alcune brevi traverse che dopo poche case finivano: l’asfalto si arrestava con un taglio netto facendo posto all’erba. C’era molta aria, in quel quartiere sospeso tra due profonde vallate erbose. Di là da una di queste, sulla collina di faccia, si profilavano controluce i villini di un altro quartiere e, più in basso, alcuni uomini lavoravano negli orti silenziosi. I loro gesti apparivano misurati, l’erba verde e tenera: sembrava di udire il rumore della terra smussata dalle vanghe.
La signora Rosa camminò tra quelle case un poco eterogenee: c’era tra gli altri un edificio alto, di costruzione recente, e davanti, seduto su una sedia, stazionava il portiere.
“Che ciccione” pensò Rosa passandogli davanti. La strada era solitaria, il quartiere immerso nel silenzio. L’occhio spaziava lontano, verso le colline sparse di casali, pezzate di boschi rossi, oltre le quali si levavano i monti, azzurri e nitidi nella mite giornata autunnale.
Poco dopo Rosa vide il nome desiderato; svoltò e, fatti pochi passi, riconobbe la casa di Virginia. Era un edificio giallo, piuttosto allungato, con due porte sul davanti; tra due finestre era appesa una fila di panni. Il sole batteva sulla facciata, sprizzando il riflesso dai vetri parlanti. Tra la casa e la strada correva l’intervallo di un prato: in mezzo al prato c’era un bambino biondo. Una voce di donna chiamò dall’interno della casa e il bambino si mosse, scomparendo in un uscio aperto.
Rosa attraversò il prato e suonò proprio a quell’uscio. Venne la stessa Virginia coi capelli non più nerissimi e tutta spettinata. Le due donne si abbracciarono con effusione e Virginia, sempre parlando, condusse Rosa in salotto. Aprì gli scuri dando luce alla stanza, mentre Rosa si scusava di essere venuta senza avvertire.
«Come va a Cecina?» domandò Virginia quando furono sedute. E senza aspettare risposta esclamò: «Chi l’avrebbe immaginato. Erano dieci anni… o più?».
«Cinque o sei» rispose Rosa sorridendo. «C’era anche Andrea, quella volta.»
Virginia sostenne le spese della conversazione, se è lecito esprimersi in questo modo: perché la conversazione nasceva dal cuore, cioè da sé.
«Come va tua sorella?» domandò Virginia.
Rosa fece una smorfia. «Sai che il petto è stato sempre il suo debole» aggiunse.
Il bambino biondo entrò nella stanza e si andò a cacciare tra le ginocchia della mamma.
«Eccolo questo lazzarone» disse Virginia cercando di ravviarlo.
Si alzò per andare a fare il caffè, e il bambino uscì con lei. Rimasta sola, Rosa contemplò, dalla poltrona dov’era seduta, i quadri e i ritratti alle pareti. Preso il caffè uscirono sul prato. Il sole già basso sull’orizzonte accentuava la dolcezza della facciata gialla. Virginia e Rosa andarono verso il pollaio. La casetta vicina era immersa nell’ombra silenziosa del pomeriggio. Ci correvano intorno tre ragazzine: la più piccola inseguiva le altre due che si nascondevano e, scoperte, fuggivano di nuovo con gioiosi gridi di panico. Il bimbo biondo le guardava con invidia attraverso la rete metallica. Poi, per spirito d’imitazione, si mise a inseguire le galline che scapparono starnazzando; richiamato dalla madre si rassegnò, e si stese con la pancia sull’erba.
Dalla casetta uscì una donna di mezza tacca che salutò Virginia e guardò Rosa con curiosità. Virginia fece la presentazione e le due donne si diedero un dito attraverso la rete. La vicina sembrava soprappensiero, e alla fine esclamò:
«Ma questa è quella sua parente! Mi sembrava di conoscerla.»
«Proprio così» disse Virginia. «Credo di avergliene parlato spesso.»
«Di Cecina, non è vero? Dalla parte della Spezia, mi pare.»
«Un po’ più giù» rispose Rosa.
La vicina spiegò di averla conosciuta proprio in quel punto, una quantità di anni prima. «C’era anche suo marito» disse. «Come sta ora?»
«È morto» rispose Rosa.
«Senti» disse la vicina. «Che disgrazia!»
Poco dopo arrivò il marito della vicina in bicicletta. Ci fu una nuova presentazione. L’uomo stette un po’ lì tentando di far dello spirito; ma, tirate le somme, Rosa lo trovò scipito.
«Bisogna che vada» disse.
«Così presto?» fece Virginia.
Si congedarono dai vicini.
«Sai,» disse improvvisamente Virginia «se tu fossi venuta il mese prossimo, non mi avresti trovata più.»
«Come? Perché?»
«Perché ce ne andiamo. Gli affari vanno male, Rosa, Pietro è sul punto di cambiar lavoro. Gli hanno promesso un posto a Napoli; emigreremo laggiù.»
E poiché Rosa sembrava incredula, aggiunse:
«Sul principio mi pareva quasi impossibile. Da dodici anni in questa casa e… si vede che è il mio destino di andare sempre più giù: da Cecina a Roma e da Roma a Napoli. Troverò un nuovo ambiente, e chissà quante difficoltà. I meridionali mi piacciono poco; e dei luoghi non ne posso nemmeno sentir parlare: non li ho mai visti, ma così, all’idea. Non riceverò più visite di compaesani, perché Napoli è lontana…»
Concluse:
«La gente come noi deve temere i cambiamenti.»
Rosa pensava al marito. Erano vissuti insieme quindici anni, poi, improvvisamente, Andrea era morto.
Virginia chiamò il bimbo e accompagnò Rosa sulla strada, dove si salutarono.
Il portiere grasso era ancora al suo posto. Uno scampanio veniva di lontano dalla parte della città. Le cose vibravano a quel suono lontano. Rosa camminò ancora più adagio. Lo scampanio l’aveva sbalzata fuori del tempo: pensò al marito morto, alla sorella, ai parenti, ad altri visi ancora, ma ciò che aveva nel cuore scivolò sulle loro immagini e restò solo, senza significato.